Summum ius summa injuria [di Antoni Puigverd]

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La Vanguardia 6/11/2017. Come afferma la triste e ironica  legge di Murphy: quello che può andare male andrà peggio. Ogni giorno è peggiore del precedente. Alcuni di noi hanno predicato da anni  nel deserto che quello che sta accadendo in Catalogna è una questione della Spagna. Una questione politica di grande importanza che, invece di essere trattata con intelligenza, è stata subappaltata dal governo di Mariano Rajoy al potere giudiziario. Lungo questo percorso, finirà per esplodere l’intero sistema politico nato nel 1978.

Abbiamo passato anni dicendo che quello che sta accadendo non è, come la definiscono i media di  Madrid,  il  desafío catalán, ma la perdita di fiducia nel sistema complessivo da una parte significativa dell’elettorato catalano. È successo prima degli avvenimenti odierni, nel 2010, che con la sentenza della Corte Costituzionale sullo statuto si è verificata una rottura unilaterale del patto costituzionale e territoriale del 1978.

Questo il governo spagnolo non ha voluto riconoscerlo. Neanche ora riconosce l’esistenza di un problema politico. Il PP di Rajoy e Sáenz de Santamaría hanno appaltato tutto al potere intimidatorio della legge.

In questo momento l’incendio  politico sembra irreparabile. Il giudice Lamela ha rotto la possibilità – minima ma fattibile – di risolvere la crisi catalana attraverso il canale democratico di una campagna elettorale calma e riflessiva. In un contesto calmo, l’emergere di una posizione centrista con la capacità di ricomporre la mappa politica catalana era ancora possibile.

Una sorta di airbag che da un lato potrebbe impedire la ripetizione di risultati elettorali  favorevoli ad una indipendenza assoluta e, d’altra parte, potrebbe innescare la ricostruzione una maggioranza catalana disposta ad un patto. Ora, in un clima di turbolenza emotiva dominata dall’offesa umiliazione da una parte, e quella vendicativa dello Stato, il proporsi di un airbag centrista è improbabile.

L’atto sconsiderato del giudice Lamela non è solo il prodotto dell’indifferenza della giustizia per le conseguenze politiche delle sue azioni. È il risultato del clima mediatico della capitale, favorevole a interpretare la nostra legislazione, non come strumento di civiltà, ma come un abito di contenzione. Un vestito di ferro immobilizzante che la maggioranza impone alle minoranze. Il giudice Lamela ha avocato a sé un caso di presunta sedizione e ribellione dopo che la riunione plenaria dei magistrati  dell’ Audiencia Nacional aveva dichiarato di essere di sua competenza.

Ha accettato pienamente le tesi di un procuratore generale ( il procuratore Maza n.d.t.) che, in questo momento di massima gravità è sotto accusa del parlamento spagnolo, costantemente sotto i riflettori rilascia  dichiarazioni con una audacia senza precedenti. (Terribile sarà la caduta, dichiarazione resa dal procuratore Maza, nei confronti del Govern catalano prima dell’apertura dell’inchiesta. N.d.t.).

Secondo il parere di molti esperti, è molto dubbio che il comportamento dei membri del governo catalano si inserisca nei crimini di ribellione e di sedizione. Il professore Jordi Nieva Fenoll, ad esempio, afferma che il carattere violento è essenziale per entrambi i crimini, ma il procés  è stato non violento.

Un’altra testimonianza  dell’estrema severità di Lamela è il poco tempo che ha dato alla difesa (tempo concesso invece  dalla Corte Suprema ai difensori della Mesa del  Parlament catalano); e, naturalmente, la poco fondata applicazione della pena detentiva (a cui dedica solo tre delle sue diciannove pagine per analizzare se i requisiti per la detenzione preventiva siano giustificati o meno).

Un giudice non dovrebbe favorire la politica, certamente. Ma non danneggiarla neanche. La spada della Statua  della Giustizia non deve causare più danni di quelli strettamente necessari, perché altrimenti rafforza il male che intende correggere. Se la Corte Suprema non interviene questa settimana, la campagna elettorale  che avrebbe dovuto calmare il conflitto emerso in Catalogna non sarà tranquilla e riflessiva: sarà estremamente emotiva e drammatica. Ancora una volta, i sentimenti avranno un ruolo guida in una questione  che richiederebbe  anni di calma, ragione e prudenza.

Altre volte ho fatto riferimento in queste pagine il motto di Isabella d’Este, marchesa di Mantova, patrona delle arti, una amica di Mantegna e Raffaello,  lettrice di Ariosto e di Castiglione,  due volte ritratta da Leonardo Da Vinci. “Nec spe nec metu“. Si può tradurre spe come interesse; ed è così che Isabella lo ha capito: “Senza interesse, senza paura“. Il suo era stoicismo: vivere senza ambizione personale; ma con coraggio, senza paura.

Ora, se la interpretiamo in senso letterale, è un motto  di un pessimismo nero, nichilistico: “Senza speranza, senza paura”. È il senso che gli intellettuali del procés danno alla lotta per l’indipendenza. Dal momento che tutto è perso, poiché non c’è speranza rimasta, lanciamoci nella lotta senza timore. Se l’identità catalana è condannata, che abbia almeno una fine dignitosa.

È la responsabilità dello Stato del 1978, che non riconosce la sua pluralità  per non raccogliere le speranze per il futuro dell’identità catalana. Quando la giustizia, abusando del suo potere, si impone in maniera implacabile ed esagerata, rafforza l’irredentismo. Un vecchio aforisma legale riassume perfettamente la questione: Summum ius summa injuriaDiritto estremo, massima ingiuria.

*Traduzione a cura della Redazione.

 

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