La fine del mondo [di David Wallace-Wella]

uragano-piu-forte

Internazionale, 28 settembre – 4 ottobre. Il giorno del giudizio. Credetemi, è peggio di quello che pensate. Se la vostra ansia per il cambiamento climatico riguarda soprattutto l’innalzamento del livello dei mari, vuol dire che avete solo una vaga idea dei disastri che potrebbe provocare perfino nell’arco della vita di un adolescente di oggi. Eppure l’idea dei mari che salgono e delle città inondate è così dominante nella nostra visione del riscaldamento globale da impedirci di immaginare altri pericoli, molti dei quali ancora più immediati. L’innalzamento degli oceani è un grosso problema, ma allontanarsi dalle coste non sarà sufficiente. In realtà, se non ci sarà un significativo adattamento dello stile di vita di miliardi di esseri umani, probabilmente alcune zone della Terra diventeranno quasi inabitabili, e altre terribilmente inospitali, già dalla fine di questo secolo.

Anche quando riflettiamo seriamente sul cambiamento climatico, non riusciamo a renderci conto delle sue proporzioni. Quest’inverno una serie di giornate di 15 o 20 gradi più calde del normale ha surriscaldato il polo nord e sciolto il permafrost intorno allo Svalbard global seed vault, un deposito di sementi progettato per garantire che la nostra agricoltura sopravviva a qualsiasi catastrofe. Ma meno di dieci anni dopo la sua costruzione è stato inondato dal cambiamento climatico.

Il deposito è stato rafforzato e ora i semi sono al sicuro. Trattando l’episodio come una parabola dell’inondazione incombente, però, si è persa di vista la notizia più importante. Fino a poco tempo fa il permafrost non era tra le maggiori preoccupazioni dei climatologi perché, come suggerisce il no- me, era un terreno che rimaneva permanentemente ghiacciato. Ma il permafrost dell’Artico contiene 1.800 miliardi di tonnellate di carbonio, più del doppio di quello che oggi è sospeso nell’atmosfera terrestre.

Quando il ghiaccio si scioglierà, quel carbonio potrebbe evaporare sotto forma di metano che, in un arco di tempo di un secolo, è un gas serra 34 volte più potente dell’anidride carbonica ai fini del riscaldamento globale. Se invece si ragiona in termini di vent’anni, è 86 volte più potente. In altre parole, intrappolato nell’Artico c’è il doppio del carbonio che attualmente avvelena l’atmosfera del pianeta, e sarà rilasciato in una data che continua spostarsi all’indietro, parzialmente sotto forma di un gas che moltiplica di 86 volte la sua capacità di riscaldamento.

Forse questo lo sapete già. Ogni giorno vengono pubblicate notizie allarmanti sul cambiamento climatico, come quella secondo cui i dati dei satelliti avrebbero dimostrato che dal 1998 a oggi il riscaldamento globale è diventato due volte più veloce di quanto si aspettassero gli scienziati (in real- tà, il contenuto dell’articolo era molto meno allarmante del titolo). Ma per quanto siate ben informati, di sicuro non siete abbastanza preoccupati. Negli ultimi decenni la nostra cultura ha preso una piega apocalittica, con film sugli zombie e distopie alla Mad Max che forse sono il risultato di uno spostamento collettivo dell’ansia per il clima. Ma quando si tratta dei pericoli reali del riscaldamento globale, soffriamo di un’incredibile mancanza d’immaginazione.

I motivi sono molti: il timido linguaggio scientifico delle probabilità, che il climatologo James Hansen ha chiamato “reticenza scientifica” in un saggio in cui accusa gli scienziati di essere troppo cauti e di non riuscire a comunicare quanto è veramente serio il pericolo; il fatto che gli Stati Uniti sono dominati da un gruppo di tecnocrati convinti che qualsiasi problema possa essere risolto e da una cultura opposta secondo cui il riscaldamento globale non è nemmeno un problema di cui vale la pena di occuparsi; il fatto che il negazionismo climatico ha reso gli scienziati ancora più cauti nel lanciare avvertimenti; la semplice rapidità del cambiamento, ma anche la sua lentezza, a causa della quale vediamo solo oggi gli effetti del riscaldamento dei decenni scorsi; la nostra incertezza sull’incertezza che, come ha suggerito l’esperta di clima Naomi Oreskes, ci impedisce di prepararci a uno scenario peggiore rispetto alla media delle previsioni; il fatto che diamo per scontato che il cambiamento climatico porterà conseguenze più drammatiche altrove, non ovunque; il fatto che i numeri di cui si parla sono troppo piccoli (due gradi), troppo grandi (1.800 miliardi di tonnellate) e trop- po astratti (400 parti per milione); lo sconforto di prendere in considerazione un problema molto difficile, se non impossibile, da risolvere; le incomprensibili dimensioni complessive del problema stesso, che implica la possibilità della nostra scomparsa; la pura e semplice paura. Ma anche la riluttanza che nasce dalla paura è una forma di negazionismo.

Tra la reticenza scientifica e la fantascienza c’è la scienza. Questo articolo è il risultato di decine di interviste e conversazioni con climatologi e ricercatori del settore e riprende centinaia di articoli scientifici sul tema del cambiamento climatico. Non contiene una serie di previsioni su ciò che succederà: quello sarà determinato in gran parte dalle reazioni umane, che sono imprevedibili. Contiene piuttosto un quadro di quello che sappiamo su cosa succederà al pianeta se non ci saranno interventi drastici. È improbabile che tutti questi scenari si realizzino, soprattutto perché nel frattempo la devastazione ci scuoterà dalla nostra inerzia. Ma questi scenari, e non il clima di oggi, devono essere il punto di riferimento, la base da cui partire.

