La cultura e il paesaggio, questa la strada per il futuro. Intervista a Salvatore Settis [di Costantino Cossu]
Il presidente Mattarella che a Cagliari va a vedere i Giganti di Mont ’e Prama, il ministro Dario Franceschini che a Castelsardo inaugura il Museo dell’identità genovese e indica nel paesaggio e nei beni culturali le risorse sulle quali basare il futuro economico dell’isola; l’Università di Sassari e l’assessorato regionale all’Ambiente che scelgono l’Asinara come luogo in cui ospitare una Scuola che metta insieme ecologi ed economisti per definire le coordinate di una crescita compatibile con gli equilibri del pianeta. Qualche spiraglio c’è, allora. Qualche spazio resta aperto di fronte alla riproposizione di vecchie ricette. Chi sceglie strade diverse da quelle del consumo indiscriminato di suolo non dice sempre e solo «No». Dice molti sì, ma in una direzione diversissima da quella indicata da chi continua a guardare al passato. Discutiamo di questi temi con Salvatore Settis, archeologo e storico dell’arte, ex direttore della Normale di Pisa, accademico dei Lincei, titolare a Madrid della Cátedra del Prado e presidente del Consiglio scientifico del Louvre. L’Italia è stato un Paese pioniere nel dotarsi di strumenti giuridici di tutela del paesaggio, ancora prima della Costituzione repubblicana… «La prima legge italiana sul paesaggio, dovuta a un ministro che si chiamava Benedetto Croce, fu varata nel 1920; ma prima ancora di questa vi furono numerosi provvedimenti degli Stati italiani preunitari, che tracciano da secoli la strada che avrebbe portato alla nostra Costituzione repubblicana. Cito in particolare l’Ordine del Real Patrimonio di Sicilia del 1745 che simultaneamente tutelava i boschi ai piedi dell’Etna e le antichità di Taormina: che io sappia, il più antico caso al mondo in cui tutela dei paesaggi e quella dei beni artistici e archeologici si muovono di pari passo come parte di un sistema unico, proprio come nell’articolo 9 della Costituzione: “La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”». Perché allora in un paese in cui la tutela del paesaggio è obbligo costituzionale e in cui pure esiste un robusto quadro normativo nazionale a garanzia del paesaggio, poi invece il cemento la fa da padrone? C’entra qualcosa una malintesa autonomia delle Regioni e degli enti locali? «Il divorzio fra lo spirito e la lettera delle leggi da un lato, e la pratica politica e amministrativa dall’altro, è uno dei più tristi e negativi sviluppi degli ultimi decenni. La mancanza di una generalizzata cultura della tutela, il continuo auto-accecamento di cui siamo vittime, il dominio incontrastato di un economicismo che bada soltanto ai guadagni nel breve termine e non al pubblico interesse e ai diritti delle generazioni future: questi alcuni dei fattori-chiave che rendono possibile il degrado crescente a cui assistiamo. Il punto, mi pare, non è se la Sardegna sia dei sardi o di tutti, ma se la Sardegna (o l’Italia) appartengano a noi che viviamo oggi (e che possiamo impunemente distruggere tutto) o se, piuttosto, non siano qualcosa che abbiamo avuto in dono dai nostri antenati e che abbiamo oggi in prestito dai nostri pronipoti. È pensando ai tempi lunghi della storia e della memoria che dovremmo prendere decisioni attente e ponderate, e non genuflettendoci davanti ai subiti guadagni degli speculatori edilizi». Difesa del paesaggio e difesa della democrazia in che modo sono legate? «Il legame è nella Costituzione, laddove impianta l’articolo 9 in una tessitura di principi e di concetti puntata sull’uguaglianza, l’equità sociale, la giustizia, la «pari dignità sociale» dei cittadini (articolo 3). Perché questi traguardi ci siano sempre presenti, è indispensabile che dovunque vi sia conflitto fra il pubblico interesse e il profitto privato sia il pubblico interesse a prevalere, sempre e comunque. Per parlare di Sardegna, il piano paesaggistico dell’amministrazione Soru rispondeva ad alti principi di pubblico interesse; i ripetuti tentativi di smantellarlo (anche ora) rispondono a miopi manovre di piccolo cabotaggio». Cosa c’è nella storia d’Italia che spinge a considerare il mattone la principale fonte di sviluppo economico? «Questo pregiudizio, ripetutamente smentito dai fatti, regge grazie a un’arcaica cultura contadina che, nei suoi aspetti peggiori, permane nel retrobottega della mente. Da decenni si dice che l’edilizia è il principale motore dello sviluppo, e in nome di questo si fano condoni e piani casa uno peggio dell’altro: ma intanto da decenni la crisi si aggrava. Nonostante ciò, molti continuano a fare come se nulla fosse mutato da quando la corsa ad accumulare “la roba” appassionava i nostri bisnonni che lottavano per uscire da una povertà secolare. È caratteristico, ad esempio, che l’investimento in speculazioni immobiliari sia molto ricercato dalle mafie, portatrici di una ferocia criminale che si accoppia a residui di cultura arcaica». Che effetti ha sull’economia nazionale questa persistente tendenza a spostare sull’edilizia risorse finanziarie ed umane? Le stesse risorse non potrebbero essere impiegate in altro? «Anche l’Ance (l’Associazione dei costruttori edili) ha ripetutamente riconosciuto che la manodopera edilizia potrebbe esser fruttuosamente impiegata nel recupero del patrimonio abbandonato, nell’adeguamento di quello recuperabile, nella messa in sicurezza di un territorio, il nostro, che è afflitto da una fragilità idrogeologica e sismica senza paragone in Europa. Questa messa in sicurezza del territorio è l’unica vera grande opera di cui l’Italia ha bisogno: lo sostengo da anni e non mi stancherò mai di ripeterlo». Che cosa si può fare per uscire da circolo vizioso del mattone? Media e scuola hanno un ruolo? «Solo una capillare educazione alla memoria storica e alla bellezza può contrastare efficacemente la deriva che affligge il nostro Paese in preda all’amnesia. La scuola dovrebbe formare cittadini consapevoli, e non piatti esecutori della volontà altrui. Ma tutte le riforme scolastiche degli ultimi anni stanno ferendo mortalmente la scuola italiana, che era, e nonostante tutto resta, la migliore del mondo. Bisogna ridare ai nostri insegnanti (molti dei quali di prim’ordine) l’orgoglio di trasmettere alle nuove generazioni una memoria storica molto particolare, quella dell’Italia come componente chiave dell’Europa, come cultura che ha inglobato componenti diversissime (dai Greci ai Sardi, dai Punici ai Celti, dai Longobardi ai Veneti…), come il Paese che ha voluto cercare una propria unità senza rinunciare alle sue tante piccole patrie». |