Puidgemont o Ada Colau? Il feticcio dell’indipendentismo e l’alternativa possibile [di Steven Forti e Giacomo Russo Spena]
MicroMega.it 27 novembre 2017.In tutta Europa, come reazione all’attuale crisi socioeconomica e democratica, si stanno diffondendo pulsioni indipendentiste: nuove mini statualità in opposizione allo strapotere finanziario di Bruxelles. Ma, come dimostra la Catalogna, sono illusioni più che vie percorribili per un reale cambiamento. Che passa invece attraverso la valorizzazione dei cittadini nel governo delle città, come dimostra Barcellona con Ada Colau. Lo scorso 5 ottobre Mauro Pili, deputato sardo di Unidos e appartenente al gruppo Misto, ha presentato alla Camera una proposta di legge costituzionale per avviare un percorso “democratico per far scegliere ai cittadini se continuare a essere discriminati dallo Stato italiano o meno”. La sua non è una voce isolata: a quanto si apprende da un recente sondaggio, in Sardegna aumenta la percentuale del fronte indipendentista. I cittadini sardi si sentirebbero abbandonanti dallo Stato centrale, la disperazione per la crisi economica, la sfiducia nei confronti delle istituzioni, la burocrazia invincibile e impermeabile completerebbero il desolante quadro. Ma le pulsioni indipendentiste sono in crescita. Ovunque. Dal Nord al Sud Europa. Da Ovest ad Est. Non è un caso che una delegazione di indipendentisti sardi, così come di indipendentisti fiamminghi e veneti, senza contare la presenza del leghista Mario Borghezio, sia volata lo scorso 1 ottobre a Barcellona per vigilare sulle votazioni del referendum di autodeterminazione convocato unilateralmente dal governo catalano. Quella consultazione poi repressa dal governo centrale guidato da Mariano Rajoy. Con tutte le differenze possibili tra la causa sarda e quella catalana – che ha maggior ragion d’essere dal punto di vista storico e quindi non paragonabile ad invenzioni, come, ad esempio, la Padania – c’è un primo punto da evidenziare: le rivendicazioni indipendentiste si configurano come la risposta alla degenerazione dell’Europa. Più aumenta la crisi, più c’è richiesta di istituzioni prossime ai cittadini. Viviamo una fase di post-democrazia. L’astensionismo dilaga, attestandosi in molti casi al di sopra del 50%, così come gli spazi di partecipazione sono ridotti al lumicino. Per lo storico inglese Garton Ash la crisi e la disintegrazione sono dappertutto e sotto gli occhi di tutti. Il baratro è vicino. “L’eurozona – scrive – è in balia di una disfunzione cronica, la luminosa Atene è piombata nella miseria, i giovani spagnoli con tanto di dottorato sono ridotti a fare i camerieri a Londra o a Berlino, i figli dei miei amici portoghesi cercano lavoro in Brasile o in Angola, la periferia dell’Europa si allontana dal suo cuore. Non esiste Costituzione europea poiché più avanti di quel 2005 è stata bocciata dai referendum in Francia e in Olanda”. Questa Europa, per come è stata costruita, non piace. E, contemporaneamente al disprezzo dell’eurocrazia, divampa una forte richiesta di sovranità popolare. Le rivendicazioni territoriali, da questo punto di vista, sono concepite come passaggi identitari fondamentali per risentirsi nuovamente comunità. Parte di qualcosa ed elemento di riscatto sociale. Ma – e qui vorremmo soffermarci con attenzione – esiste una profonda differenza tra le spinte neomunicipaliste e le rivendicazioni indipendentiste. Una frattura enorme tra lo spazio urbano, la città, e la creazione di nuove statualità, più piccole di quelle esistenti. L’indipendentismo si presenta come un feticcio. Un’illusione sovranista. Fondata, per di più, su quello che lo scrittore e attivista Fredy Perlman chiamava “il persistente fascino del nazionalismo”. Si palesa come una soluzione alla crisi economica, sociale e democratica quando la soluzione non è. E la Catalogna ne è una prova. Nel 2011 la Spagna è stata attraversata dalla protesta degli Indignados, un movimento che ha cambiato