L’Apocalisse americana dei department store [di Marco Valsania ]
Il Sole 24 Ore 6/08/2017. È un luogo improbabile per l’Apocalisse. Steubenville, 18.659 anime lungo il fiume Ohio. Un passato nella siderurgia, un presente nel pomposamente battezzato Fort Steuben Mall. E un futuro, ebbene un futuro da “retail armaggedon” da epicentro del disastro. L’Apocalisse del retail evoca quel che è accaduto e accade in molti centri sopravvissuti a fatica alla fuga dell’industria attaccandosi a servizi seppur poveri, quelli di diffusi centri commerciali. Evoca gli oltre quattromila negozi e grandi magazzini che hanno chiuso nel giro di pochi mesi, a cavallo tra l’ultimo scorcio del 2016 e il primo scorcio del 2017, e che entro fine anno potrebbero arrivare a novemila. Fort Steuben, che aveva aperto i battenti nel 1974, la sua epoca d’oro l’aveva conosciuta con le fabbriche. Ma ha tenuto duro finché non é rimasto orfano in un batter d’occhio anche di Sears e di Macy’s, il valore precipitato dai 43 milioni di dieci anni or sono a neppure sette. Centomila posti cancellati nel retail da ottobre. Questa ecatombe ha colpito altre cittadine e marchi noti e meno noti: J.C. Penney e RadioShack hanno ciascuno annunciato l’abbandono di oltre cento punti vendita nel paese. Da gennaio si contano nove crack aziendali, tra richieste di protezione dai creditori e liquidazioni di intere catene quali Sports Authority e Payless. La continua marcia nazionale dell’occupazione nasconde realtà meno rosee. Da ottobre nel retail sono stati cancellati, mese dopo mese, centomila posti di lavoro, più dell’intera manodopera oggi occupata in miniere e acciaierie. Da gennaio il passo dei licenziamenti annunciati è leader assoluto: in aumento del 46,7% a 63.989, 3.862 in luglio. In 15 anni il comparto ha perso un quarto dei dipendenti. Benvenuti nella nuova “de-industrializzazione” d’America, ultima sfida di un’espansione economica traumatizzata da disparità e squilibri. Affligge una nuova industria, quella dei servizi, ma le conseguenze non sono così diverse. Ai cancelli sbarrati delle fabbriche si sovrappongono le vetrine oscurate dei Mall. Di quel retail tradizionale che fornisce posti di lavoro spesso malpagati ma che consentono, se non di coltivare il miraggio del sogno americano, di sbarcare il lunario e sperare. Un esercito di posti di lavoro – un americano su dieci intasca i suoi stipendi. Che evaporano come per passate generazioni erano svaniti i salari alle catene di montaggio, agli altiforni, nel tessile. In quegli stessi luoghi, nelle stesse cittadine del Paese profondo che aveva già sofferto l’esodo delle tute blu trasformate in uniformi da cassieri e commessi a 25.000 dollari lordi l’anno. Anche le ragioni sanno di déjà vu: l’avanzata inesorabile della tecnologia, incarnata dall’esplosione del commercio elettronico e di suoi protagonisti quali Amazon. Aggravata da fattori specifici quali gli eccessi di costruzione di grandi centri commerciali – gli Usa hanno il 40% in più di spazio per shopping del Canada, cinque volte quello inglese e dieci volte quello tedesco – e da cambiamenti nelle abitudini di spesa dei consumatori. Tessuto sociale ferito. È un esodo di proporzioni epiche che minaccia di lasciare una volta in più profonde ferite nel tessuto sociale in assenza di risposte adeguate, quelle di sempre e sempre elusive: miglior welfare e più efficaci programmi di riqualificazione. Ma è stranamente silenzioso, anche nell’era della rabbia dei ceti medi impoveriti. Qualcuno azzarda spiegazioni: è perché questi posti di lavoro non sono concentrati (i minatori sono per il 60% in quattro stati). Perché i dipendenti sono al 40% minoranze etniche e al 60% donne, lontani dallo stereotipo maschile e bianco dei rally del presidente Donald Trump. Il boom dell’e-commerce. Forse. E forse ha ragione anche chi è meno pessimista sul futuro e contrappone a questo declino la crescita dell’e-commerce. Una crescita indubbia di vendite, che rappresentano l’8,4% del totale. E di occupazione: l’economista Michael Mandel assicura che dalla recessione a oggi questo comparto ha generato nel suo insieme ben 355.000 posti di lavoro. Le statistiche del Dipartimento del Lavoro sono più prudenti ma ugualmente hanno contato 178.000 nuovi impieghi in 15 anni. Nelle “warehouses” per la distribuzione gli impieghi dal 2009 sono saliti del 50 per cento. E sono spesso impieghi meglio pagati in media del 26% rispetto al retail tradizionale. Proprio il successo dell’e-commerce, con i suoi colossali magazzini e le conseguenti “migrazioni” geografiche del lavoro, causano però inedite e gravi tensioni: quasi tre quarti delle società del commercio elettronico conta in realtà non più di quattro dipendenti. E le nuove opportunità di massa sono ultra-concentrate, spesso attorno a grandi centri urbani, dimenticando ampie regioni del Paese. Una job fair per assumere 50.000 persone appena tenuta da Amazon è avvenuta in una decina di Warehouses. Aree rurali e piccole città americane, però, tuttora rappresentano il 23% delle buste paga nel retail e solo il 13% nell’e-commerce. Amazon onnipresente. Questa crisi non verrà invertita neppure dalla recente tendenza dei colossi digitali a battere sentieri di crescita rilevando negozi fisici. Ancora Amazon è reduce dall’acquisizione della catena di supermercati di fascia alta Whole Foods, promettendo di rivoluzionare l’alimentare come aveva fatto per le librerie. Padrona di 43 centesimi per ogni dollaro speso online e con le vendite di e-commerce dal 2010 in Nordamerica quintuplicate a 80 miliardi, oggi impiega oltre 340.000 persone su scala globale e 180.000 negli Stati Uniti. Cifre buone per l’ottavo posto nella graduatoria dei datori di lavoro privati. Ma Wal-Mart dà lavoro a 2,3 milioni di persone al mondo, 1,5 milioni negli Stati Uniti. E il deserto del retail, dell’aridità del lavoro nonostante l’espansione, avanza tuttora inesorabile sulle tante Fort Steuben d’America.© |