Ricostruiamo comunità che scambino democrazia [di Umberto Cocco]

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Sono stato 4 ore ad ascoltare il dibattito sullo spazio pubblico urbano, ieri sera (lunedì) nell’aula magna dell’Università di Sassari, e leggerò volentieri il libro che vi si presentava, una ricerca a cura di Antonietta Mazzette, del quale questo sito si è già occupato. Ho io al mio paese e hanno tutti i sindaci sardi di paese e di città, se ne rendano conto o no, il problema enorme di capire come si organizza lo spazio pubblico, paradossalmente ma non tanto in presenza di risorse ancora consistenti che continuano ad arrivare per rifare piazze, strade, ristrutturare edifici pubblici, allestirvi musei, centri sociali, biblioteche.

Abbiamo rifatto i paesi, soprattutto i più piccoli, strada per strada, molti (dove gli anni ’70 non sono stati disastrosi come nei paesoni più grandi e più dinamici) sono anche belli, è stato salvaguardato il tessuto urbanistico storico, le architetture delle case private, degli edifici pubblici. Ma non c’è nessuno che animi quelle piazze e che attraversi quelle strade se non in macchina, non ci abitano che poche centinaia di persone, spessissimo anche il sindaco abita altrove, nelle città capoluogo di provincia o di regione. E i molti, troppi musei, centri sociali, le poche biblioteche, raramente aperti, non gestiti, ingestibili.

E va bene (cioè va male): questo è lo spopolamento. Ma anche nei paesi più grandi, con ritmi meno impetuosi di decremento demografico, dove la gente è rimasta, non si vede più insieme nelle strade e nelle piazze. Si vede ai funerali, una delle ultime scene di massa, si vede alle feste ma pure lì sempre meno, un complessino canta, i giovani maschi al chiosco là davanti, a bere birra (e quant’è difficile abituarsi a un’altra modalità di fruizione, sedersi comodamente sulla sedia ad ascoltare spettacoli di qualità, non sottoprodotti).

La verità è che i centri rurali sono urbani, la vita rurale è urbana, che facciamo qui quel che si fa in città, persino più intensamente. Si portano i figli a scuola in macchina, in macchina i pastori raggiungono l’ovile, portando mangime e riportando indietro latte (senza sapere da dove viene il mangime e dove finisce il latte, salvo lamentarsi per l’alto costo del primo e il basso prezzo al quale gli viene pagato il secondo: ma questo è un altro discorso. O magari no, aggregarsi in cooperativa, vedersi in cooperativa, nella piazza davanti, forse era un modo per stare meno subalterni….). Si fa la spesa nei centri commerciali della più vicina cittadina, dove è piacevole camminare magari senza comprare, il sabato e la domenica, fuggendo dal paese che non ha marciapiede percorribili, strade sicure, vetrine illuminate..

Certo cambia la struttura sociale delle comunità (quanti dubbi, a usare questo concetto….): ci si aggrega per scelta, per affinità, si comunica e ci si intende a distanza, si sfugge al controllo sociale della vita comunitaria e di vicinato, all’impicciarsi gli uni degli altri, si sta davanti alla tv in casa e a smanettare al computer, le giovani generazioni. E quante conquiste ci sono in queste abitudini della modernità: nelle piazze affollate dei paesi dell’interno si concepivano e si alimentavano le faide, fra la strada affollata e il bar… (Mi ha molto colpito che il ragazzo di 26 anni ucciso con il padre a Noragugume, a 5 chilometri dal mio paese l’altra mattina, avesse appena caricato il programma “What’s app” sul cellulare, si fosse iscritto a facebook da pochi giorni. Sentivo un dibattito alla radio sul forte calo del numero degli omicidi in un decennio anche nelle regioni maggiormente “criminali”, la Sicilia, la Calabria, la Sardegna… Erano i giorni degli insulti a Bersani a rischio della vita, alla ragazza malata che aveva difeso l’uso delle sperimentazioni sugli animali, alla Merkel dopo l’incidente con gli sci. Odioso, certo: ma chi insulta non uccide, diceva un criminologo. Da qualche parte l’aggressività deve scatenarsi….).

