Gli orti impauriti della sinistra [di Ezio Mauro]
La Repubblica 4 gennaio 2018. Il concetto di sinistra rischia di vivere proprio oggi i suoi anni più difficili del dopoguerra italiano. Più ancora dei partiti che dovrebbero impersonarlo, e non sanno come. Più del popolo sparso che vorrebbe conservarlo, e non sa dove. Più dei politici mutanti che oscillano periodicamente tra innovazione e nostalgia, con vocabolari asfittici, valori sbiaditi, ideali intermittenti mentre solo l’odio intestino è perenne. È come se la sinistra faticasse a vivere senza il riferimento di uno schema teorico e l’aggiornamento costante di un impianto culturale. Tanto più oggi quando la trasformazione del lavoro ha moltiplicato ma polverizzato la vecchia prestazione d’opera, ha disperso la classe, ha nascosto lo stesso principio lavorista (un’obbligazione volontaria nei confronti di se stessi e della società) dentro formule mimetiche, la professionalità, il sapere, le competenze, spostando sempre più il valore sociale dal produttore al consumatore, dal materiale all’invisibile. Ma c’è di più, perché la sinistra non è stata capace di inseguire il lavoro là dove andava, di accompagnarlo nelle sue metamorfosi, di difenderlo sotto l’urto della crisi e infine di rappresentarlo nuovamente nella disaggregazione con cui riemerge dal decennio. Quasi che, finito il vecchio ancoraggio fisico della fabbrica, la sinistra non trovasse un’altra base concreta d’appoggio e di relazione. Come se dovesse vivere fuori dalla materialità, disincarnata, come se i bisogni e le aspirazioni materiali non esistessero, e non chiedessero di essere trasformati in politica quotidianamente. Perché il problema del lavoro non si è certo esaurito nel Novecento. Aggiungiamo l’incapacità di elaborare una moderna teoria della crisi. Di fronte a un pensiero dominante che ha portato il mondo sviluppato dentro dieci anni di fortissimo indebolimento delle sue basi economiche e finanziarie, la sinistra non ha prodotto un pensiero critico, un’opzione teorica concorrente, un’obiezione culturale. Lasciando intendere che con l’accettazione compiuta del capitalismo (in enorme e colpevole ritardo rispetto alla Bad Godesberg socialdemocratica) il compito della sinistra fosse concluso, e la critica ormai potesse venire soltanto dall’esterno, dalle forze antisistema. Sono le ragioni per cui il concetto stesso di sinistra deperisce più delle sue stanche organizzazioni. Perché l’assimilazione culturale finisce per far precipitare ogni cosa nell’ambito dell’indistinto democratico, mentre la difficoltà della fase e le macerie della crisi convincono i leader che bisogna giocare sempre la partita fuori casa, in campo altrui, come se non esistesse più un terreno di gioco proprio, dove valgono idee autonome, tradizioni, storia, valori specifici: e tutto questo si traduce addirittura in una cultura, che determina le politiche. Senza una cultura riconoscibile, aggiornata al momento che stiamo vivendo, la politica vive di vita artificiale, in serra, e non riesce a collegare le sue azioni una all’altra facendole diventare storia, condannandole invece — anche le più riuscite — alla fiammata solitaria della performance, dopo la quale si spengono ogni volta le luci e resta soltanto la cenere. Con il vuoto della cultura manca l’anima: e senza un’anima, ci si batte soltanto per sopravvivere, dentro l’egemonia culturale altrui. Dunque la destra esercita un’egemonia culturale? In realtà la destra fa qualcosa di meno, e molto di più: raccoglie e impersona — in presa diretta — l’egemonia culturale dettata dalla crisi, e riesce confusamente ma con profitto a tradurla in politica. La fase apre squarci di inquietudine, di vera paura, di nuova solitudine che la destra trasforma in momenti politici di opportunità, mentre il risentimento dei forgotten men viene convertito in sentimento di destra, quasi “nature”, spontaneo, senza bisogno di traduttori. Possiamo chiamarla una nuova “egemonia materiale”, non elaborata, selvatica e tuttavia fortemente popolare, non ancora teorizzata ma intanto raccolta da partiti tra loro diversi, che coltivano consapevolmente il nuovo egoismo del welfare, l’inedita gelosia del lavoro, la privatizzazione indigena dei diritti. Tutti ingredienti che produrranno una nuova incarnazione della destra, una stagione bio-politica più che ideologica, o meglio un’inedita ideologia del sovranismo etnico e indigeno, dove rischia di tramontare lo stesso principio dell’Occidente. Tutto questo mentre la sinistra avrebbe le carte in regola per chiedere fiducia e continuare a governare il Paese guidandolo nella ripresa dopo averlo accompagnato fuori dalla crisi: dichiarando l’obiettivo di rimediare alle esclusioni e alle fratture provocate dal decennio, in una ricomposizione sociale che è la vera garanzia di futuro, e che la destra non sa fare. Ma per farlo, ci vorrebbe tutto quel che manca, la cultura, la teoria, l’aggiornamento del concetto di sinistra, una nuova rappresentanza di un popolo che esiste nonostante tutto, disorientato e disperso. E questo è l’ultimo problema, che davanti alle elezioni diventa il primo. Incapace di governare, tuttavia Berlusconi in ogni campagna sa creare un “ campo”. Al contrario la sinistra, che sa governare, aveva un campo vasto e lo ha ridotto a una serie di orti: presidiati non per paura del lupo, ma del vicino.
|