Ruralità, Agricoltura, Ambiente [di Sergio Vacca]

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Una citazione bibliografica e una breve premessa. Nel suo articolo Giuseppe Pulina (Progetto CAMPOS, 5 gennaio) valuta Agricoltura e Ruralità risorsa, definita nelle sue diverse componenti, potenzialità, performance e, in particolare, evidenzia la “riciclabilità e la resilienza dei fattori acqua e suolo”.  Ruralità come presidio del territorio e buona gestione delle risorse. Agricoltura come attività umana che consiste nella coltivazione di specie vegetali. La dimensione rurale dell’isola è valutata al 90% della sua superficie totale, mentre quella agricola si attesta al 47%, essendo comunque ricompresa  nella dimensione rurale.

Se Ruralità ha il significato di salvaguardia del territorio, il termine Agricoltura, declinato allo stesso modo, si caratterizza per “resilienza”. Capacità questa degli ecosistemi di ripristinare l’omeostasi, ovvero la condizione di equilibrio del sistema modificato da un intervento esterno (antropico). L’ecosistema suolo, in specie. O meglio, definito in termini geografici, Terre, come traduzione del vocabolo di origine sassone Land, che coniuga il suolo con il suo ambiente, geologia, morfologia, clima, vegetazione naturale o coltivata e include i risultati delle attività umane del passato. Suolo, o meglio Terre come risorsa dell’ambiente su cui si fondano Ruralità e Agricoltura. Come elemento centrale del paesaggio.

Alcune considerazioni. Una ricerca sull’inventario delle terre potenzialmente irrigabili, realizzata nella seconda metà degli anni ’70 del secolo trascorso,  mise in luce una dimensione agricola di qualità dell’ordine dei 450 mila ettari. Questo dato è frutto di una elaborazione sul rilievo cartografico (carta pedologica) ed è stato ottenuto basandolo sull’interpretazione e valutazione della potenzialità irrigua secondo metodologie accreditate internazionalmente (Land Classification for irrigation, USDA, 1951, 1980 e Land Suitability Evaluation, FAO, 1976, 1983, 1985). La carta dell’irrigabilità delle Terre evidenzia la distribuzione areale delle Terre potenzialmente irrigabili, ma anche attualmente dotate delle necessarie infrastrutture, ovvero attualmente irrigate.

Inoltre la distribuzione nel territorio regionale delle classi di irrigabilità (secondo lo schema USDA: 4 classi, di attitudine decrescente dalla I^ alla IV^, col significato della arabilità, corrispondente all’intensità della meccanizzazione).  Gran parte dell’infrastrutturazione irrigua, dall’accumulo di risorse superficiali (realizzazione di dighe di ritenuta), alla captazione, al trasporto e alla distribuzione per distretti irrigui e quindi per comizi, è avvenuta, negli anni di vigenza della Cassa per il Mezzogiorno, al di fuori di una programmazione unitaria a livello regionale. Il Piano delle Acque della Sardegna, all’interno del quale fu realizzato l’inventario delle Terre irrigabili, mise un punto fermo a questo “andazzo” riconducendo correttamente, al suo termine, ogni decisione pianificatoria alla Programmazione regionale. Dallo studio citato emerse che molte aree già infrastrutturate, o in corso di infrastrutturazione irrigua, non avevano alcuna attitudine all’irrigazione. Si è trattato di superfici consistenti, dell’ordine dei 15 mila ettari.

Il piano individuò anche le risorse idriche necessarie a soddisfare i fabbisogni irrigui: per una superficie netta irrigabile, stimata nell’ordine dei 350 mila ettari, venne calcolato un volume medio di  circa 2 miliardi di metri cubi annui. La verifica dell’andamento in diminuzione degli afflussi meteorici, a partire dal 1975, costrinse la Regione a rivedere drasticamente le ipotesi di ampliamento della base territoriale irrigua e della relativa infrastrutturazione. Mediamente, ogni anno, vengono distribuiti da ENAS ai diversi Consorzi di Bonifica della Sardegna circa 380 milioni di metri cubi di acqua irrigua, che rappresentano poco meno del 90% di quella utilizzata nell’isola. Una ricerca realizzata dal CRAS, Centro Regionale Agrario Sperimentale, oggi AGRIS, nel 2006 evidenzia,  per i diversi Consorzi di Bonifica i seguenti tassi di utilizzazione delle superfici attrezzate:  Nurra, utilizzazione 17%; Nord Sardegna 29%;  Gallura 11% (agricoltura) e 41% (contratti extra-agricoli: green); Sardegna centrale 43%; Ogliastra 27%; Oristanese, 39%; Sardegna meridionale, 22%;  Cixerri,  17%; Basso Sulcis, 51%.

