Parole forsennate: quando la follia dà vita al genio letterario [di Gianfrancesco Turano]
“Chi è padrone di sé bussa invano alla porta della poesia». Due millenni e mezzo dopo la frase di Platone il British Journal of Psychiatry ha dimostrato la correlazione fra la creatività e la sindrome bipolare in una ricerca del 2011. Un altro studio del Karolinska Institutet dichiara che gli scrittori hanno probabilità superiori alla media di essere ansiosi, bipolari, depressivi unipolari, schizofrenici, anoressici, vittime di droghe e alcol. Il tasso di suicidi sarebbe doppio del normale. Avventurarsi ai limiti dell’animo umano si paga caro e, in effetti, il Parnaso del disagio psichico è sterminato. Paradossalmente l’instabilità diventa di moda grazie al genio meno autodistruttivo della storia delle lettere, Johann Wolfgang Goethe. Il suo Werther che si uccide per amore è il prototipo dello Sturm und drang, messo in pratica da Heinrich von Kleist, che si butta nel Wannsee, e dalla follia di Friederich von Hölderlin. L’alcolismo ammazza Edgar Allan Poe e segna la vita di Tennessee Williams, traumatizzato dalla schizofrenia della sorella Rose, che subisce una lobotomia orbitale. La depressione porta Sergej Esenin al cappio nel 1925 in un albergo di Leningrado, l’Angleterre: «Arrivederci, amico mio, arrivederci, tu mi sei nel cuore», scrive con il sangue nei suoi versi di commiato. Il suo gesto otterrà la riprovazione pubblica dell’amico e collega Vladimir Majakovskij («Voi ve ne siete andato, come suol dirsi, all’altro mondo»), che cinque anni dopo si ucciderà a sua volta, sconvolto dalla deriva stalinista dei Soviet. Più avanti nel Novecento il poeta statunitense Theodore Roethke viene ricoverato in ospedale per quello che si chiamava esaurimento nervoso e il romanziere di On the road, Jack Kerouac, padre della beat generation, viene riformato dalla Us Navy durante la seconda guerra mondiale per schizofrenia, altra patologia professionale. Sintomi collegati alla sindrome schizofrenica colpiscono Rainer Maria Rilke, William Blake, William Butler Yeats e il poeta persiano del tredicesimo secolo Jalal ad Din Rumi, che sentono le voci e hanno visioni. La depressione porta Ernest Hemingway a tirarsi una fucilata nel 1961. Nel 2005 imita il suo esempio Hunter J. Thompson, l’inventore del “gonzo journalism” impersonato al cinema da Johnny Depp (Paura e delirio a Las Vegas, 1998). Tre anni dopo, nel 2008, tocca a David Foster Wallace. Le donne non sfuggono al destino. C’è l’isolamento malinconico di Emily Dickinson («mi parve che la mente mi si dividesse/che il cervello in due si spaccasse»). Dopo di lei, arrivano i suicidi di Virginia Woolf, che si annega per sfuggire alla follia incombente, della poetessa Anne Sexton, della quasi coetanea Sylvia Plath che muore con la testa nel forno a gas a trent’anni, nel 1963, dopo avere subito ricoveri in ospedale, terapia elettrica, trattamenti farmacologici e violenze domestiche dal marito Ted Hughes, anch’egli poeta. In Italia c’è la milanese Alda Merini, che vive la disperazione dei ricoveri fra Villa Turro e il Paolo Pini e la violenza di quarantasei elettrochoc. Un caso particolare è la poetessa svizzera Mariella Mehr. Nata nel 1947, viene tolta ai genitori di etnia nomade Jenisch e sottoposta a trattamento psichiatrico secondo il programma eugenetico varato dalla Confederazione nel dopoguerra. La letteratura nuoce gravemente a chi la fa e per dissuadere decine di milioni di aspiranti scrittori, si potrebbero sostituire le immagini dei malati sui pacchetti di sigarette con il disegno terrificante che Gustave Doré dedica al suicidio del poeta romantico Gérard de Nerval, impiccatosi alla grata di un condotto fognario vicino allo Châtelet di Parigi. Molti romanzieri e poeti hanno avuto la consapevolezza del loro stato. Alcuni hanno usato se stessi come cavie per regalare capolavori nati da sofferenze estreme, quelle che attraggono l’attenzione, a sua volta morbosa, dell’ipocrita lettore al quale Charles Baudelaire, habitué di droghe e assenzio, dedica i “Fiori del Male”. Siri Hustvedt la strega. Nel suo libro-confessione, strutturato su una bibliografia scientifica e una conoscenza della materia eccezionali, la scrittrice di origine