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La prima volta è stato, ahinoi, quasi mezzo secolo fa. Facevo il mestiere di aspirante giornalista, Gulp usciva ancora in ciclostile, le matrici si compravano da Fadda, in Via Garibaldi, si stampava con il ciclostile nella sede Giac di via S. Lucifero. Pierfranco amava portare il basco, stringere un sigaro tra i denti, qualche volta. Così, almeno, mi pare di ricordare. Ed amava il teatro. Poco più che adolescente, già di teatro viveva. I luoghi, almeno quelli, li ricordo con precisione, nel triangolo tra piazza Repubblica, piazza San Saturnino e via Grazia Deledda. Più tardi via Sulis. E poi il Dettori, il liceo prediletto dalla borghesia cagliaritana. Con le sue sezioni riservate alle élites.
Un giorno gliel’ho chiesto a bruciapelo, al preside Rachel, che tutti chiamavano “Pampurio”, correva l’anno di grazia 1968: Esiste una selezione di classe all’interno del liceo? Gli altri docenti presenti, di fronte ad una domanda tanto impertinente, erano ammutoliti. Ma Pampurio aveva risposto senza batter ciglio: “Di fatto esiste – aveva risposto testualmente – Ciò dipende dal fatto che certi genitori si preoccupano di avere per i loro figli i docenti migliori ….”. Qualche anno più tardi, pescato dalla graduatoria, venni chiamato al Liceo Dettori per una supplenza di Filosofia. Mi presentai il meglio possibile, senza eschimo, probabilmente in giacca e cravatta, ma i cappelli troppo lunghi, o qualche altro particolare, scoraggiarono il preside: la supplenza scomparve. Conservo qualche rara fotografia di quell’epoca. Attendo che i miei figli siano abbastanza grandi per potergliela mostrare. Pierfranco era peggio di me. Non solo per il basco. Credo che già dormisse dove gli capitava. Eccentrico, come si conviene ad ogni artista che si rispetti, irriducibile bohémienne. Al principio pensavo persino che si atteggiasse, in fondo eravamo poco più che ragazzini, anche se io con qualche anno più. Ed invece il teatro era davvero la sua vita.
Il liceo Dettori. E’ lì che è incominciata la nostra storia. Pierfranco aveva avuto l’ardire di presentare proprio in quel liceo nientemeno che “la Storia dello zoo”, un dialogo che voleva coinvolgere lo spettatore nella critica alla società americana degli anni ’60. La provocazione toccò nel segno, se è vero che suscitò forti reazioni, soprattutto negli ambienti più conservatori dell’epoca. Si trattava di un dramma, scritto nel ’60, che aveva avuto difficoltà ad essere rappresentato persino negli Stati Uniti. Una straordinaria e geniale scelta coraggiosa, si direbbe, da parte di un ragazzo di neppure 18 anni che già si cimentava, senza timori reverenziali, con il teatro d’avanguardia.
Scelta non da tutti apprezzata. E’ vero che si incominciavano ad occupare le facoltà, anche a Cagliari, ma gli effetti della contestazione giovanile sulla morale comune ancora non si potevano apprezzare. Il preside lo espulse dalla scuola, mi pare di ricordare, il parroco di San Lucifero, mons. Lepori, tuonò dal pulpito, la domenica successiva, contro gli autori di una rappresentazione teatrale che offendeva la morale e corrompeva la gioventù. Pierfranco fu sottoposto ad un linciaggio in piena regola, il suo dramma definito un “Festival del sesso”.
Fu in quella occasione che conobbi Pierfranco Zappareddu. Forse per quella sindrome da boy scout che ci caratterizzava, noi che venivamo dal mondo cattolico, che ci faceva correre in aiuto di chiunque si trovasse in difficoltà. E la difficoltà di Pierfranco era reale, ed era seria. Veniva additato come se fosse un untore … ed era ancora così giovane, nonostante le maturità artistica, nonostante il suo basco, nonostante il sigaro…. Dedicammo al caso diverse pagine del giornale. Per difendere la scelta di Pierfranco, evidentemente. Intervistammo diversi studenti del Dettori per cogliere le loro impressioni. Alcuni chiesero di mantenere l’anonimato. Risposero con nome e cognome: Massimo Falchi (5°a), Roberto Saba (5°e), Luciano Medda, Giovanni Salotto, Cicci Pischedda, Antonello Demurtas (3° liceo). Se qualcuno di loro conserva ancora qualche ricordo, batta un colpo! Pupo Marras scrisse una breve critica del dramma di Albee, io ne scrissi nell’editoriale. Pierfranco Zappareddu rilasciò un’intervista. Probabilmente, la sua prima intervista.
