La rabbia non ci salverà [di Simonetta Fiori]

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La Repubblica, 8 ottobre 2017. Un bollore intorno al cuore. La migliore definizione della rabbia si deve ad Aristotele, ma c’è anche chi sente un grande battito nelle tempie o un dolore dietro il collo. La rabbia può essere un’emozione pubblica o privata, può riguardare una comunità intera o una relazione personale. Se dovessimo affidarci al celebre marziano di Eric J. Hobsbawm che annusa per la prima volta l’aria del nostro pianeta, potremmo ricavarne che la nostra è l’età della rabbia.

Come spiegargli altrimenti Trump alla Casa Bianca, la scelta dirompente di Brexit, l’infuriare dei venti populisti in Europa? E gli attentati, lo scontro di civiltà, la Terza guerra mondiale stigmatizzata da papa Francesco? Non è un caso che proprio nella rabbia si sia imbattuta la più grande esploratrice morale delle emozioni, Martha Nussbaum, che le ha dedicato il libro Anger and Forgiveness, ora tradotto dal Mulino (Rabbia e perdono). Un saggio che attraversa la politica e i codici più intimi, toccando anche la “sfera di mezzo”, i contatti con le persone estranee. E come accade con i libri della Nussbaum — settant’anni, professoressa di Law and Ethics all’Università di Chicago — ogni pagina comporta un dilemma morale, e dunque una sorta di autoanalisi da cui si esce più ricchi e con qualche certezza in meno.

Professoressa Nussbaum, il suo saggio è stato messo in cantiere quattro anni fa ma sembra scritto oggi. Qual è stata la spinta iniziale?  «Sì, ora il mio libro sembra ancora più attuale. La politica della rabbia ha alterato il corso della storia di tante nazioni, inclusi gli Stati Uniti. E anche il futuro dell’Europa dipenderà dal richiamo della rabbia o dal prevalere di altri sentimenti. Io ho cominciato a riflettervi anni fa, quando cercavo un buon tema per le John Locke Lectures a Oxford. Fino a quel momento avevo scritto libri sull’amore, sul dolore, sulla compassione e sulla vergogna. L’idea mi è venuta dopo aver consegnato all’Indian Express un commento sul massacro dei musulmani avvenuto a Gujarat nel 2002. Non potevo sapere allora quale sarebbe stato l’approdo della mia ricerca, ossia che la rabbia è sempre un sentimento velenoso e controproducente».

Dai suoi studi emerge che la rabbia oltre a essere pulsione istintiva è il risultato di una costruzione culturale. Lei fa l’esempio delle civiltà greca e romana dove questo sentimento veniva accettato solo nelle creature ritenute inferiori, donne e bambini. In questi anni la rabbia ha acquisito una sorta di legittimazione culturale. Come è stato possibile? «Tutte le civiltà incubano tantissima rabbia. Probabilmente si tratta di un fenomeno universale che ha radici nell’evoluzione. Quel che distingue greci e romani è che la consideravano un problema, i cui effetti dovevano essere contenuti. Perché le culture moderne sono così diverse? Penso che questo abbia a che fare con i modi in cui la mascolinità è stata interpretata. L’immagine dell’America è quella dei pionieri in lotta contro forze nemiche. Anche se alcuni dei nostri eroi letterari più amati oggi incarnano compassione più che rabbia, come l’avvocato Finch ne Il buio oltre la siepe.Nella vostra cultura Verdi è il compositore che più ha colto il senso di questo sentimento».

In che modo? «Mostrandone gli aspetti distruttivi. Rigoletto uccide sua figlia, Iago annienta sia Otello che Desdemona. Un momento interessante nel Rigoletto è il duetto “ Sì, vendetta, tremenda vendetta” che il protagonista e Gilda intonano dopo che lei viene portata via dal Duca. La musica è felice: mia figlia a tre anni la voleva ascoltare di continuo perché le dava allegria. Rigoletto crede di aver trovato il segreto della gioia. Ma ha trovato solo distruzione: di sé stesso e della figlia».