il volto al Paese riuscendo a politicizzare la crisi. La rabbia popolare, sia a Madrid che a Barcellona, si è rivolta contro l’alto, i politici corrotti, le banche e l’establishment finanziario. Le piazze indignate reclamavano “democrazia reale” ed erano animate da migliaia di giovani vittime della precarietà. In quel movimento, nelle piazze catalane, la rivendicazione indipendentista era praticamente inesistente. Si chiedevano diritti, reddito e un futuro degno. Non c’erano bandiere. Men che meno quella indipendentista, l’estelada. Poi cosa è successo? Che le nuove generazioni, quelle più spaesate e indemoniate contro istituzioni ormai sfiduciate, hanno visto nella Catalogna un percorso di emancipazione personale e sociale. E non solo i più giovani: anche molti quarantenni e non pochi pensionati. In gran parte membri di quei ceti medi che la crisi ha colpito duramente. Qui ritorna il discorso del senso di appartenenza ad una comunità più piccola. Veramente la nascita, difficilmente realizzabile, quasi utopica, della Catalogna potrebbe alleviare i dilemmi dei giovani senza futuro? O quelli dei lavoratori cinquantenni? Una nuova mini-statualità in Europa risolverebbe le sorti di milioni di cittadini? Chi scrive pensa che l’unico cambiamento possibile passi per il rovesciamento della piramide basso vs alto, per la costruzione di un nuovo welfare universale e politiche progressiste e di redistribuzione delle ricchezze, altrimenti il rischio è semplicemente che alla Casta spagnola di Rajoy si sostuisca la Casta catalana, altrettanto corrotta, di Carles Puigdemont. Nessuna modifica dei cosiddetti rapporti di classe. Che è in fin dei conti quello che sta succedendo. In questi cinque anni di Procés sobiranista catalano l’egemonia è rimasta sempre saldamente in mano a chi aveva governato la regione dalla fine del franchismo con buona pace degli anticapitalisti indipendentisti della Candidatura d’Unitat Popular (Cup), che tanto interesse hanno risvegliato in una certa sinistra italiana che abbraccia con troppa facilità le bandiere altrui, per poi gettarle dalla finestra quando non servono più. Lord Byron ha vissuto in un’altra epoca, quella del romanticismo: sarebbe ora di metterselo in testa. L’egemonia in Catalogna l’ha mantenuta il partito di Puigdemont – Convergència Democràtica de Catalunya ora ribattezzato Partit Demòcrata Europeu Català – che ha governato ininterrottamente dal 1980, tranne un breve intermezzo dal 2003 al 2010 con il Tripartito di sinistra di Pasqual Maragall e José Montilla. Prima con Jordi Pujol, caduto in disgrazia tre anni fa per una serie di casi di corruzione che riguardano direttamente la sua stessa famiglia. Poi con Artur Mas, uno dei politici più neoliberisti della destra catalana. Dal 2012 Mas ha cercato di rifarsi una verginità cercando di cavalcare la tigre indipendentista, anche per distogliere l’attenzione dai troppi casi di corruzione che vedono coinvolto il suo partito. Convergència, partito nazionalista moderato fin dalla sua fondazione, non aveva mai rivendicato l’indipendenza della Catalogna: fino all’autunno del 2012 difendeva una maggiore autonomia per la regione attraverso una serie di accordi con gli esecutivi di Madrid, sia con il Psoe che con il Pp. E proprio con i popolari a patti ci è arrivata sempre: non solo per tattica, ma soprattutto per convinzione. Quando Mas è andato al governo, nel novembre del 2010, ha applicato i maggiori tagli al Welfare della storia della Catalogna democratica: durante il 2011 nemmeno in Grecia si era arrivati ad applicare così duramente e convintamente le politiche di austerity richieste da Berlino e Bruxelles. Tanto che gli indignados obbligarono Mas a entrare nel Parlamento catalano in elicottero nel giugno del 2011. Solo a piazza Syntagma, ad Atene, si erano viste scene simili. Ancora nel marzo del 2012, a soli sei mesi dalla prima grande manifestazione indipendentista, Mas criticava Rajoy – andato al potere pochi mesi