Come fermare i moltiplicatori dell’ odio [di Chiara Saraceno]

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la Repubblica, 20 luglio 2017. L’Italia appare come il secondo Paese più razzista d’Europa. È anche il Paese più islamofobo. Del resto, secondo i dati Istat, il 40% della popolazione ritiene che le religioni “altre” da quella maggioritaria siano un pericolo e che andrebbero contenute, tanto più nel caso della religione musulmana.

Del sessismo pervasivo fino alla violenza abbiamo, ahimè, documentazione quasi quotidiana. Un po’ più del 50% degli 11-17enni è oggetto di qualche episodio offensivo, non rispettoso e/o violento da parte di coetanei almeno una volta al mese.

Non si salvano neppure le persone con disabilità, che non solo devono abituarsi a sentire nominare la propria disabilità come forma di insulto corrente, ma sono anche oggetto di aggressioni e violenze più spesso delle persone normodotate. In particolare, i minori con disabilità corrono un rischio da tre a quattro volte maggiore dei coetanei non disabili di essere trascurati dai genitori, vivere in istituto, subire violenze fisiche o sessuali e di non venir presi in considerazione da servizi e agenzie che si occupano della protezione dei minori.

Tra le violenze che si possono effettuare o subire quelle verbali non vanno sottovalutate. «Anche nell’odio le parole non sono tutto, ma anche l’odio non sa fare a meno delle parole. Di queste parole dell’odio e dell’intolleranza il catalogo può essere forse istruttivo ma a tratti è ripugnante». Così scriveva Tullio De Mauro nel piccolo dizionario italiano delle parole dell’odio — parole per ferire — preparato per il rapporto sull’intolleranza, il razzismo, la xenofobia e i fenomeni d’odio curato dalla Commissione Jo Cox, istituita dalla presidente della Camera Laura Boldrini.

In una raccomandazione del Consiglio d’Europa il discorso dell’odio è stato definito come l’istigazione, la promozione o l’incitamento alla denigrazione, all’odio o alla diffamazione nei confronti di una persona o di un gruppo di persone, o il fatto di sottoporre a soprusi, molestie, insulti, stereotipi negativi, stigmatizzazione o minacce tale persona o gruppo.

Chiunque può diventare oggetto di questa forma di odio e per i motivi più futili: un insegnante che boccia o dà un brutto voto, un automobilista che non cede il passo, un giovane che guarda la ragazza di un altro, una ministra che fa una riforma scomoda, un personaggio pubblico che esprime un parere da cui si dissente. Ma se si appartiene a particolari gruppi sociali, se si condividono caratteri somatici o culturali minoritari nella società in cui si vive si può essere oggetto di insulto, denigrazione e incitamento all’odio solo per questo, a prescindere da ciò che si è, si è fatto e si fa.

In questi casi il discorso dell’odio si innesta spesso su fenomeni di stereotipizzazione e discriminazione. Per questo la definizione sopra ricordata comprende anche le forme che si giustificano su motivi quali la “razza”, il colore, la lingua, la religione o le convinzioni, la nazionalità o l’origine nazionale o etnica, nonché l’ascendenza, l’età, la disabilità, il sesso, l’identità di genere, l’orientamento sessuale e ogni altra caratteristica o situazione personale.

È proprio dell’incitamento all’odio per motivi di appartenenza a un gruppo identificato come inferiore, moralmente pericoloso, nemico o semplicemente debole che si occupa il Rapporto della Commissione Jo Cox che viene presentato oggi alla Camera. Esso documenta come essere donne, omosessuali, transessuali, migranti, rom o sinti, islamici, ebrei, portatori di disabilità esponga al rischio di essere non solo discriminati sul lavoro a prescindere dalle proprie competenze, o nell’accesso all’abitazione, ma oggetto di insulti, di accuse, a seconda dei casi, di pericolosità morale o politica, di vere e proprie forme di linciaggio.

Le persone che ne sono vittime spariscono con la loro individualità, storia, esperienza, divenendo parte indistinta di un gruppo negativo e stereotipato. Il linguaggio dell’odio si alimenta, infatti, di superficialità e ignoranza. A esempio, un quarto della popolazione italiana ritiene che i rom e sinti presenti in Italia — il gruppo in assoluto più disprezzato e più discriminato — siano tra uno e due milioni, a fronte di una consistenza effettiva stimata tra 120 e 180 mila. Analogamente si ritiene che siano tutti nomadi, laddove la maggioranza è stanziale.

Queste percezioni sbagliate sono a loro volta rafforzate da una informazione che enfatizza avvenimenti e comportamenti fuori dalla norma e da politiche che si definiscono emergenziali, evocando l’immagine di un fenomeno fuori controllo e potenzialmente catastrofico. È successo con “l’emergenza nomadi” e sta succedendo ora con “l’emergenza migranti”.

Nella società contemporanea, il linguaggio dell’odio non si affida più solo alla comunicazione faccia a faccia o tramite la carta stampata. Trova un potente mezzo di diffusione sui social media, caricandosi di una forza distruttiva troppo spesso fuori controllo. I dati disponibili segnalano che sono le donne le maggiori destinatarie del discorso d’odio online, seguite a distanza da omosessuali e immigrati.

Nelle sue raccomandazioni la Commissione insiste sull’azione di autocontrollo che dovrebbero esercitare i media, non solo rispetto al linguaggio che utilizzano, ma anche rispetto alla qualità della informazione. Lo stesso autocontrollo dovrebbe essere esercitato da chi ha un ruolo pubblico, a cominciare dai politici.

Altrettanto, se non più importante è l’opera di formazione che dovrebbe essere messa in atto dalle scuole, per educare al rispetto degli altri nelle loro molteplici diversità e all’uso critico delle informazioni e degli strumenti di comunicazione. Sono necessarie anche norme punitive per chi incita all’odio e al dileggio. Ma senza una azione di prevenzione rischiano di rimanere inefficaci.

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