Shakespeare in sardo non piace al Corriere della Sera? in poche righe, la pochezza dell’élite culturale italiana [di Vito Biolchini]
“Poi ci sarà Macbettu in sardo. Non vedo l’ora di non vederlo”. Questa settimana, nell’inserto laLettura del Corriere della Sera, annunciando le stagioni del Piccolo di Milano e del Teatro Argentina di Roma, il critico Franco Cordelli stronca platealmente l’opera del regista Alessandro Serra. Il motivo? “Il dialetto è così necessario?”. Come giustamente scrive su Facebook il sociologo Nicolò Migheli, in effetti la versione originale del capolavoro di Shakespeare dovrebbe bastare e avanzare: perché tradurlo dall’inglese in italiano e in tutte le altre lingue del mondo? Perché in italiano sì e in sardo no? Così come Cordelli non ha visto “Bestie di scena” di Emma Dante, e nonostante questo scrive “lo spettacolo, lo sappiamo, non è piaciuto a nessuno”, io non ho visto Macbettu ma so (perché tutti quelli che lo hanno visto me lo hanno detto) che è un capolavoro di rigore scenico e registico, in cui l’uso della lingua sarda ridà forza al testo scespiriano, grazie ad una compagnia di attori eccezionali. Uno spettacolo straordinario, splendidamente recensito in tutta Italia (ma questo Cordelli non lo sa, o finge ipocritamente di non saperlo). Che il critico del Corriere della Sera abbia detto una cretinata è lampante, posto che la storia del teatro italiano è stata fatta da spettacoli e autori che l’italiano non lo hanno usato: da Dario Fo ad Emma Dante, senza dimenticare la gigantesca tradizione napoletana. E se vogliamo andare in Europa, per quanti spettatori l’idioma polacco è stato una barriera per la comprensione dei capolavori di Kantor “La classe morta” o “Oggi è il mio compleanno” (che abbiamo visto perfino a Cagliari, qualcuno lo dica a Cordelli che forse ci immagina ancora con la sveglia al collo)? E non dimentico la commovente forza espressiva di Jean-Louis Trintignant che leggeva in francese (lingua che non conosco) le poesie di Aragon, uno spettacolo meraviglioso visto a Nora una ventina d’anni fa. D’altra parte, Macbettu non è stato il primo spettacolo in lingua sarda né sarà l’ultimo: nel 1986 la critica italiana acclamò “Cinixiu” di Antonino Medas, dagli anni 90 Pierpaolo Piludu porta in giro con successo per tutta Italia “Sos laribiancos” di Francesco Masala, quattro anni fa al Fringe di Madrid LucidoSottile convinse la critica spagnola con “In su chelu siat”. Nel teatro contemporaneo non è dunque la lingua l’elemento che connota le produzioni e questo Cordelli lo sa perfettamente. Il punto è che il critico del Corriere della Sera (che non si può dire che ce l’abbia con Serra perché nel 2009, recensendo il suo “Trattato dei manichini”, scrisse del regista: “Finalmente una vera sorpresa nel panorama desolante italiano”), evidentemente non ritiene il sardo una lingua sufficientemente nobile da poter essere usata per tradurre Shakespeare. Il punto è dunque solo quello: la lingua sarda. Tralasciando l’ignoranza sulla distinzione tra lingua e dialetto, in poche battute Cordelli ha evidenziato uno dei mali del nostro paese, cioè la sua incapacità a cogliere e a valorizzare le sue stesse differenze. Se un italiano non capisce il senso di un Macbeth in sardo (lingua minoritaria tutelata da anni da una legge dello stato italiano), come potrà mai capire le culture che oggi in maniera così traumatica e problematica si confrontano con la nostra? Chi si chiude alla comprensione delle culture diverse che ha già in casa, come potrà mai capire quelle che arrivano da altri continenti? Il dramma è che questa chiusura provinciale e antistorica non riguarda solo, banalmente, gli spettatori dei programmi di Barbara D’Urso ma (come insegna Gramsci) è propria anche di una parte consistente delle élite culturali del nostro paese. E con le sue poche sprezzanti, isteriche e ignoranti righe, Franco Cordelli ce lo ha ricordato benissimo.
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