Il cambiamento climatico allo stato attuale – la distruzione che abbiamo ormai proiettato nel nostro futuro – è già abba- stanza terrificante. Molti pensano che Mia- mi e il Bangladesh possano ancora essere salvati, ma la maggior parte degli scienziati con cui ho parlato ipotizza che li perderemo prima della fine del secolo, anche se smettiamo di bruciare carburanti fossili entro il prossimo decennio. In passato, due gradi di riscaldamento erano considerati la soglia della catastrofe: decine di milioni di rifugia- ti climatici lanciati verso un mondo impreparato.

Adesso, secondo gli accordi di Pari- gi, due gradi sono il nostro obiettivo e gli esperti dicono che abbiamo poche possibilità di raggiungerlo. Il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc) delle Nazioni Unite pubblica una serie di rapporti, considerati il punto di riferimento della ricerca sul clima. L’ultimo prevede che di questo passo arriveremo a un riscaldamento di quattro gradi entro l’inizio del prossimo secolo. Ma questa è solo una proiezione mediana.

La parte superiore della curva delle probabilità arriva fino a otto gradi, e gli autori non han- no ancora capito come calcolare lo sciogli- mento del permafrost. I rapporti dell’Ipcc non tengono conto neanche dell’effetto albedo (meno ghiaccio significa meno luce del Sole riflessa e più luce del Sole assorbita, quindi più riscaldamento), della maggiore copertura nuvolosa (che intrappola il calore) né della morte delle foreste e delle pian- te in generale (che assorbono carbonio dall’atmosfera). Ognuno di questi fattori rischia di accelerare il riscaldamento, e la storia del pianeta dimostra che le temperature possono cambiare anche di cinque gradi Celsius in 13 anni. L’ultima volta che la Terra è stata quattro gradi più calda, osserva Peter Branner in The ends of the world, una storia delle estinzioni di massa del pianeta, il livello degli oceani era centinaia di metri più alto.

La Terra ha attraversato cinque estinzioni di massa prima di quella che stiamo vi- vendo oggi, e tutte hanno causato una cancellazione così completa dei dati evolutivi da rimettere indietro l’orologio del pianeta. Secondo molti climatologi queste estinzioni sono la cosa più simile al futuro che ci attende. A meno che non siate adolescenti, probabilmente nei libri di scuola avrete letto che queste estinzioni furono causate dagli asteroidi. In realtà, a par- te quella che fece scomparire i dinosauri, furono tutte causate da cambiamenti climatici prodotti dai gas serra.

La più nota avvenne 252 milioni di anni fa. Cominciò quando il carbonio fece salire la temperatura del pianeta di cinque gradi, accelerò quando quel riscaldamento innescò il rilascio del metano nell’Artico e si concluse con la morte del 97 per cento delle forme di vita. Attualmente stiamo aggiungendo carbonio all’atmosfera a un ritmo notevolmente più rapido. E il ritmo sta accelerando.

È questo che aveva in mente Stephen Hawking quando ha detto che per sopravvivere nel prossimo secolo la nostra specie dovrà colonizzare altri pianeti, ed è questo che ha spinto il fondatore della Tesla Elon Musk a presentare il suo progetto di costruire un habitat su Marte nei prossimi 40- 100 anni. Né Hawking né Musk sono esperti di clima, e probabilmente tendono a farsi prendere dal panico quanto me o voi. Ma i molti scienziati ragionevoli che ho intervistato negli ultimi mesi – i più accreditati e rispettati del settore, pochi dei quali sono inclini all’allarmismo e molti dei quali sono consulenti dell’Ipcc che criticano la cautela dell’istituto – sono arriva- ti anche loro a una conclusione apocalittica: nessun programma realistico di riduzione delle emissioni può bastare a evitare la catastrofe climatica.

Negli ultimi decenni, il termine “antropocene”, che indica l’era geologica in cui viviamo e sottolinea che è caratterizzata dall’intervento umano – è uscito dall’ambiente accademico per entrare nella cultura popolare. Uno dei problemi di questo ter- mine è che implica una conquista della na- tura (riecheggia il “dominio” di cui si parla nella Bibbia). Si può essere indignati per il fatto che abbiamo già devastato il mondo naturale, cosa sulla quale non si discute.

Ma tutt’altra cosa è considerare la possibilità che abbiamo provocato un sistema climatico che adesso ci farà guerra per secoli, forse fino a distruggerci. È questo che intende dire Wallace Smith Broecker, l’oceanografo che ha coniato il termine “riscaldamento globale”, quando definisce il pianeta una “bestia infuriata”. Potremmo anche dire una “macchina da guerra”, e ogni giorno la rendiamo più temibile.

Morire di caldo. Gli esseri umani, come tutti i mammiferi, sono macchine che producono calore: per sopravvivere devono continuamente raf- freddarsi, come fanno i cani quando tirano fuori la lingua. La temperatura esterna quindi dev’essere abbastanza bassa perché l’aria agisca come refrigerante, assorbendo il calore dalla pelle per permettere al moto- re di continuare a funzionare.

Con una temperatura più alta di sette gradi, questo sa- rebbe quasi impossibile per buona parte delle popolazioni che vivono nella fascia equatoriale del pianeta, e in particolare ai tropici, dove l’umidità peggiora le cose. Nelle giungle della Costa Rica, per esem- pio, dove l’umidità di solito supera il 90 per cento, camminare all’aperto quando la temperatura supera i 40 gradi signiica mo- rire nel giro di poche ore.

