Il “In Sardegna non c’è nulla” è figlio dell’invenzione del Sud [di Nicolò Migheli]
Concordo con Maria Antonietta Mongiu, che ha introdotto e coordina questa I Tavola rotonda, che il basso tasso di dialettica del riconoscimento e un atteggiamento negazionista su storia, paesaggio, territorio siano tra i problemi costitutivi della Sardegna ancora oggi. Ha ragione nell’affermare che “la pratica del disconoscimento e dell’auto disconoscimento è la più diffusa ai diversi livelli ove si pensi ai magistrati del Tar di Cagliari che annullarono il vincolo paesaggistico su Tuvixeddu perché “non c’era nulla” nonostante l’evidenza materiale ed immateriale non diversamente da quanto spesso si sente dire nei nostri paesi come nelle città”. In Sardegna non c’è nulla, in bidda di più è un refrain. Come è possibile che a lungo chi è nato e vissuto nell’isola associ la sua esperienza al niente? Come se migliaia di anni di storia, di testimonianze stratificate, di esperienze umane, di culture, improvvisamente diventassero vuoto cosmico, sempre che esista. Quale è la malattia sottile che ci impedisce di riconoscerci e di dare valore alla nostra esistenza dentro una comunità storica, e di esserne consapevoli testimoni? Si dirà che la dicotomia città/campagna sia figlia della civiltà. Uno scontro centro/periferia, sempre orizzontale, dentro i confini di un’entità politica che trovava elementi e valori condivisi. I greci chiamavano barbari gli altri, ma si trattava di un rapporto tra vincitori e vinti e non di una categoria di analisi. Quando queste discriminanti diventano sistema e categoria interpretativa della realtà? Quando le coordinate geografiche assumono a paradigma di pensiero il NORD luogo di virtù e il SUD territorio di dissipazione? Anche il Medioevo aveva conosciuto esclusioni e demonizzazioni, però è l’Evo moderno che sistematizza il pensiero escludente e fa della diversità una colpa fino a suscitare il razzismo come costitutivo della coscienza europea. Con la scoperta dell’America gli europei entrano in contatto con una civiltà aliena, talmente diversa che per tutto il Cinquecento i teologi disquisirono se gli amerindi avessero l’anima. La rottura geografica si ha con la Riforma e le guerre di religione, determinando profonde divaricazioni culturali e dei valori: un nord protestante che si scontra con il sud cattolico. L’autorità cattolica contro la libertà e l’intraprendenza dell’uomo protestante che ritrova la sua soggettualità senza intermediazioni. La prima industrializzazione sottolineerà questo aspetto: produzione contro rendita, industria contro agricoltura. Il Grand Tour confermerà questi giudizi fino a farli diventare stigma. Si va a sud, il luogo del sole e della trasgressione, per incontrare la cultura e l’arte. Quella del passato perché il giudizio sui contemporanei è negativo. È questa la base culturale che crea anche la diversità della Sardegna; una diversità barbarica – come ci ha raccontato Franco Masala nel suo intervento – una sorta di Africa più vicina che secondo quei viaggiatori, sarebbe impermeabile a qualsiasi modernità. Loro, i civilizzatori e i nostri antenati, ostinatamente resistenti. Stigmi che con l’Unità d’Italia hanno del parossistico. Ci vorrà la I Guerra Mondiale, a far cambiare di segno alcuni giudizi. Si passa dall’etnia criminale a quella combattente. La violenza che si legittima se viene impiegata per la patria. In realtà una conferma del carattere barbarico. Questo però è solo uno degli aspetti del disagio della modernità che abita l’animo dei sardi. La negazione di una propria modernità. Il trionfo di sviluppo e sottosviluppo intesi come gara e non come miglioramento delle opportunità. Un’introiezione di modelli che esaltano la percezione del nulla rispetto al pieno esterno. Grandi sono le responsabilità dei sistemi educativi che hanno costruito paradigmi che alimentano un senso di frustrazione quasi congenita come costante culturale. Una pedagogia che ha costruito subalternità, inadeguatezza e desiderio di emulare il centro. Molto delle scelte politiche degli ultimi cent’anni trovano spiegazione lì. Si è voluto essere continentali più dei continentali! La percezione del nulla è funzionale a quella perversa alleanza tra èlite dominanti sarde e quelle di importazione; è la condizione fondante della svendita della terra sia per farne una centrale energetica, sia per cementificarla. Gli atti di governo della giunta Pigliaru vanno in quella direzione perché il nulla suscita il desiderio di riempimento. La tradizione e la mitopoiesi coincidono anche in altri campi. Un esempio? I Carnevali estivi. Si esalta una tradizione che si vorrebbe ferma nel tempo, la si reinventa producendo l’autentico falso. Eppure ogni contemporaneità ha la sua tradizione che non è immutabile, ma si adatta al gusto del tempo. Chiunque abbia avuto occasione di ascoltare la prima registrazione che a metà degli anni Venti fece il tenore di Dorgali a Torino, ha una sensazione di estraniamento, quel canto può anche non piacere ed essere considerato brutto e dissonante. Perché? Perché il nostro gusto musicale è cambiato, perché le interferenze date dal mondo lo condizionano. Eppure quel tenore è autentico; è più vicino a quello che convenzionalmente si considera tradizione di quelli attuali. Nella sequenza storica, il periodo nuragico assume valenze simili. Rivoltare una concezione culturale che vede il vuoto come centro esistenziale non sarà facile. Sono percorsi di lunga durata, che impongono uno svelamento della condizione attuale, ben sapendo che si combatte contro potenze dell’immaginario che hanno mezzi spropositati. Ogni azione dovrebbe essere seguita dalla domanda: conviene alla Sardegna, alla sua gente? La prima è riappropriarsi della lingua sarda. Di quel che fa la differenza verso l’omologazione imperante. E’ la dignità personale e sociale che lo impone. E’ il primo passo verso l’auto-riconoscimento. Il resto verrà. *L’articolo rielabora l’intervento a braccio tenuto il 14 ottobre a Milis nel seminario di LAMAS e Sardegna Soprattutto “Materiali per un’urbanistica sostenibile” nella Tavola rotonda “Sardegna tra mito, realtà, narrazione”, introdotta e coordinata da Maria Antonietta Mongiu, a cui hanno partecipato Franco Masala Storico dell’architettura SardegnaSoprattutto Antioco Floris Docente di Linguaggi del Cinema, della Televisione e dei New Media Università di Cagliari Nicolò Migheli Sociologo Scrittore SardegnaSoprattutto Romano Cannas già Direttore Rai Sardegna **I contributi di altri relatori hanno stimolato un ragionamento più completo. |
Cioè l’intervento vorrebbe spiegare perché è sbagliato dire che “in Sardegna non c’è nulla” e lo fa con una serie di categorie obsolote, vecchie, stantie, e osservazioni fumosissime che suonano bene perché talmente generiche che non significano niente (cosa vuol dire “uno svelamento della condizione attuale, ben sapendo che si combatte contro potenze dell’immaginario che hanno mezzi spropositati”???) e conclude dicendo che dobbiamo riappropriarci della lingua sarda? Che siamo nel 2017, in un mondo in cui esistono i social network e l’outsourcing dei progetti digitali, un mondo in cui il terziario è il settore trainante questo qui lo sa?
Mi rendo conto che per capire quelle “categorie obsolete, vecchie, stantie e le osservazioni fumosissime” bisognerebbe conoscere i fondamentali della cultura occidentale, stante il livello della scuola attuale non è da tutti. Con i migliori saluti, caro sig. Lello.