Potrebbe essere la colonna sonora del suo libro. Lei sostiene che la rabbia può essere uno strumento utile quanto pericoloso nella sfera morale. «La rabbia può servire come segnale che qualcosa non va. E può scuotere le persone dall’inerzia verso le cose sbagliate. Martin Luther King intravide nella rabbia una motivazione essenziale al lavoro di correzione di un’ingiustizia sociale. Ma ne rintracciava anche un aspetto pericoloso nel desiderio di rivalsa: non appena la rabbia spinge il popolo a muoversi — diceva King — il sentimento deve essere “purificato”, così il popolo conserva la protesta ma senza anelito a rivalse».

Lei la definisce “rabbia di transizione”, ossia un’emozione rivolta a un bene futuro. « La rabbia di transizione è quella che ti induce a esclamare: “ È terribile: non deve succedere più!”. Si denuncia una ingiustizia, ma concentrandosi sul futuro, non sulla rivalsa. Non è certo facile costruire su queste basi un movimento di massa, ma abbiamo esempi storici fortunati come quello di Gandhi, di Mandela e dello stesso King. Anche il movimento delle donne per larga parte si è tenuto su questi binari. E lo stesso potrei dire per il movimento dei diritti di lesbiche, gay, bisessuali e transgender, che impostano le loro campagne sul potere dell’amore».

Un aspetto interessante del suo lavoro riguarda l’inutilità del perdono, che presuppone sempre una gerarchia morale. E questo non aiuta a ricomporre i rapporti. «Nella cultura cristiana ed ebraica i racconti del perdono sono esplicitamente gerarchici: i peccatori devono umiliarsi e chiedere perdono a un superiore. Anche il perdono incondizionato spesso assume una sgradevole sfumatura di superiorità morale. San Paolo dice che devi perdonare i tuoi nemici perché così facendo “ammasserai carboni ardenti sui loro capi”. Io preferisco l’amore generoso esemplificato nella parabola del figliol prodigo. E nella carriera di Nelson Mandela».

Posso chiederle quanto conta il suo personale vissuto nelle sue riflessioni filosofiche? «Cerco sempre un riscontro nella mia vita, e nella vita di molte persone. Soprattutto leggo libri di letteratura e di storia, seguo l’attualità. So bene di non essere una persona rappresentativa per molti motivi: ho una vita felice, un lavoro ideale, amici fantastici e una figlia meravigliosa».

Ma lei non si arrabbia mai? «Non mi arrabbio mai con le persone che amo, mentre tendo a farlo nella “sfera di mezzo”, con commessi maleducati e tecnici incompetenti. Ora non sopporto chi ha atteggiamenti discriminatori verso il genere e l’età. Detesto quell’omone che afferra la mia valigia senza chiedermi il permesso e la spinge nella cappelliera dell’aereo. Anche perché godo di ottima forma fisica».

Nel libro lei accenna a comportamenti provocatori che gli uomini assumono verso le donne intellettuali. A cosa si riferisce? «Gli uomini hanno l’abitudine di interrompere le donne, come se fossero sempre capaci di spiegare le cose meglio. Nella lingua inglese si dice mansplaining, ed è già una conquista che ci sia un nome. Il mio migliore amico una volta ha osservato che tutte le donne autorevoli di sua conoscenza parlano con un tono di voce piuttosto alto. Pensava che dipendesse dalla loro esperienza di donne che non erano state ascoltate. A me piace essere la prima a fare una domanda in un seminario: sento che altrimenti non prenderei la parola. Come dice Catharine MacKinnon: “Togli il tuo piede dalle nostre gole e allora potrai sentire con quale voce le donne parlano”».

Nella sua vita personale è riuscita a trasformare la rabbia in un sentimento positivo? « Essere rifiutata da Harvard è per me qualcosa di molto personale, fonte di grande rabbia. È accaduto nel 1993: si trattava di un’ingiustizia provocata da un atteggiamento sessista. Sedici anni più tardi avrei ricevuto l’offerta di un incarico da parte di quella università. C’erano ancora alcuni dei vecchi professori del Dipartimento di studi classici che avevano votato contro di me. E uno in particolare, Albert Henrichs, mi disse che l’esclusione era stata un’ingiustizia. Non ho accettato l’offerta, ma sono rimasta colpita dalla sua grandezza d’animo. Albert è morto quest’anno, poco prima che tenessi una lecture che ho voluto dedicargli pubblicamente. Alla fine di ottobre andrò a Boston per commemorarlo. È tutto quello che posso dire sul superamento della rabbia». ?

 

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