Gli scettici fanno notare che il pianeta si è già riscaldato e raffreddato molte volte, tuttavia la finestra climatica che ha consentito alla vita umana di svilupparsi è molto stretta, perino per gli standard della sua storia. Con un riscaldamento di 11 o 12 gradi, più di metà della popolazione mondiale, almeno per come è distribuita oggi, mori- rebbe di caldo. Quasi sicuramente non succederà in questo secolo, anche se i modelli che partono dall’attuale livello di emissioni prevedono scenari simili.

Ma in questo secolo, e specialmente ai tropici, le note dolenti arriveranno molto prima di un eventuale aumento di sette gradi. Il fattore chiave è la cosiddetta tempera- tura di bulbo umido, che equivale al calore registrato da un termometro avvolto in un tessuto umido che oscilla nell’aria (dato che nell’aria asciutta l’umidità evapora dal tessuto più in fretta, il dato rilette sia il calore sia l’umidità). Attualmente, la maggior parte delle regioni raggiunge una temperatura a bulbo umido di 26 o 27 gradi: il limite massimo per l’abitabilità è 35. Ma il cosiddetto stress da calore arriva molto prima.

In realtà ci siamo quasi. Dal 1980 il nu- mero di località del mondo che sperimenta- no temperature estreme è aumentato di cinquanta volte, e ci si aspetta un ulteriore rialzo. In Europa le cinque estati più calde dal 1500 si sono verificate tutte dopo il 2002 e, secondo l’Ipcc, presto uscire di casa in quella stagione sarà pericoloso in tutto il mondo. Anche se rispetteremo il limite di due gradi di riscaldamento previsto dall’accordo di Parigi, città come Karachi e Kolkata diventeranno quasi inabitabili, perché ogni anno saranno investite da ondate di calore letali come quelle del 2015.

Con un riscaldamento di quattro gradi, la terribile ondata di calore europea del 2003, che uccise fino a duemila persone al giorno, diventerà la norma. Con sei gradi in più, secondo una proiezione della National oceanic and atmospheric administration, nella bassa valle del Mississippi d’estate non sarà più possibile lavorare.

Come afferma Joseph Romm nel suo libro Climate change, a New York lo stress da calore sarà più frequente che nel Bahrein di oggi, uno de paesi più caldi del pianeta, mentre nel Bahrein le temperature “provocheranno l’ipertermia anche durante il sonno”. La stima massima dell’Ipcc, ricordiamolo, è ancora di due gradi. La Banca mondiale ha calcolato che alla fine del secolo nelle aree tropicali del Sudamerica, dell’Africa e del Pacifico i mesi più freddi potrebbero essere più caldi di quanto lo era- no i mesi più caldi alla fine del ventesimo secolo.

L’aria condizionata potrà essere d’aiuto, ma non farà che peggiorare il problema del carbonio. Inoltre, a parte i centri commerciali climatizzati degli Emirati Ara- bi, è impensabile condizionare l’aria di tutte le zone più calde del mondo, molte delle quali sono anche le più povere. La crisi più grave sarà in Medio Oriente e nel Golfo Persico, dove nel 2015 la temperatura percepita ha toccato i 72 gradi. Tra qualche decennio il pellegrinaggio alla Mecca sarà fisicamente impossibile.

Ma il caldo ci sta già uccidendo. Nella regione del Salvador dove si coltiva la canna da zucchero, un quinto della popolazione e un quarto dei maschi soffre di malattie renali croniche, presumibilmente a causa del- la disidratazione che subiscono nei campi dove vent’anni fa lavoravano tranquilla- mente. E naturalmente lo stress da calore non colpisce solo i reni.

Niente da mangiare. I climi sono diversi e le piante variano da regione a regione, ma la regola base per i cereali comuni è che per ogni grado in più rispetto alla temperatura ottimale i raccolti diminuisco- no del 10 per cento, e secondo al- cune stime del 15 o del 17. Questo significa che se alla fine del secolo la temperatura del pianeta sarà aumentata di cinque gradi, potremmo avere il 50 per cento in meno di cereali per sfamare una popolazione mondiale che nel frattempo sarà cresciuta del 50 per cento. E per le proteine sarà anche peggio: per produrre una sola caloria di carne, macellata da una mucca che ha passato la vita a inquinare l’aria con le sue emissioni di metano, ci vogliono 16 calorie di cereali.

Gli agronomi più ottimisti dicono che questo calcolo si applica solo alle regioni dove la temperatura è ottimale, e hanno ragione: in teoria un clima più caldo renderà più facile coltivare mais in Groenlandia. Ma come hanno dimostrato gli studi di Rosamond Naylor e David Battisti, ai tropici fa già troppo caldo per coltivare i cereali in modo efficiente, e i posti dove vengono pro- dotti oggi hanno già raggiunto la tempera- tura ottimale, il che significa che anche un piccolo aumento provocherà un declino della produttività. E non è facile spostare i campi più a nord di qualche centinaio di chilometri, perché in paesi come il Canada e la Russia i raccolti sono condizionati dalla qualità del terreno: ci vogliono secoli per- ché la terra diventi fertile.

