Il Parlamento nella Sardegna spagnola (I) [di Pietro Maurandi]
La Sardegna spagnola è durata 400 anni, dallo sbarco dei catalano-aragonesi nel golfo di Palmas nel 1324 fino al trattato di Utrech del 1718 e poi alla pace di Londra, che metteva fine alla presenza della Spagna nei territori italiani. La Sardegna italiana, intendendo quella del periodo piemontese, del regno d’Italia e della Repubblica italiana, è durata finora in tutto 300 anni. Quindi la Sardegna spagnola è durata un secolo in più. Il periodo spagnolo ha lasciato perciò tracce profonde nella nostra isola. Noi non ce ne rendiamo conto nella vita quotidiana, ma se ci pensiamo ritroviamo tracce nella lingua, nei nomi delle famiglie, delle città e dei paesi, nel cibo, nelle chiese e nei palazzi, perfino in alcuni atteggiamenti altezzosi e boriosi, in comportamenti di sfida, che a volte si dicono spagnoleschi e che nella Sardegna profonda si chiamano balentìa. Nell’ambito della Sardegna spagnola il Parlamento è il luogo in cui si è vissuta e si è sviluppata la storia dei rapporti fra il piccolo regno di Sardegna e il grande regno di Spagna, rapporti che rappresentano gran parte della storia di quei 400 anni. La Spagna è stata una grande potenza, lo è stata per quasi 250 anni. Era un impero composto da territori diversissimi, dall’Europa all’America centrale e meridionale, dalle Filippine alle Fiandre. Dopo l’impero romano, è stata il più grande Stato multiculturale, abitato da popolazioni con storie, economie e culture diverse. Si è tenuto insieme per tanti anni grazie ad un’accorta politica di colonizzazione ma anche di sostanziale rispetto delle pratiche e dei costumi dei diversi popoli, unita a feroci repressioni di fronte a ribellioni effettive o potenziali. La presenza spagnola in Sardegna si concluse con la fine della guerra di successione spagnola. Il trattato dell’Aia del 1720 (dopo il trattato di Utrecht del 1713 e la pace di Rastatt del 1714) vide la perdita di tutti i territori italiani compresa la Sardegna, che fu assegnata prima all’Austria e poi ai duchi di Savoia. Il Parlamento in quanto tale è una istituzione antica, che risale almeno al Medioevo. Anticamente era suddiviso in tre bracci, in Sardegna si chiamavano Stamenti, o Cortes, le Cortes di Sardegna. Erano formati dai rappresentanti delle classi, che dovevano raccogliere le imposte e pagarle alla corona. Oltre all’approvazione delle imposte, che nella Sardegna spagnola venivano chiamate donativo, gli Stamenti approvavano una lista di richieste rivolte al governo centrale. Sulla natura di queste richieste vi fu sempre una divergenza e una controversia fra spagnoli e sardi. Questi ultimi sostenevano che l’accoglimento delle richieste fosse una condizione per l’approvazione del donativo, come se si trattasse di uno scambio fra il regno di Sardegna e il regno di Spagna. Era la teoria contrattualista, secondo la quale si trattava appunto di un rapporto contrattuale: noi approviamo il donativo e voi accogliete le nostre richieste. Esattamente quello che gli spagnoli respingevano, sostenendo che le richieste del Parlamento erano “suppliche” (così venivano chiamate) che il governo di Madrid poteva accogliere, respingere o modificare. Per i sardi invece il re di Spagna era il re per tutti, ma i due regni di Spagna e di Sardegna erano formalmente e sostanzialmente distinti, e si trovavano su un piede di parità. Da qui derivava il rapporto di scambio, cioè contrattuale. I rappresentati in questi Parlamenti, e di conseguenza anche i rappresentanti, non erano uguali fra loro: vi erano i nobili, i borghesi e gli ecclesiastici, che avevano diritti e prerogative diverse. C’era poi il popolo (artigiani, operai, contadini, pastori) che diritti e prerogative ne aveva ben poche. Il Parlamento che noi conosciamo è una moderna istituzione, nato con la Rivoluzione Francese, e porta con sé il requisito dell’eguaglianza, proprio della Rivoluzione Francese. Bisogna ricordare infatti che proprio l’egalitè è il risultato più dirompente della Rivoluzione. Prima di allora le persone non erano affatto uguali: c’erano i signori e i servi, i nobili e i borghesi, i ricchi e i poveri, con un diverso status, diverse prerogative e diversi diritti, non solo sul piano giuridico ma anche nella mentalità corrente, nel comune modo di pensare. L’idea che gli uomini fossero uguali era assolutamente ripugnante e scandalosa per la mentalità diffusa dell’epoca, era un’idea rivoluzionaria appunto. Erano stati gli Illuministi a sostenere l’idea dell’uguaglianza e la Rivoluzione Francese a metterla in pratica. Quella idea venne espressa con chiarezza nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, approvata dall’Assemblea Costituente nell’agosto del 1789; nell’articolo 1 è scritto “gli uomini nascono e vivono liberi e uguali nei diritti: le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune”. C’era il precedente dell’analoga affermazione contenuta nella dichiarazione di indipendenza americana, da cui quella francese è mutuata. Ma in quel caso l’uguaglianza fra i cittadini era già nei fatti, negli Stati Uniti non vi erano le consolidate stratificazioni e le forti distinzioni fra le classi che c’erano invece in Europa. Con quell’atto della Rivoluzione Francese, il Parlamento diventava la rappresentanza di tutti i cittadini, uomini (le donne dovranno aspettare a lungo), cittadini e non più sudditi. Passo decisivo fu il giuramento della Pallacorda, con il quale i rappresentanti del terzo stato, in origine convocati per risolvere i problemi del bilancio dello Stato, totalmente dissestato, dichiararono che non si sarebbero sciolti se non dopo aver dato una Costituzione alla Francia. Con questo atto cessarono di essere i delegati nell’ottica degli Stati Generali, cioè convocati per affrontare i problemi del bilancio dello Stato; diventarono i rappresentanti del popolo. Da quel momento incominciarono ad agire come tali e infatti si proclamarono Assemblea Costituente. Un forte impulso all’idea di uguaglianza venne dato anche dall’idea di patria. Prima della Rivoluzione, la patria era la città, mentre a livello statale gli uomini erano sudditi. Quando combattevano lo facevano o per difendere la propria città, cioè i propri beni e la propria famiglia, oppure lo facevano volontariamente per guadagnare il soldo al servizio di un principe. Ancora una volta fu la Rivoluzione a cambiare l’idea di patria. Quando la Francia rivoluzionaria fu attaccata dai principi confinanti (Prussia, Austria, Regno di Sardegna, poi Regno di Napoli), per fronteggiare la situazione la Convenzione nel 1793 ricorse alla coscrizione obbligatoria, con la quale tutti i cittadini abili erano chiamati a difendere un territorio comune, che diventava appunto la patria. Anche qui si esprime l’idea dell’uguaglianza, perché tutti, non solo i soldati di professione, erano chiamati a combattere.
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D’accordo su tutto ma nel trattato di Utrecht (aprile 1713) la Sardegna non è stata ceduta all’Austria bensì alla Baviera il cui duca e principe elettore era Massimiliano II Emanuele (Max Emanuel) che in quel periodo era in esilio nei pressi di Parigi: https://sardinnia.de/it/i-libri/volume-10-vincenzo-bacallar-sanna-la-sardegna-paraninfa-della-pace/