Il prezzo di un modello di crescita sbagliato [di Nunzio Galantino]

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Ilsole24ore 20 ottobre 2017. Alle frequenti e diffuse prassi di interazione, interdipendenza e “contaminazione” non sempre corrisponde un ricorso e un utilizzo positivo di questi termini. Spesso ciò è dovuto a interazioni non riuscite, interdipendenze imposte o a contaminazioni pagate con rinunce eccessive. Le esperienze vissute ultimamente e in contesti diversi mi confermano ancora una volta quanto urgente sia convincersi del carattere “interdipendente” del mondo.

Una interdipendenza che domanda sempre un esercizio: tenere saldamente uniti il sentire diffuso, il lessico “comune”, le dichiarazioni provenienti dal mondo economico, i tanti timori e le legittime speranze che accompagnano il nostro vivere quotidiano. Come i timori e le speranze che ho visto stampati sul volto di uomini e donne convocati da Coldiretti a Bergamo, negli stessi giorni in cui nella città orobica si ritrovavano i ministri dell’Agricoltura del G7.

Partecipando a uno dei momenti che hanno preceduto le sessioni ufficiali (“Obiettivo fame zero”), mi sono reso conto di quanto mondi apparentemente lontani fra di loro, siano intrinsecamente legati. «Il cibo non è merce», ho letto su uno dei cartelli. Un grido di allarme lanciato ai rappresentanti di quel pezzo di mondo, che nelle parole di Jared Diamond, ha avuto «fortuna».

Quello che oggi i 7 Grandi rappresentano (il 31% del Pil mondiale) avrebbe come origine lontana, secondo l’antropologo americano, una fortunata combinazione geografica e ambientale. Questa avrebbe dato il via allo sviluppo agricolo e allo straordinario processo di emancipazione successiva: i commerci, la diffusione del lavoro artigiano, di quello industriale sfociati nel modello capitalistico e nella grande ricchezza messa a disposizione di tanti.

E le fortissime diseguaglianze presenti in una parte non trascurabile del nostro pianeta? Ci sono milioni di persone che soffrono la fame e, ahimè, per la prima volta dopo un decennio, sembra che questa quota sia in crescita da 777 a 815 milioni.

La Fao a riguardo è perentoria: alla base di questa accelerazione ci sono i cambiamenti climatici che si sono fatti sentire con particolare violenza in certi Paesi, ci sono alcune condizioni di guerra endemica, ci sono situazioni legate alle esportazioni drasticamente ridotte per alcune nazioni e al conseguente impatto sulla ricchezza disponibile. A essere colpite in prima battuta sono state le comunità rurali.

La mano dell’uomo quindi è causa o concausa delle situazioni drammatiche che si registrano in alcune parti del pianeta. Le condizioni di questo nostro mondo stanno – anche se non esclusivamente – ancora nelle mani dei G7. Questi Paesi possono normare per il bene comune. Ma sono gli stessi Paesi che hanno il dovere di frenare gli appetiti – talvolta la voracità – dei più forti.

Si tratti di soggetti legati a interessi economici o di poteri statuali. Penso in primo luogo a quell’industria che non cessa di crescere, che non conosce flessioni, che si mostra impermeabile a formule politiche e di intervento meno aggressive e penalizzanti per i più poveri. Penso cioè alla ingiustificata industria degli armamenti.

Da uomo del Sud e proveniente da una terra a prevalente vocazione agricola, sono convinto che l’opportunità della rinascita, di una nuova ripartenza e di un inizio carico di speranza è affidata in buona misura all’agricoltura, come già è accaduto in passato. Con tutto quello che di straordinariamente innovativo l’agricoltura ha saputo accogliere e valorizzare. Il sistema agricolo è purtroppo appiattito sulle regole dell’industria estrattiva, che non ha alcun carattere conservativo.

La produzione e la distribuzione nel modello agricolo si vedono sempre più costrette dentro la logica della commodity, del bene considerato solo in virtù delle sue ragioni di scambio. Senza prendere in esame la molteplicità di effetti sul piano ambientale, su quello sociale e naturalmente sul piano etico, oltre che su quello della relazione fra l’uomo e la natura e dell’uomo con il suo prossimo.

A vincere continua a essere sempre e solo il “prezzo”. Il prezzo che detta legge è anche l’indiretto responsabile della progressiva espulsione dalle loro terre di milioni di contadini, che migrano verso le città, spesso a rischio miseria e fame. Stiamo assistendo proprio in questi ultimi tempi alla pulizia etnica che si sta consumando in Birmania contro il popolo dei Rohingya, denunziata dal Papa e dalle Nazioni Unite. Si tratta di oltre 700mila persone cacciate dalle loro terre. Su queste terre sottratte con violenze e omicidi viene coltivato riso che l’Unione europea importa con sistema tariffario agevolato a tasso zero.

È evidente la grave complicità di chi gira la testa dall’altra parte pur di fare affari. Ignorando la sofferenza di tante persone e il danno ingente che ne deriva a quanti lavorano con onestà la terra e producono riso. Una logica perversa che può essere invertita solo attraverso accordi più ampi e inclusivi, che hanno bisogno di regole “alte” su ambiente, consumo di risorse, consumo della … “vita degli altri”.

Capisco le difficoltà che, a questo proposito, sono chiamati ad affrontare gli uomini di governo, chiamati a fare i conti con la realpolitik; con la politica fatta di consenso che va guadagnato, con quella della quotidianità e del rumore mediatico e con la politica dei poteri, i più svariati.

Mi permetto però di ricordare che la realpolitik, quando fa bene il suo mestiere, non è mai separata da un orizzonte che comprende il bene comune e dall’idea che, come afferma Papa Francesco: «… gli esseri umani, capaci di degradarsi sino all’estremo, possono anche superarsi, ritornare a scegliere il bene e rigenerarsi, al di là di qualsiasi condizionamento psicologico e sociale che venga loro imposto».

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