norvegese si sofferma sulle ipotesi di alcune patologie mentali, anche se è ormai «riduttivo l’anacronismo riguardante il dualismo mente/corpo», come scrive l’ultima edizione del Dsm, il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali che è la bussola delle patologie psichiche. Hustvedt parla dei tremori isterici delle streghe di Salem, dei legami fra personalità multipla e arte, della scrittura automatica praticata dai surrealisti francesi su suggerimento dello psicologo Pierre Janet e adottata in alcune terapie. Ma il passaggio dove è più chiaro l’andirivieni dell’artista dal confine della follia è quando descrive la sua impersonificazione nei dolori del padre agonizzante. «La sensazione era schiacciante, terribile. Sentivo la vicinanza della morte che mi attirava a sé, la sua forza inesorabile, e dovetti faticare per tornare nel mio corpo, per ritrovare me stessa». Prima di Hustvedt, sul finire dell’Ottocento, qualcuno aveva già esplorato di persona la follia e i metodi per curarla. Maupassant e il vampiro. Uomo votato all’acqua, “idropata”, canottiere, appassionato di yacht e di nuoto, Guy de Maupassant anticipa un modello di artista di grande genio e pari sregolatezza che avrà fortuna per tutto il Novecento. Il “toro normanno” ha una carriera lampo ad altissima produttività che si svolge in un decennio in parallelo con eccessi erotici e sportivi censurati dal padrino letterario di Guy, “l’anziano” Gustave Flaubert. Maupassant impara presto che non vivrà a lungo. Nel 1877, a 27 anni, gli viene diagnosticata la sifilide, la malattia di Francesco I e Cesare Borgia che al terzo stadio comporta la paralisi cerebrale. Con una reazione tipica del superomismo dell’epoca se ne proclama fiero e conserva le sue abitudini. Il suo ritmo di lavoro è degno di Honoré de Balzac. A parte i romanzi, Maupassant scrive oltre trecento racconti. Uno di questi è il resoconto della sua follia incombente appena nascosta dallo schermo narrativo. L’Horla è del 1887, quando lo scrittore normanno ha 37 anni, ed è il diario più terrificante di una malattia mentale che sia dato leggere. Ambientato nei dintorni di Rouen, inizia con l’arrivo di un vascello fantasma brasiliano in una bella giornata di primavera. Sulla nave, invisibile e mortale, c’è il fantasma dell’Horla. Giorno dopo giorno questo vampiro invisibile occupa lo spirito del protagonista in un crescendo di allucinazioni. La misura artistica della narrazione si combina con la violenza della patologia per produrre un capolavoro, uno degli ultimi del narratore normanno. Prima di superare il limite del delirio, quando si proclamerà figlio di Dio, Maupassant scriverà all’amico scrittore Paul Bourget: «Una volta su due, rientrando a casa, vedo il mio doppio. Apro la porta e mi vedo seduto sulla mia poltrona». Il declino di Maupassant è un crescendo di pochi mesi. «A causa di sciacqui fatti con l’acqua marina attraverso le narici, ogni notte il cervello mi cola dal naso», racconta in una lettera al suo medico Émile Blanche, l’alienista amico della famiglia Proust che quarant’anni prima ha avuto in cura Gérard de Nerval. La lettera a Blanche porta la data del 31 dicembre 1891. Passano poco più di ventiquattro ore e nella notte fra l’1 e il 2 gennaio 1892, Maupassant tenta di spararsi in bocca. Il suo domestico però ha nascosto i proiettili. Allora lo scrittore tenta di aprirsi la gola con il tagliacarte. Visto che le ferite sono insufficienti, cerca di buttarsi dalla finestra. Viene bloccato dal cameriere e dal marinaio della sua imbarcazione. L’8 gennaio è internato dal dottor Blanche nella sua clinica del sobborgo parigino di Passy. Presto la camicia di forza si rivela inutile. L’autore di “Bel ami” morirà il 6 luglio 1893 quattro anni dopo avere visto spegnersi in un ospedale psichiatrico il fratello minore Hervé. L’amico Émile Zola terrà l’orazione funebre. I bagliori di Dino Campana. «Ero una volta scrittore ma ho dovuto smettere per la mente indebolita. Non connetto le idee, non seguo». Quando Guy de Maupassant muore, Dino Campana ha otto anni. È figlio di un maestro elementare di Marradi, un paesino dell’Appennino tosco-emiliano. La scena poetica italiana del suo tempo è dominata da artisti con certificazione statale come