prima a Madrid – per non applicare seriamente le politiche di austerity come faceva lui in Catalogna. È credibile dunque Mas quando parla di una Repubblica catalana giusta socialmente? Lo è Puigdemont, scelto, detto en passant, proprio da Mas per sostituirlo nel gennaio del 2016? Basta andare a vedere che politiche faceva il presidente catalano deposto – e ora fuggito in Belgio – quando era sindaco di Girona. E basta vedere che politiche ha portato avanti l’esecutivo catalano negli ultimi cinque anni di Procés sobiranista. Anche dopo l’autunno del 2012, quando Convergència si è convertita all’indipendentismo ed Esquerra Republicana de Catalunya è entrata nel governo, nulla è cambiato. Nemmeno quando, come nell’ultimo biennio, hanno avuto bisogno dei voti degli anticapitalisti della Cup per poter governare. Si sono mantenute le stesse politiche di tagli al sociale applicate dal 2010 in avanti. Le correlazioni di forza non sono cambiate. E di sicuro non potranno cambiare se chi si considera di sinistra, come la Cup, appoggia un governo di destra. La CUP non ha fatto altro che consentire a delle élites politiche corrotte di mantenersi al potere, permettendo un ricambio dei loro dirigenti convertiti ora in eroi e martiri della causa patriottica. La Cup ha dimostrato di priorizzare la nazione alla classe, per utilizzare una terminologia novecentesca, schiava com’è di una logica terzomondista che non ha alcun senso in una regione che gode di un’ampia autonomia in un paese europeo del XXI secolo. Franco Berardi (alias Bifo) parla di “illusione ottica”. Sull’ultimo numero di Alfabeta2 scrive, giustamente, che la rivendicazione catalana rischia di sciogliersi come neve al sole: “Si dovrebbe abbandonare il campo miserello dell’indipendentismo per aprire la vera questione: indipendenza dalla governance finanziaria europea di cui Madrid è solo l’ ottusa guardia armata. Il nemico non è a Madrid. A Madrid ci stanno dei fascisti arroganti che eseguono ordini decisi altrove: non a Bruxelles, ma a Francoforte. Non serve – si legge ancora – un nuovo staterello catalano, anche se repubblicano. Una comunità colta e cosmopolita come quella catalana non deve essere ridotta, per disperazione, a credere nelle virtù della nazione. Occorre invece far tutto il possibile perché la rivolta, libera dalle illusioni nazionaliste possa dispiegarsi come fattore di destabilizzazione della dittatura finanziaria”. E se nel caso della Catalogna si tratta di illusione ottica e sovranista, nel caso di Barcellona la questione è differente. La città può rappresentare, veramente, il luogo per rompere la gabbia europea dell’austerity. Non è un caso che la Cup, al Comune della Ciudad Condal sia all’opposizione della sindaca Ada Colau. E’ la dimostrazione che il neomunicipalismo e l’indipendentismo sono due fenomeni differenti e, persino, contrapposti. A Barcellona si punta sull’empowerment, ovvero l’attivazione diretta dei cittadini, per affrontare le politiche che mettono in pericolo i diritti dei cittadini e sperare in una possibilità di cambiamento evolutivo e in una narrativa comune per opporsi alla crisi. Le città, intese quindi come elemento di rottura e discontinuità verso un sistema oligarchico e centralizzato, possono sperimentare con nuovi strumenti di co-partecipazione e co-gestione. Luoghi di appartenenza per un nuovo riscatto sociale. Agorà dove il cittadino è parte attiva e non singolarità passiva di fronte a scelte calate dall’alto. L’errore più grande sarebbe quello di considerare il territorio urbano come un semplice distretto elettorale e non come il motore del cambiamento. Il diritto alla città include, riassume e rilancia un orizzonte dei diritti civili che ci riguarda da vicino perché interroga la nostra concezione della società: “Perciò”, scrive lo storico dell’arte e paesaggista Salvatore Settis, “protestare in città vuol dire intenderla non come spazio neutro, ma come teatro della democrazia. E, se città e paesaggio