La siccità potrebbe essere un problema ancora più grave del caldo: alcune delle migliori terre coltivabili potrebbero rapida- mente trasformarsi in deserti. È difficile costruire modelli sulle precipitazioni, ma le previsioni per la fine del secolo sono quasi unanimi: siccità senza precedenti in quasi tutte le regioni dove oggi si concentra la produzione alimentare. Senza una drastica riduzione delle emissioni, entro il 2080 l’Europa meridionale sarà perennemente colpita dalle siccità. Lo stesso succederà in Iraq, in Siria e in quasi tutto il Medio Oriente, in quasi tutte le zone più densamente popolate dell’Australia, dell’Africa e del Sudamerica e nelle regioni agricole della Cina. Nessuno di questi luoghi, che oggi riforniscono la maggior parte del mondo, costituirà più una fonte affidabile di cibo.

Non dimentichiamoci che sul nostro pianeta la fame esiste già. Secondo la maggior parte delle stime, nel mondo ci sono 800 milioni di persone denutrite. In caso non ne abbiate sentito parlare, la scorsa primavera c’è già stata una carestia senza pre- cedenti in Africa e nel Medio Oriente. Se- condo l’Onu nel 2017 le carestie in Somalia, Sud Sudan, Nigeria e Yemen potrebbero uccidere 20 milioni di persone.

Epidemie climatiche. In alcuni luoghi la roccia registra la storia del pianeta. Ere geologiche di milioni di anni sono contenute in strati di pochi centimetri. Il ghiaccio funziona nello stesso modo, come un libro mastro del clima, ma è anche storia congelata che potrebbe tornare in vita. Oggi nel ghiaccio dell’Artico sono intrappolate malattie che non circolano nell’aria da milioni di anni, in alcuni casi da prima che esistessero gli esseri umani. Questo significa che se riemergessero dai ghiacci il nostro sistema immunitario non avrebbe idea di come combatterle.

L’Artico racchiude anche agenti patogeni di epoche più recenti. In Alaska i ricercatori hanno già scoperto tracce dell’influenza spagnola che nel 1919 colpì 500 milioni di persone e ne uccise 100 milioni, circa il 5 per cento della popolazione mondiale e un numero di morti quasi sei volte superiore a quello della prima guerra mondiale, della quale quella pandemia costituì il macabro tocco finale. Gli scienziati so- spettano che nei ghiacci della Siberia siano intrappolati i batteri del vaiolo e della peste bubbonica: un condensato delle malattie che hanno devastato l’umanità lasciato a sciogliersi al sole.

Gli esperti avvertono che molti di questi organismi probabilmente non sopravvivranno al disgelo e sottolineano che non è stato facile ricreare in laboratorio le condizioni necessarie a farli tornare in vita. È il caso del batterio “estremoilo” di 32mila anni fa resuscitato nel 2005 e di quello di otto milioni di anni fa riattivato nel 2007, senza contare quello di tre milioni e mezzo di anni fa che uno scienziato russo si è iniettato per curiosità.

Solo in condizioni molto particolari quelle malattie potrebbero tornare. Ma nel 2016 un bambino è morto e altri 20 sono stati contagiati dall’antrace rilasciato quando lo scioglimento del permafrost ha portato alla luce la carcassa di una renna morta almeno 75 anni prima. Duemila renne sono state contagiate e hanno diffuso la malattia fuori della tundra.

Ma a preoccupare gli epidemiologi non sono tanto le antiche malattie, quanto la possibilità che quelle attuali migrino, si modifichino o si evolvano a causa del riscalda- mento del pianeta. Il primo effetto sarebbe geografico. Prima dell’inizio dell’era moderna, quando la navigazione accelerò il mescolarsi dei popoli e dei loro batteri, l’isolamento era una garanzia contro le pandemie.

Oggi, nonostante la globalizzazione e l’enorme mescolanza tra le popolazioni umane, i nostri ecosistemi sono abbastanza stabili e questo costituisce un’altra difesa, ma il riscaldamento globale aiuterà le malattie a superare i confini come fecero i conquistadores spagnoli. Oggi chi vive nel Mai- ne o in Francia non si preoccupa della dengue o della malaria, ma con il lento sposta- mento a nord dell’area tropicale e delle zanzare dovrà cominciare a farlo. Fino a un paio di anni fa non ci preoccupavamo neanche del virus zika.

In realtà lo zika potrebbe essere un buon esempio del secondo aspetto del problema: la mutazione. Uno dei motivi per cui non ne avevamo sentito parlare prima è che era intrappolato in Uganda, un altro è che fino a poco fa non sembrava provocasse difetti alla nascita. Gli scienziati non hanno ancora capito che è successo, ma ci sono cose che sappiamo per certe su come il clima influisce su alcune malattie. La malaria, per esempio, prospera nelle regioni più calde non solo perché le zanzare che la trasmettono vivono lì, ma anche perché a ogni grado di aumento della temperatura il parassita si riproduce dieci volte più rapidamente. E questo è uno dei motivi per cui la Banca mondiale calcola che entro il 2050 dovranno farci i conti 5,2 miliardi di persone.

Aria irrespirabile.  I nostri polmoni hanno bisogno di ossigeno, ma l’ossigeno è solo una parte di quello che respiriamo. La percentuale di anidride carbonica nell’aria sta aumentando: ha appena superato le 400 parti per milione e, secondo le stime più alte estrapolate dalle tendenze attuali, entro il 2100 arriverà a mille. A quella concentrazione, rispetto all’aria che respiriamo adesso, le capacità cognitive umane calerebbero del 21 per cento.

Nell’aria ci sono cose anche peggiori: piccoli aumenti dell’inquinamento possono accorciare la vita di dieci anni. L’aumento della temperatura provoca un aumento dell’ozono e, secondo le proiezioni del National center for atmospheric research, verso la metà del secolo probabilmente negli Stati Uniti ci sarà un aumento del 70 per cento dell’inquinamento da ozono. Nel 2090 due miliardi di persone in tutto il mondo respireranno aria che non rientra negli standard di sicurezza stabiliti dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Secondo uno studio pubblicato a giugno, se una donna incinta è esposta all’ozono il rischio di autismo nel bambino aumenta.