Affermò che le scene “pesanti”, così le definiva, avevano solo lo scopo di scuotere il pubblico e costringerlo a captare la problematica che il dramma voleva rappresentare. Una delle accuse che gli furono mosse, fu quella di “partecipare ad ambienti e circoli di sinistra”. Accusa che definì gratuita, e diceva la verità, la politica non era in cima ii suoi pensieri. Lo straordinario, semmai, è che il solo sospetto di essere di sinistra, in certi ambienti della città, potesse provocare condanna ed emarginazione. La verità è che già eravamo di sinistra, ma non ne avevamo ancora la consapevolezza.
Fu così che incominciai a frequentare Pierfranco, o lui me. E’ come se operassimo, in quei tempi di rapidi cambiamenti, ciascuno in un diverso ruolo: lui faceva teatro, io facevo un giornale, altri incominciavano a fare politica. Continuavamo ad essere diversi, anche se entrambi, pur nei diversi ruoli, avevamo sicuramente un grande ideale in comune. In quei pochi anni, Pierfranco maturò una straordinaria esperienza teatrale. Presentò a Cagliari due rappresentazioni di grande impatto. Ricordo “Il mostro di Harlem”, nella facoltà di Lettere, ed il “Marat-Sade” nella sede del Giardino d’Inverno, in via Manno, che per anni avrebbe ospitato Manifesto.
Naturalmente, ogni sua nuova performance teatrale era oggetto della nostra attenzione. Il suo genio mi affascinava. Era assai più trasgressivo di quanto non lo fossi io. Viveva l’avanguardia, la sperimentazione più avanzata, leggeva, si aggiornava in continuazione. Quando mi spiegava le tecniche e le forme di preparazione degli attori utilizzava la gestualità delle mani, si fermava, per rappresentare meglio il suo discorso, come se, osservandolo, tu potessi meglio comprendere il concetto che cercava di trasmetterti.
Lina aveva 16 anni, nel piccolo locale di Via de Gioannis, neofita aspirante attrice, quando Pierfranco le disse di lasciarsi semplicemente cadere da una sedia in modo naturale, il regista voleva osservare, appunto, la sua capacità di rappresentazione di un gesto naturale. Lina non proseguì quella carriera, ma ricorda di quel regista una grande professionalità, un grande rispetto per le persone. Aveva il basco, sì, l’aria da “grande”, ma era appena poco più di un ragazzo, non aveva ancora più di 20 anni.
Nell’ultimo periodo, Pierfranco ed il suo gruppo avevano trovato ospitalità in una sala dell’Annunziata, spero che la memoria non mi inganni. Era concentrato soprattutto sulla preparazione dell’attore, che doveva essere coinvolto globalmente, nella mente e nel corpo, ciò comportava uno sforzo fisico e mentale a volte tremendo. Le prove, che qualche volta mi capitava di intravedere, impegnavano i suoi attori sino allo spasimo. In quel periodo, preparava un nuovo spettacolo, non ricordo quale, Gulp usciva ormai in tipografia, ed io davo una mano a Pierfranco nelle relazioni con la stampa. Avevo in mano un comunicato relativo ad un suo imminente spettacolo, che non vide mai la luce. Fu lui ad andarsene, quasi all’improvviso, credo che fosse il 1971, per inseguire il suo sogno d’artista all’Odin Teatret di Eugenio Barba.
Ciò che accadde dopo, quando tornò, ripartì e ritornò, non mi appartiene. Ora che se n’è andato, senza aver più in programma di tornare, sollevo gli occhi e vedo che la foschia guadagna un altro pezzo di orizzonte. Formidabili quegli anni, avrebbe detto un altro compagno, che avrei incontrato solo qualche anno più tardi. E formidabile ragazzo, non solo di teatro, Pierfranco, già d’allora. Mi ritorna in mente, chissà mai perché, proprio all’angolo tra via Grazia Deledda e via S. Eusebio, con il basco, con l’eschimo, con una sigaretta in mano, con lo sguardo appassionato di chi vuol convincerti di come siano belli i suoi sogni. Mi ha convinto, allora. Altri 40 anni e più non sono bastati a farmi cambiare idea.
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Bell’articolo, mi pare colga bene la personalita’ di Pierfranco, il suo coraggio di aver osato, l’irresistibile carisma che ne e’ derivato e che e’ riuscito a mantenere, linfaticabilita’, il rigore, la passione per il teatro e per la vita, il suo mantenersi umile….in questo momento di dolore e rimpianto ci resta la consolazione di averlo conosciuto da vicino. Complimenti ancora.
Pupo Marras
Uso come commento un articolo pubblicato sul Corsivo nel 2004. Forse vale la pena di riproporne il contenuto prima che il ruolo di Pierfranco venga definitivamente dimenticato.