sono le due facce di una stessa medaglia, non può esservi diritto alla città senza diritto al paesaggio”. Bisogna sprigionare una sana spinta identitaria verso i propri luoghi, ben diverso dalla rivendicazione di nuove statualità. Riscoprire l’orgoglio per le proprie radici: Barcellona, Birmingham, Madrid, Bristol, Cadice, Saragozza, La Coruña, Santiago de Compostela, Grenoble, Wadowice e Slupsk in Polonia, e, ovviamente, Napoli, sono esempi emblematici di città ribelli, di città senza paura, che mostrano un approccio municipalista innovativo. La risposta dei nuovi sindaci, sparsi per l’Europa, è stata cercare di affrontare il nuovo scenario a partire dalla politicizzazione del territorio, dai problemi di sopravvivenza quotidiani della gente, per trovare casa, per muoversi nella città, per pagare le bollette di utilities totalmente mercificate, per sopravvivere in città in cui aumentano le diseguaglianze interne di reddito, di aspettativa di vita, di condizioni abitative e urbanistiche. In questo senso conviene ricordare le riflessioni uscite postume di Benjamin Barber. Come commentava il politologo americano, se immaginiamo una riunione di cinque sindaci di città molto lontane tra loro, per esempio Nairobi, Seul, Parigi, Boston e Melbourne, è molto probabile che in pochissimo tempo parlino degli stessi argomenti, ossia di problemi ambientali e mobilità, regolamentazione e gestione delle utilities, sicurezza e pulizia urbana e di come affrontare le questioni abitative in un periodo di finanziarizzazione globale e di servizi turistici su scala mondiale. Se invece si incontrano i capi di stato di quei Paesi non riuscirebbero a parlare degli stessi argomenti. Da un lato l’alternativa possibile – con tutte le difficoltà annesse ad un nuovo percorso politico – dall’altra il feticcio dell’indipendentismo.
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Si condanna l’indipendentismo, definendolo un feticcio e cioé una illusione che non risolverà i problemi delle nazionalità. Ci si esprime contro le nazioni senza Stato, e si parla di una ipotetica quanto irreale nazione europea, quale panacea di tutti i mali. si tenngono in conto solo gli aspetti economici, tralasciando gli aspetti storici, culturali, non avendo contezza che la situazione attule è stata plasmata, scientemente da Altri a scapito di Questi. L’indipendentismo non è l’arrivo ma è la partenza. L’indipendentismo è un percorso attraverso il quale confrontarsi, da pari a pari, partendo dal proprio territorio, dalla propria gente, dalla propria cultura.
In considerazione dell’egoimo, delle prevaricazioni che si subiscono quotidianamente, da parte di una nazione che non esiste (Europa) e di un’altra (Italia) che non è la nostra, ci saranno delle pressioni, delle incomprensioni, delle difficoltà ma, nel contempo, ci sarà la consapevolezza della dignità di un popolo che agisce, talora sbagliando, per determinare il proprio destino.
La Sardegna (io sono sardo) che si confronta «alla pari» con le istituzioni europee, è una situazione irreale.
Egregio sig. Di pasquale, non vedo perchè il trattare da pari a pari con altre Istituzioni e in particolare con le Istituzioni europee si debba configurare come una “situazione irreale”. Già oggi le Istituzioni “sarde”, nell’ambito della normativa vigente, trattano e si confrontano, sia con le istituzioni europee che con quelle di altri posti. Il confrontarsi con gli Altri, presuppone, pacatamente, la presa di coscienza della propria realtà ( interessi economico/culturali, grado di sviluppo e programmi adeguati) senza la quale, come succede adesso si subiscono le politiche, non si è dei”pari” ma si è costretti a essere dei servi della gleba. Non me ne voglia, ma, la nostra condizione (seo sardu deo puru) di sudditi ha prodotto tanto di quell’autorazzismo da indurci a credere che le situazioni reali, ancorché vissute in maniera passiva, siano delle irrealtà alle quali Noi non possiamo volgere gli occhi.