Il particolato sottile dovuto ai combustibili fossili uccide già più di diecimila perso- ne al giorno. Ogni anno 339mila persone muoiono a causa del fumo degli incendi, anche perché il cambiamento climatico ha allungato la stagione degli incendi nei boschi (negli Stati Uniti dal 1970 è aumentata di 78 giorni). Secondo il Servizio forestale degli Stati Uniti, entro il 2050 gli incendi saranno due volte più distruttivi di oggi, e in alcune regioni le aree bruciate potrebbero aumentare di cinque volte.

Ma quello che preoccupa di più è l’effetto di questo sulle emissioni, soprattutto quando gli incendi distruggono foreste che sorgono sulla torba. Nel 1997, per esempio, gli incendi scop- piati nelle torbiere dell’Indonesia hanno fatto aumentare di quasi il 40 per cento le emissioni globali di anidride carbonica. Gli incendi aumentano il riscaldamento, che a sua volta fa aumentare gli incendi. C’è an- che la terrificante possibilità che foreste pluviali come quella amazzonica – che nel 2010 ha subìto la seconda grave siccità in cinque anni – possano prosciugarsi abba- stanza da diventare soggette a questo tipo di incendi, che non solo rilascerebbero un’enorme quantità di carbonio nell’atmosfera ma ridurrebbero anche le dimensioni delle foreste stesse. È un problema serio, perché la foresta amazzonica produce da sola il 20 per cento del nostro ossigeno.

Poi ci sono le forme d’inquinamento più familiari. Nel 2013 lo scioglimento dei ghiacci artici ha modificato l’equilibrio meteorologico dell’Asia, privando le industrie cinesi dei sistemi di ventilazione naturale sui quali facevano affidamento e avvolgendo il nord del paese in uno smog irrespirabile. Secondo un sistema di misurazione dei rischi chiamato indice della qualità dell’aria, nella fascia che va da 301 a 500 si verifica “un serio aggravamento delle malattie cardio-respiratorie e una mortalità prematura tra le persone affette da quelle malattie e tra gli anziani”, mentre gli altri “rischiano di avere seri problemi respiratori”. A quel livello “tutti dovrebbero evitare di fare sforzi fisici all’aperto”. Nel 2013 in Cina l’aria ha raggiunto un indice superiore a 800. Quell’anno lo smog ha causato un terzo delle morti nel paese.

Guerra perpetua.  Quando parlano della Siria i climatologi sono molto cauti. Dicono che, anche se il cambiamento climatico ha provocato la siccità che ha contribuito alla guerra civile, non è esatto affermare che il conflitto è frutto del riscaldamento globale. Anche nel vicino Libano, per esempio, la siccità ha distrutto i raccolti. Ma ricercatori come Marshall Burke e Solomon Hsiang sono riusciti a tradurre in cifre alcuni rapporti meno ovvi tra temperatura e violenza: per ogni mezzo grado in più, dicono, la probabilità di conflitti armati aumenterà dal 10 al 20 per cento.

In climatologia niente è semplice, ma la matematica è inesorabile: in un pianeta di cinque gradi più caldo ci sarebbe almeno metà delle guerre in più rispetto a oggi. Nel complesso, in questo secolo i conflitti sociali potrebbero più che raddoppiare.

Questo è uno dei motivi per cui, come mi hanno fatto notare quasi tutti i climatologi con cui ho parlato, l’esercito statunitense è ossessionato dal cambiamento climatico: l’inondazione delle basi navali a causa dell’innalzamento del livello dei mari è un problema, ma se il tasso di criminalità rad- doppia, fare i poliziotti del mondo diventa ancora più difficile. Naturalmente, il clima non ha contribuito ai conflitti solo in Siria. Qualcuno ipotizza che l’aumento della tensione in Medio Oriente negli ultimi anni sia dovuto anche alla pressione del riscaldamento globale, un’ipotesi ancora più crudele se si pensa che l’innalzamento delle temperature ha cominciato ad accelerare da quando il mondo industrializzato estrae e brucia il petrolio di quella regione.

Come si spiega il rapporto tra clima e conflitti? In parte è dovuto all’agricoltura e all’economia, e ha sicuramente molto a che fare con le migrazioni forzate, che hanno già raggiunto livelli da record: al momento nel mondo ci sono 65 milioni di profughi. Ma c’è anche la semplice irritabilità dei singoli individui. Il caldo fa aumentare il tasso di criminalità nelle città, il linguaggio osceno sui social network e le probabilità che un lanciatore di baseball colpisca un battitore avversario per rappresaglia se un battitore della sua squadra è stato colpito. E l’arrivo dei condizionatori nei paesi ricchi, a metà del secolo scorso, ha fatto ben poco per risolvere il problema dell’ondata di crimini estivi.

Crisi economica permanente. Il mantra del neoliberismo globale, che si è diffuso tra la fine della guerra fredda e l’inizio della grande recessione, è che la crescita economica ci salverebbe da tutto.

Ma dopo la crisi finanziaria del 2008, un numero sempre maggiore degli storici che studiano quello che chiamano il “capitalismo fossile” ha cominciato a ipotizzare che la rapida crescita economica cominciata quasi all’improvviso nel settecento non sia il risultato delle innovazioni, del commercio o delle dinamiche del capitalismo globale, ma semplicemente della scoperta dei combustibili fossili e delle loro potenzialità: l’iniezione di un nuovo “valore” in un sistema che fino a quel momento era stato caratterizzato dall’economia di sussistenza.