“Fa un certo effetto vedere che il Teatro delle Saline, dove è in programmazione “Con il Corpo Capisco” di Pierfranco Zappareddu, si riempie di spettatori.
Zappareddu è probabilmente uno sconosciuto per i molti giovani frequentatori di teatri. In platea, sul palco o dietro le quinte: attori, registi, sceneggiatori, musicisti, fotografi, organizzatori.
E la maggior parte di loro non sa che, senza Zappareddu, il teatro cagliaritano e sardo sarebbe fermo alle “compagnie di giro” e alla “La nemica” di Niccodemi. Quando il teatro era, per ogni persona dabbene, solo quello con le poltrone e il sipario rosso, Zappareddu ha scovato cantine, cortili e garage in cui fare prove e spettacoli. Alla fine degli anni ’60 ha messo in scena una edizione memorabile del “Marat-Sade” quando in Europa erano pochi a sapere che esisteva Peter Weiss. E pochisssimi ad avere il coraggio di metterlo in scena. Ha impiegato attori locali che mai avrebbero pensato di salire su un palcoscenico. E per fare ciò ha introdotto a Cagliari tecniche di training teatrale di cui nessuno aveva sentito parlare, o che erano conosciute a pochi addetti tramite articoli di giornali. Senza soldi, senza alcun credito presso le istituzioni e presso coloro che rappresentavano a quel tempo il “teatro ufficiale”, Zappareddu ha reclutato in strada attori e tecnici. Per convincerli a salire sul palco non ha esitato a impiegare un ipnotizzatore (attualmente stimato professionista).
Ha fatto debiti e raramente è riuscito a pagare i creditori. Ma non si è messo in tasca una lira. E lo testimonia il fatto che tuttora non è più abbiente di quando ha cominciato a occuparsi di teatro.
Ha viaggiato conoscendo tutte le più importanti avanguardie teatrali europee e le ha convinte (ipnotizzando anche loro) a venire in Sardegna. Così Cagliari ha potuto vedere cose remote e sconosciute come il Potlach di Eugenio Barba e il teatro di Tadeusz Kantor. E la Sardegna ha scoperto che si poteva fare teatro anche in strada o nei cortili e si poteva rappresentare uno spettacolo anche senza parlare italiano. Perfino senza parlare. Ha (ri)scoperto che si potevano raccontare storie e incantare gli spettatori danzando e cantando: con il semplice suono di una fisarmonica, con una nenia modulata sottovoce in una lingua incomprensibile o con una candela improvvisamente accesa in una scena buia.
Zappareddu ha fatto tutto ciò per il teatro e per la Sardegna. Poi è scomparso. Inseguendo i suoi fantasmi e le sue visioni. A parte i pochi seguaci e i creditori, nessuno lo ha cercato e rimpianto.
Meno che mai le Istituzioni, che pure dichiarano spesso di avere in cima ad ogni pensiero la cultura regionale e i giovani talenti locali.
Lo ha cercato una volta l’Ente Lirico di Cagliari perché Zappareddu era l’unico che poteva telefonare a Peter Brook senza essere mandato a cagare. Zappareddu ha telefonato, ha scritto e ha mandato fax. Ma ancora aspetta il pagamento per la consulenza. Ora torna nella sua città con immutata passione e il suo spettacolo è un evento. Al botteghino si fa la fila. Il teatro è pieno di giovanissimi che non sanno nulla di lui e di anziani che in passato non ne hanno mai voluto sapere. E’ un piacere e una bella soddisfazione.
Anche se arriva con venti anni di ritardo (G.M.)”
Per quanto te ne possa importare – spero un pochino – mi e piaciuto Gino il tuo articolo, hai fotografato a meraviglia il genio teatral-organizzativo di Pierfranco, il suo essere solo per la gloria, per il bello, infischiandosene di qualsiasi prebenda, di qualsiasi arricchimento finanziario. E che forte la tua ironia sottotraccia! Pupo.
Con Pierfranco, mi vanto di avere avuto l’onore di essere stato suo amico, non vidi mai il Marat-Sade, costava lire 1000 e per me contestatore e disoccupato, era troppo caro e neppure vidi Kantor e Barba, ma potevo assistere alla scuola del suo teatro dove imparai, molto più che dalle letture di etnologi e antropologi vari. Con lui ho passato tante tarde nottate in piazza Palestrina a chiacchierare della rivoluzione che pensavo di attuare, e lui: Giancarlo, la migliore rivoluzione sarà quella che inizia da dentro il tuo io. Mi dispiace di aver saputo di te solo adesso, sarai sicuramente realizzando qualcosa nel palcoscenico dell’universo. Asibiri tottus in pari e in Paxi ciau Pierfrancu Zappa.