Ho letto in gioventù con vera passione Walter Benjamin e il Baudelaire dei Passagen, e so che le città, i boulevard della magnifica Parigi dell’Ottocento sono stati concepiti in funzione della borghesia trionfante di quel tempo, uscita dalla rivoluzione industriale con suoi propri nuovi bisogni e figure, del bisogno di mondanità, di relazioni sociali con le altre classi di sotto e di sopra, di palcoscenici dove mostrarsi, dove rilucere, trionfare appunto, mentre il flaneur pigramente ne osservava, e raccontava, le mosse. Figurarsi noi, in questi vorticosi mutamenti del costume, fra scomposizione delle classi, frantumazione, società liquida….

Non sarà il rimpianto di quel che furono i nostri paesi con la loro vita sociale esagerata, “tottu a cumone“, una immersione totale nella vita comunitaria, nella casa aperta, nel vicinato che ne era la prosecuzione, nelle strade, in campagna, nelle piazze affollate, nei passeggi domenicali che intasavano il corso, in ogni paese (chi non ricorda cosa voleva dire attraversare in auto i centri abitati lungo la vecchia Carlo Felice di domenica negli anni ’60?). Che fatica, che oppressione, insieme al calore che ci avvolgeva, appiccicaticcio, vischioso….. Non sarà questa nostalgia a guidarci nel provare a concepire il ruolo del pubblico, prima ancora che dello spazio pubblico.

Il punto è come si concepiscono gli spazi pubblici per comunità (?) e città in trasformazione continua, e alla ricerca di che cosa, di costruire quale spirito, interpretare quale bisogno, se ci fosse, di spazi accessibili e di aggregazione. Chi li individua i bisogni? Non possono essere gli architetti, gli urbanisti, progettisti solitari, indifferenti alle altre competenze. Certo nemmeno i sindaci, non da soli. Credo che la questione sia tutta qui, di come ascoltare, di trovare gli strumenti di lettura, le chiavi di comprensione. Se diventa un’abitudine raccomandata dai medici quella di camminare 6 km al giorno, in che spazi lo si può fare in paese, senza pericoli, nell’aria pulita, senza le macchine che ti sfreccino accanto? E’ più facile e piacevole camminare nelle strade della città, delle belle città europee, che nei nostri paesi di ridondante retorica della vita sana.

Almeno cerchiamo di non fare danni, nel fare le opere pubbliche. Ricordo la piazza “d’uso collettivo” progettata da Giò Pomodoro ad Ales per i 30 anni dalla morte di Gramsci, la volle chiamare così, ma una piazza prima frequentata non lo è stata più, quando si sono tolti i ponteggi, si sono scoperti i simboli di un discorso còlto dell’artista, la piazza “restituita” al paese.

Allora? Non saprei che dire, salvo che abbiamo bisogno d’aiuto; prima ancora che di una Regione all’altezza, di una discussione vera, pubblica, con tutte le competenze mobilitate. Sono andato via da Sassari ieri con più interrogativi che risposte, ma va bene, va benissimo. Uno è enorme: davvero abbiamo bisogno di aggregazione, e perché? Ho bisogno di una risposta che cercherò nel libro di Antonietta Mazzette, e in tutti i molti libri da leggere e nelle persone con le quali parlare. Mi vorrei aggrappare a una risposta, e provo a dirla: abbiamo bisogno di aggregarci per non essere soli di fronte al potere, per metterlo in discussione, criticamente, perché non ce la diano a bere.

In quella stessa aula magna di Sassari avevo assistito qualche anno fa alla presentazione del libro di Stella e Rizzo sulla “casta”, presente il primo dei due autori, con Soru allora presidente della Regione. Non è che con troppa leggerezza abbiamo accettato di distruggere i partiti, per lasciare questo vuoto incredibile fra l’alto e il basso, senza corpi intermedi di mediazione e di discussione, tutti lì a tifare Renzi nella migliore delle ipotesi date, Berlusconi nella peggiore? Pensiamoci, erano una piazza i partiti. Forse se reinventiamo le nostre piazze, vorrà dire che avremo reinventato anche uno spazio pubblico, un filtro in qualche modo collettivo, un resistenza alla subalternità. (Perché non mi convince che lo spazio pubblico dei nostri tempi è virtuale, che sono le chat, facebook, twitter. Sospetto ancora che “il mezzo è il messaggio”, che chi detiene la proprietà privata dei mezzi di comunicazione non lo fa per regalare spazi di democrazia).

*Sindaco di Sedilo

One Comment

  1. Francesco Sogos

    Bravo Umberto. Il tuo articolo fa riflettere. E mi riaccende la grande suggestione di tornare a vivere in paese.

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