Prima dei combustibili fossili nessuno viveva meglio dei suoi genitori, dei suoi nonni o dei suoi antenati di cinquecento anni prima, a parte quelli che vissero subito dopo una grande epidemia come la peste nera del trecento, che permise ai fortunati sopravvissuti di sfruttare le risorse lasciate libere dai morti. Quando avremo bruciato tutti i combustibili fossili, dicono questi studiosi, forse l’economia globale tornerà a essere “stabile”. Ma quell’iniezione di valore sta avendo una devastante conseguenza a lungo termine: il cambiamento climatico.

Anche la ricerca più interessante sull’economia del riscaldamento globale è opera di Hsiang e dei suoi collaboratori, che non sono storici del capitalismo fossile ma sono giunti a conclusioni piuttosto sconsolanti: ogni grado di riscaldamento costa in media l’1,2 per cento del pil (una cifra enorme, se si pensa che consideriamo “forte” una crescita del pil a una cifra). Questi sono i risultati della ricerca sul campo, e la loro proiezione mediana è il 23 per cento di per- dita dei guadagni pro capite in tutto il mondo entro la fine del secolo (causata dai cambiamenti in agricoltura, dal tasso di criminalità, dai fenomeni atmosferici e dalla mortalità).

Se si prova a seguire la curva delle probabilità ci si spaventa ancora di più: c’è un 12 per cento di probabilità che il cambia- mento climatico riduca la produzione globale di più del 50 per cento entro il 2100 e, se le emissioni non saranno ridotte, c’è il 51 per cento di probabilità che il pil pro capite scenda del 20 per cento, se non di più. Per farsi un’idea, la crisi economica cominciata nel 2007 ha ridotto il pil globale di circa il 6 per cento. Secondo Hsiang e i suoi collaboratori c’è una probabilità su otto che entro la fine del secolo si verifichi un effetto irreversibile otto volte più grande.

È difficile immaginare le proporzioni di una tale devastazione economica, ma pos- siamo immaginare come sarebbe il mondo oggi con un’economia dimezzata, che producesse solo la metà e quindi avesse la metà da offrire a tutti i lavoratori del mondo. Questo fa sembrare economicamente assurda l’idea di rimandare l’intervento pubblico e affidare la riduzione delle emissioni alla crescita e alla tecnologia. E non dimentichiamo che ogni biglietto di andata e ritorno da New York a Londra costa all’Artico tre metri quadrati di ghiaccio.

Oceani avvelenati. Che i mari uccideranno un sacco di gente è ormai un dato di fatto. Senza una drastica riduzione delle emissioni, il loro livello salirà di almeno un metro e forse di più entro la fine del secolo. Un terzo delle più grandi città del mondo è sulla costa, per non par- lare delle centrali elettriche, dei porti, delle basi navali, delle terre coltivate, dei delta dei fiumi, delle paludi e delle risaie. Anche le terre che sono sopra i tre metri si inonderanno più facilmente, e molto più regolar- mente. Oggi almeno 600 milioni di persone vivono a meno di dieci metri sopra il livello del mare.

Ma l’inondazione di quelle terre sarà solo l’inizio. Attualmente, più di un terzo del carbonio del pianeta è assorbito dagli oceani, e per fortuna, perché altrimenti avremmo altrettanto riscaldamento in più. Ma il risultato è la cosiddetta “acidificazione degli oceani”, che entro questo secolo potrebbe far salire le temperature di mezzo grado e sta già bruciando i bacini idrici del pianeta dove, come forse ricorderete, è nata la vita. Avrete anche sentito parlare dello “sbiancamento”, cioè della morte, dei coralli, che è una pessima cosa perché le barriere coralli- ne sostentano un quarto della vita marina e danno da mangiare a mezzo miliardo di persone.

L’acidificazione degli oceani ucciderà intere popolazioni di pesci, anche se gli scienziati non sono in grado di prevedere esattamente l’effetto che avrà su tutto quello che estraiamo dagli oceani per nutrirci. Sanno che nelle acque acide le ostriche e le cozze faticano a costruirsi la conchiglia, e che quando il pH del sangue umano scende di quanto è sceso quello degli oceani negli ultimi anni il risultato sono convulsioni, coma e morte improvvisa.

E l’acidificazione degli oceani non fa so- lo questo. L’assorbimento del carbonio può dare il via a un ciclo di retroazione in cui nelle acque scarsamente ossigenate si diffondono tipi diversi di microbi che riducono ulteriormente l’ossigeno, prima in profondità e poi sempre più in superficie. I pesci piccoli non riescono a respirare e muoiono subito, facendo prosperare i batteri che consumano ossigeno, e così via.

Questo processo, in cui le zone morte crescono come tu mori, soffocando le forme di vita e spazzando via la pesca, è già abbastanza avanzato in alcune parti del golfo del Messico e al largo delle coste della Namibia, dove il solfuro d’idrogeno gorgoglia dal mare lungo i 1.600 chilometri della “costa degli scheletri”. In origine il nome si riferiva alle ossa delle balene, ma oggi è più appropriato che mai. Il solfuro d’idrogeno è così tossico che nel corso dell’evoluzione abbiamo imparato a riconoscerne anche le più piccole tracce: è per questo che il nostro naso è così sensibile alle flatulenze.