Riepilogando il dato su base regionale, nel 2006, risultano attrezzati 187 mila ettari, effettivamente irrigati 54 mila, con un tasso di utilizzazione medio del 29%. Molto basso, rispetto alle dimensioni degli investimenti effettuati ed alle aspettative di sviluppo del comparto Agricoltura. La dotazione lorda di ciascun ettaro irrigato è di poco superiore ai 7 mila metri cubi per anno. Dato che può certamente essere contenuto se si evitano gli sprechi legati al mancato controllo sistematico dell’uso dell’acqua. Leggi, la mancata installazione di contatori alle prese aziendali. Ma l’ aspetto più rilevante, che incide fortemente nell’economia gestionale dei diversi Consorzi, è rappresentato dal mantenimento in esercizio di comizi o, addirittura, di distretti irrigui realizzati su Terre a bassa suscettività per l’attività irrigua. In particolare di quelle Terre ricompre nella IV^ classe del Sistema di Classificazione dell’irrigabilità, che, per definizione, andrebbero destinate ad usi speciali.

Va inoltre considerato che la dotazione annua che può essere destinata all’irrigazione dal Sistema Idrico Multisettoriale Regionale, attraverso ENAS, non può essere superiore, per ragioni climatiche, agli attuali 380-400 milioni di metri cubi.

Occorre perciò razionalizzare il sistema irriguo della Sardegna eliminando dal novero delle aree irrigabili quelle Terre che non hanno l’attitudine sufficiente a remunerare i capitali investiti e ad assicurare il necessario reddito all’impresa agricola. La dismissione di quelle infrastrutture porterà certamente – da un lato –  al conseguimento di cospicui risparmi finanziari nell’esercizio irriguo da parte dei diversi Consorzi di Bonifica ed al conseguente risparmio di risorsa idrica, ma, consentirà anche di destinare quelle risorse alla realizzazione dell’infrastrutturazione per aree a maggiore attitudine irrigua, come ad esempio l’Alta Marmilla, fino ad ora esclusa da qualsiasi piano irriguo.

Fortemente connesso a questo è il problema del riuso dei reflui in agricoltura (vedi: Acqua. Questione di civiltà?, Sardegna Soprattutto, 2 gennaio 13). Rimando perciò all’articolo per il riferimento di un caso emblematico. E più in generale, alla ricerca “CatchWater, ENV4-CT98-0790: Enhancement of Integrated Water Management Strategies with Water Reuse at Catchment Scale, Water Reuse Projects for Irrigation: Sardinian case study, Final Report, September 2001” (che può essere richiesto all’Istituto dell’Ambiente del CCR di Ispra o al sottoscritto).

L’aspetto centrale – purtroppo non considerato in alcune travagliate esperienze (vedi il riutilizzo dei reflui di Alghero per l’irrigazione di un distretto irriguo della Nurra) – è che  l’uso irriguo di un’acqua reflua deve rispondere a criteri che, al di là di alcune generiche normazioni, garantiscano la compatibilità, sperimentalmente verificata tra il refluo, trattato ad un livello almeno del terzo stadio, ed un dato tipo di suolo. Non basta perciò  stabilire in linea teorica una generica compatibilità tra un generico refluo ed un generico suolo; va viceversa stabilità la compatibilità effettiva tra quel tipo di refluo (del quale siano perfettamente note le caratteristiche e soprattutto il possibile  scostamento da queste) e quel tipo si suolo. Per esemplificare,  quello che può andare bene (salvo verifica) per un suolo a tessitura sabbiosa, non va affatto bene per un suolo a tessitura argillosa, i cui minerali prevalenti siano, ad esempio, rappresentati dalle montmorilloniti.

Negli anni si sono potuti registrare alcuni significativi successi, ad esempio, l’utilizzo delle acque provenienti dal depuratore terzo stadio della città di Cagliari, che nel 2002 – anno di spaventosa siccità – hanno salvato la frutticoltura e l’agrumicoltura della Sardegna meridionale. Ma  prima di questa rilevante, anche sotto il profilo scientifico-tecnico, esperienza ci sono stati ben 6 anni di ricerche condotte dall’Ente Flumendosa con il concorso di numerose Università e Centri di  Ricerca italiani e stranieri.

Utilizzando un paradosso, si può affermare che nell’uso irriguo di un refluo, che definisco nelle lezioni ai miei studenti una “pericolosa arma a doppio taglio”, ossia “risorsa, ma anche potente veleno”, non possono esserci scorciatoie.

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