Giosuè Carducci, come Giovanni Pascoli che celebra l’invasione colonialista della Libia (“la grande Proletaria si è mossa”) e infine come l’odiato Vate Gabriele D’Annunzio, «massima cloaca di tutto il letteratume presente passato di tutti i continenti». In questo contesto Campana è un outsider assoluto. Impara cinque lingue, gira il mondo, finisce in Argentina a costruire la ferrovia da manovale, traduce Bertrand Russell e si lascia travolgere da un filosofo che è un grande scrittore, Friederich Nietzsche. Con lui Campana condividerà la follia e l’incantamento per il mito della purezza idealistica della razza tedesca. Alla vigilia della Grande Guerra e in piena Triplice Alleanza fra Italia, Germania e Austria, i suoi Canti Orfici vengono dedicati “a Guglielmo II imperatore dei Germani” e hanno come sottotitolo “die tragödie des letzten Germanen in Italien” (la tragedia dell’ultimo germano in Italia). Il capolavoro di Campana è un misto di versi e poemi in prosa ispirati a viaggi, visioni e all’amore per la poetessa Sibilla Aleramo. La raccolta ha una storia avventurosa quanto il suo autore. Nel 1913 a Firenze, epicentro dei cambiamenti culturali dell’epoca, Campana presenta le sue prime bozze manoscritte, intitolate “Il più lungo giorno”, a Giovanni Papini che a gennaio dello stesso anno ha inaugurato la rivista Lacerba. Papini gira l’incartamento al cofondatore di Lacerba, Ardengo Soffici, che il giorno dopo perde la bozza. Non se ne troverà traccia fino al 1971, quasi quarant’anni dopo la morte dell’autore. Campana si trova costretto a riscrivere il suo lavoro a memoria e lo stampa nel 1914 grazie alla tipografia Ravagli di Marradi con il titolo definitivo, Canti orfici. È un nome ispirato alla moda dionisiaca lanciata da Nietzsche con la “Nascita della tragedia” ma anche alla tendenza cubista teorizzata da Guillaume Apollinaire, secondo quanto sostiene la filologa Fiorenza Ceragioli nella prefazione all’edizione vallecchiana dei Canti pubblicata nel centenario della nascita di Campana (1985). Quando inizia la guerra mondiale, mentre Papini invoca il bagno di sangue altrui – lui viene riformato -, Campana si ritrova a cancellare con la gomma da inchiostro, copia per copia, la dedica al kaiser diventato avversario dell’Italia. Lo stato mentale del poeta peggiora fino al ricovero nell’asilo di Castel Pulci presso Firenze l’8 novembre 1926. Fra gli elettrochoc per cui si ribattezza “Dino Edison” e la correzione degli errori dei Canti orfici presenti nella prima edizione vallecchiana (1928), Campana morirà a Castel Pulci il primo marzo 1932. In salotto con Ezra Pound. Nel saggio “The Bughouse”, pubblicato quest’anno da Harvill Secker, Daniel Swift torna sul caso di Ezra Pound, due anni dopo la biografia in tre volumi di David Moody. Il poeta dei Cantos trascorre dodici anni nell’ospedale psichiatrico St. Elizabeth a Washington. Lì tiene «il salotto letterario meno ortodosso del mondo: presieduto da un fascista e tenuto in una casa di matti». Fra gli ospiti ci sono T.S. Eliot, Williams Carlos Williams, Elizabeth Bishop e Allen Ginsberg. In manicomio Pound riceve anche il suprematista bianco John Kasper che si intrattiene con il il razzistissimo “uncle Ez” sull’antisemitismo e sulla battaglia contro i diritti civili agli afroamericani sostenuta dal Ku Klux Klan di cui Kasper è membro. Sofferente di depressione Pound è stato internato a lungo soprattutto in quanto voce della propaganda nazifascista e traditore degli Stati Uniti. La punizione esemplare inizia con il suo arresto nel 1945. Prima di essere riportato in America l’autore dei Cantos è detenuto per tre settimane nel campo militare Usa a Pisa in una gabbia di metallo di due metri quadrati esposta in piazza d’armi. Lì Pound subisce un crollo psichico che descriverà con queste parole: «La zattera si spezzò e le acque mi sommersero». Quando Pound esce dal manicomio, si imbarca sul transatlantico Cristoforo Colombo per tornare nel paese che aveva scelto nel 1924, l’Italia. Al suo arrivo a Napoli accoglie i fotografi con il saluto romano. Passa i suoi ultimi anni in uno stato di «abietta disperazione, accidia, insensatezza, abulia, spreco». Nel 1972 muore a Venezia dove è sepolto nel cimitero di San Michele. |