È anche la sostanza responsabile dell’estinzione di massa del permiano-triassico che uccise il 97 per cento della vita sulla Terra, dopo che tutti i cicli di retroazione erano stati messi in moto e il riscaldamento dell’oceano aveva rallentato la circolazione delle acque: è il gas preferito dal pianeta per un olocausto naturale. Gradualmente le zone morte dell’oceano si allargarono, uccidendo le specie che avevano dominato i mari per centinaia di milioni di anni, e il gas che le acque inerti emettevano nell’atmosfera avvelenò tutto quello che c’era sulla Terra. Anche le piante. Ci vollero milioni di anni prima che gli oceani si riprendessero.

Il grande filtro. E allora perché non riusciamo a vedere tut- to questo? Nel suo recente saggio La grande cecità (Neri Pozza 2017), lo scrittore indiano Amitav Ghosh si chiede perché il riscalda- mento globale e i disastri naturali non sono tra i temi principali della narrativa contemporanea, perché non siamo capaci di immaginare le catastrofi climatiche e perché non esista ancora un filone di romanzi sul tema. “Pensate, per esempio, alle storie costruite intorno a domande come ‘Dov’eri quando è caduto il muro di Berlino?’ oppure ‘Dov’eri l’11 settembre?’”, scrive. “Sarà mai possibile scrivere ‘Dov’eri quando abbiamo raggiunto le 400 parti per milione?’ o ‘Dov’eri quando la piattaforma glaciale Larsen B si è spaccata?’”. La sua risposta è: probabilmente no, perché i dilemmi e i drammi del cambiamento climatico sono semplicemente incompatibili con il tipo di storie che ci raccontiamo su noi stessi, soprattutto nei romanzi, che tendono a dare più importanza al viaggio di una singola coscienza che ai velenosi miasmi del destino comune.

Di sicuro questa cecità non può durare: il mondo in cui ci ritroveremo a vivere non lo permetterà. In un mondo più caldo di sei gradi scoppieranno così tante catastrofi naturali che cominceremo a considerarle la norma: una serie costante di tifoni e tornado, alluvioni e siccità incontrollabili, un pianeta regolarmente in balìa di eventi climatici che non molto tempo fa hanno distrutto intere civiltà. Gli uragani più forti diventeranno più frequenti, e per classificarli dovremo inventare nuove categorie. I tornado dureranno più a lungo, avranno un raggio d’azione più ampio e saranno molto più frequenti, i chicchi di grandine saranno quattro volte più grandi. Un tempo gli esseri umani guardavano al tempo per prevedere il futuro, ma presto vedremo nella sua furia la vendetta del passato.

I primi naturalisti parlavano spesso del “tempo profondo”, la percezione della profonda lentezza della natura raggiunta contemplando la grandiosità di una valle. In futuro ci aspetta qualcosa di più simile a quello che gli antropologi vittoriani chiamavano il “tempo del sogno”, l’esperienza semi-mitica degli aborigeni australiani che incontrano nel presente un passato a temporale in cui antenati, eroi e semidei affollano un palcoscenico epico.

Ce ne rendiamo già conto quando vediamo le immagini di un iceberg che si stacca e galleggia nel mare: abbiamo la sensazione che la storia stia accadendo in quel momento. E in effetti è così. Molte persone concepiscono il cambiamento climatico come una sorta di debito economico e morale che abbiamo accumulato dall’inizio della rivoluzione industriale e che adesso, dopo qualche secolo, dobbiamo pagare. In un certo senso è la prospettiva giusta, perché è stato proprio quando abbiamo cominciato a bruciare i combustibili fossili nell’Inghilterra del settecento che abbiamo acceso la miccia di tutto quello che è successo in seguito.

Ma più di metà del carbonio che l’umanità ha immesso nell’atmosfera in tutta la sua storia è stato emesso negli ultimi trent’anni, e l’85 per cento dalla fine della seconda guerra mondiale. Questo significa che nell’arco di una sola generazione il riscaldamento globale ci ha portato sull’orlo del- la catastrofe planetaria, e che la storia della missione kamikaze del mondo industriale è anche la storia di una singola vita. Per esempio la vita di mio padre, nato nel 1938, i cui primi ricordi erano la notizia dell’attacco a Pearl Harbor e i ilm di propaganda bellica sulla potenza industriale statunitense, e che è morto di cancro ai polmoni poco dopo la irma degli accordi di Parigi.

O quella di mia madre, nata nel 1945 da una famiglia ebrea tedesca sfuggita alle camere a gas nelle quali erano morti i suoi parenti, che oggi si gode i suoi 72 anni nel paradiso dei consumi statunitense, reso possibile dall’industrializzazione dei paesi emergenti. E che ha fumato sigarette senza filtro per 57 di quegli anni.

O la vita degli scienziati. Alcuni di quel- li che hanno messo a fuoco il cambiamento climatico sono ancora vivi, e qualcuno di loro lavora ancora. Wally Broecker ha 84 anni e ogni giorno va in macchina al Lamont-Doherty Earth observatory attraversando il giume Hudson dall’Upper west si- de di New York. Come molti di quelli che hanno lanciato l’allarme, è convinto che ridurre le emissioni non basterà a evitare la catastrofe.

Preferisce puntare sulla cattura del carbonio – una tecnologia ancora non testata per estrarre l’anidride carbonica dall’atmosfera che, secondo i suoi calcoli, costerebbe migliaia di miliardi di dollari – e in varie forme di “geo-ingegneria”, tecnologie così avanzate e fantasiose che molti climatologi preferiscono considerarle sogni , o incubi, presi in prestito dalla fantascienza.

