Economia e declino. Della vera Sicilia non si parla [di Lucrezia Reichlin]

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Corriere della Sera 10 novembre 2017. Il nuovo presidente della regione Sicilia deve affrontare una sfida enorme. Ci si è molto soffermati sul significato del voto siciliano in vista delle prossime elezioni politiche, ma la domanda che a me preme porre — non solo al nuovo governo dell’isola, ma anche a quello nazionale — è quale sia una proposta in grado di invertire almeno parzialmente la depauperizzazione che questa regione ha vissuto negli ultimi quindici anni.

Come il resto del Mezzogiorno, anche se in misura minore, la Sicilia sta vivendo oggi una modesta ripresa economica. Ma tuttavia non è in grado di contrastare un trend preoccupante di perdita del capitale umano che mette a repentaglio lo sviluppo futuro della regione. Stiamo parlando della quarta regione italiana per popolazione, di un’area grande più o meno come la Finlandia. Questa domanda dovrebbe interessare quindi tutti noi.

Guardiamo prima a qualche dato che riguarda il Mezzogiorno in generale. Dal 2002 al 2015, secondo la Svimez, sono emigrati circa un milione e settecentomila persone, più del 50% giovani, di cui circa il 20% laureati. Emigrano i residenti con una maggiore propensione al rischio, i più ambiziosi e i più qualificati. Molti di questi sono siciliani.In Sicilia questo si accompagna ad un drammatico calo degli occupati nell’industria. Dal 2000 al 2016 questi ultimi sono diminuiti del 21.5%, contro un dato italiano dell’11% e, nel periodo 2015-2016, del 3.8% contro il 0.3% nazionale.

Si vede, invece, un aumento dell’occupazione nei servizi a basso contenuto di specializzazione e quindi un calo di produttività del lavoro che, nel periodo 2000-2016, è stato del ben 9.6% (quasi il doppio del dato italiano, pertanto anch’esso allarmante). Gli studi storici mostrano che le cause originarie del divario tra Sud e Nord in Italia sono soprattutto da attribuirsi alle divergenze nel capitale umano.

Gli storici Federico, Nuvolari e Vasta, in uno studio recente, ricordano che nel 1871 il tasso di alfabetizzazione nella provincia di Caltanissetta era dell’8.3% contro il 57.7% a Torino. Mostrano poi che, se Caltanissetta avesse avuto lo stesso livello di alfabetizzazione di Torino, quarant’anni dopo avrebbe raggiunto un salario reale medio più di tre volte maggiore. Simili calcoli si possono fare oggi per prevedere dove sarà la Sicilia tra 20 anni rispetto al Nord d’Italia.

Quando si parla di capitale umano si parla di tante cose che hanno a che fare sia con l’offerta che con la domanda. Per l’offerta, si deve guardare alla scolarizzazione e alla qualità della formazione scolastica, ma anche al tipo di competenze che si acquisiscono lavorando in imprese innovative e con pratiche aziendali che valorizzano i talenti. Per la domanda, è cruciale la presenza sul territorio di settori ad alto valore aggiunto che possano beneficiare di personale qualificato e che abbiano interesse a fare della formazione aziendale un perno del loro sviluppo e competitività.

Per questo preoccupano non solo i dati sull’abbandono scolastico, la percentuale di coloro che decidono di proseguire dalle secondarie all’università (in calo vertiginoso dal 2003 al 2013), l’emigrazione dei laureati — cioè l’offerta — , ma anche i dati della domanda, che vedono una regione concentrata sempre più su settori a basso valore aggiunto, bassa produttività e basse retribuzioni.

Molti miei autorevoli colleghi, risponderanno a queste osservazioni dicendo che, date le circostanze, è meglio che i talenti siciliani emigrino al Nord o all’estero dove li aspetta un futuro più promettente e sarebbe irresponsabile cercare di trattenerli. È un modo per dire che bisogna avere più a cuore i siciliani (non necessariamente in Sicilia) che la Sicilia come regione con i suoi residenti.

Ma tutta la ricerca sulla crescita mostra che rinunciare a investire sul capitale umano in nome del principio che ogni regione si specializza dove può, innesca meccanismi di divergenza economica e di impoverimento che intrappolano regioni e paesi per secoli. Nessuno deve essere costretto a rimanere, ma bisogna lavorare per creare nuove opportunità per chi resta, anche per incoraggiare il ritorno e una immigrazione qualificata. Dal punto di vista politico, bisogna decidere se questa sia una priorità o un problema secondario.

Ma se si volesse oggi cercare di contrastare la fuga dei talenti dal Sud, cosa bisognerebbe fare? Primo, riconoscere il problema e, appunto, la sua priorità. Secondo, non disperdere risorse ed energie in mille progetti ma scegliere le cose importanti.

Le misure di incentivazione all’impresa privata attraverso i fondi della Unione Europea, per esempio, hanno poca efficacia e, nella peggiore delle ipotesi, causano distorsioni nella allocazione delle risorse produttive con la conseguente diminuzione della produttività del capitale. Molta ricerca empirica, non solo in Italia, mostra che questo fenomeno sia quantitativamente rilevante.

Bisognerebbe invece lanciare un progetto comprensivo — chiamiamolo «capitale umano Sicilia» — che agisca su tutti gli elementi elencati, sia quelli che hanno effetto sulla domanda, che quelli che impattano l’offerta. La dote settennale dell’ultimo ciclo di fondi europei è di 17,6 miliardi di euro. Un’occasione da non perdere.

Ma, attenzione. Occorre evitare la dispersione e concentrare i fondi in pochi progetti strategici. Ci vuole un ripensamento totale del come i fondi sono distribuiti ed amministrati. Non sono la prima a dirlo, ma facciamolo. Non sarebbe questo un modo per riportare un po’ di contenuto nella discussione politica post-elettorale?

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