È particolarmente affascinato dal cosiddetto metodo aerosol, che consiste nel disperdere nell’atmosfera una tale quantità di anidride solforosa che quando si convertirà in acido solforico annebbierà un quarto dell’orizzonte e rifletterà il 2 per cento dei raggi solari, consentendo al pianeta di guadagnare un po’ di tempo. “Naturalmente i tramonti diventerebbero mol- to più rossi, il cielo più chiaro e ci sarebbero più piogge acide”, dice. “Ma dobbiamo guardare alle dimensioni complessive del problema. Non possiamo dire che un problema così gigantesco non può essere risolto perché la soluzione provocherebbe dei problemi più piccoli”. Lui non ci sarà per vederlo succedere, “ma forse tu sì”, mi ha detto.

Anche Jim Hansen appartiene a questa generazione di padrini della climatologia. Nato nel 1941, si è laureato all’università dell’Iowa, ha inventato l’innovativo “modello zero” per fare proiezioni sul cambia- mento climatico ed è arrivato a dirigere la ricerca sul clima della Nasa, per poi andarsene a causa delle pressioni subite quando, mentre era ancora un dipendente pubblico, ha fatto causa al governo federale per non essere intervenuto sul riscaldamento globale (nel frattempo è stato anche arrestato varie volte per aver partecipato a manifestazioni di protesta).

La causa, che è stata intentata da un collettivo chiamato Our children’s trust, si basa sulla tesi secondo cui non agendo contro il riscaldamento climatico lo stato impone enormi costi alle generazioni future. Hansen non pensa più che per risolvere il problema del clima basterà una tassa sulle emissioni di carbonio, e ha cominciato a calcolare quanto costerebbe estrarre il carbonio dall’atmosfera.

Hansen ha cominciato la sua carriera studiando Venere, che un tempo era un pianeta molto simile alla Terra e aveva ac- qua in abbondanza prima che il cambiamento climatico lo trasformasse rapidamente in una sfera arida avvolta da gas irrespirabili. A trent’anni ha cominciato a chiedersi perché mai doveva studiare il cambiamento ambientale nel sistema solare quando poteva vederlo con i suoi occhi sul pianeta dove viveva. “Quando abbiamo scritto il nostro primo articolo su questo tema, nel 1981”, mi ha raccontato, “ricordo di aver detto a uno dei miei colleghi: ‘Sarà molto interessante. Nel corso della nostra carriera cominceremo a vedere queste cose’”.

Molti degli scienziati con cui ho parlato pensano che il riscaldamento globale sia la soluzione al famoso paradosso di Fermi: se l’universo è così grande, perché non abbiamo mai incontrato nessun’altra forma di vita intelligente? La risposta, secondo loro, è che l’arco di vita naturale di una civiltà potrebbe essere qualche migliaio di anni, e quello di una civiltà industriale forse solo qualche centinaio.

In un universo che ha miliardi di anni, con sistemi solari così lontani tra loro nello spazio e nel tempo, forse le civiltà nascono, si sviluppano e si soffocano da sole troppo rapidamente per po- tersi incontrare. Peter Ward, uno dei paleontologi che hanno scoperto che le estinzioni di massa sono state provocate dai gas serra, lo chiama il “grande filtro”: “Le civiltà nascono, ma c’è un filtro ambientale che le fa estinguere e scomparire molto rapidamente”, mi ha detto. “Se pensiamo alla Terra, il filtro in passato sono state le estinzioni di massa”. Quella che stiamo vivendo oggi è appena cominciata, e molte cose dovranno ancora morire.

Eppure Ward è ottimista, come del resto Broecker, Hansen e molti altri scienziati con cui ho parlato. Anche se corriamo il rischio di essere annientati, non abbiamo creato niente di simile a una religione che spieghi il cambiamento climatico e possa confortarci o spingerci all’azione. Ma i climatologi hanno una strana fede: pensano che troveremo il modo di impedire il riscaldamento estremo, perché dobbiamo.

Non è facile capire se possiamo sentirci rassicurati da questa certezza o se non sia solo un’altra illusione. Perché il riscalda- mento globale funzioni come parabola, qualcuno deve sopravvivere per raccontarla. Gli scienziati sanno che anche solo per raggiungere gli obiettivi di Parigi, entro il 2050 le emissioni industriali di carbonio, che sono tuttora in aumento, dovranno dimezzarsi ogni dieci anni.

Le emissioni dovute allo sfruttamento della terra (deforestazione, emissioni di metano da parte dei bovini e così via) dovranno esse- re azzerate. E dovremo inventare una tecnologia in grado di assorbire ogni anno dall’atmosfera il doppio del carbonio che oggi assorbono le piante di tutto il pianeta. Nonostante questo, molti studiosi hanno fiducia nell’ingegno degli esseri umani, forse anche perché capiscono meglio il cambiamento climatico, che è pur sempre un’invenzione umana. Ricordano il progetto Apollo, la soluzione al buco dell’ozono negli anni ottanta, la fine del terrore nucleare. Ora abbiamo trovato il modo di scatenare l’apocalisse, e di sicuro troveremo il modo di salvarci.

Il pianeta non è abituato a essere provocato in questo modo, e i sistemi climatici che funzionano su cicli di secoli o millenni non permettono neanche agli studiosi che li stanno osservando attentamente di immaginare tutti i danni che abbiamo già fatto al pianeta. Ma quando ci renderemo vera- mente conto di che mondo abbiamo creato, dicono, troveremo anche il modo per renderlo vivibile. Secondo loro l’alternativa è semplicemente inimmaginabile.

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