Aperta la diga dell’antifascismo dilaga l’odio razziale [di Alessandro Portelli]

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il Manifesto, 6 febbraio 2018.  Macerata. Linciaggi e rappresaglie sono sempre anche forme di comunicazione. È terrorismo nel senso stretto perché hanno lo scopo di terrorizzare le persone del gruppo Lo scrittore afroamericano Richard Wright descrive nella sua autobiografia il clima di terrore che incombeva sulle comunità nere nel Sud della segregazione.

Erano tempi, scrive, in cui un crimine commesso da un nero diventava un crimine commesso dai neri; e la conseguenza era la punizione collettiva, il massacro ritualizzato che abbiamo imparato a chiamare linciaggio. Per molto tempo abbiamo creduto che queste cose fossero un tardo residuo di barbarie da superare con il progresso e la civiltà; quello che è successo nel 2018 nella civilissima città di Macerata conferma che il razzismo non è un residuo che ci lasceremo alle spalle ma un mostro che più credi di averlo ammazzato e più risorge, più orrendo di prima.

Penso ai linciaggi perché la strage tentata e sfiorata a Macerata (ma non ci dimentichiamo di quelle riuscite: Samb Modou e Diop Mor uccisi a Firenze il 13 dicembre 2011) ne ha tutte le caratteristiche tradizionali, con in più qualche variazione nostrana. Intanto, l’intreccio fra ideologia razziale e ideologia di genere. Precisamente come nel più tipico dei linciaggi americani, il terrorista nazifascista di Macerata ha preteso di agire per “vendicare” una donna bianca, Pamela Mastropiero, del cui assassinio è accusato un immigrato africano.

“Proteggere” le donne dalla minaccia nera significa farsi difensori della purezza della “razza” nell’atto di ribadire i ruoli arcaici di genere. Il terrorista di Macerata peraltro non ha cercato di punire l’accusato, che comunque è già in carcere, ma ha sparato nel mucchio. Questo perché uno dei pilastri del razzismo è il rifiuto di riconoscere gli altri come individui: ogni singolo rappresenta l’intero gruppo e l’intero gruppo è responsabile delle azioni di ogni singolo – tanto che anche in questo caso, come spesso avviene nei linciaggi, la punizione collettiva diventa, o cerca di diventare, massacro di massa.

In Italia, il gesto di uno che si è tatuato un simbolo nazista sulla testa evoca anche altre punizioni collettive, come i “dieci italiani per un tedesco” delle rappresaglie naziste. Penso a Salvini, secondo cui la colpa non è di chi spara agli immigrati ma di chi li ha fatti entrare: gli immigrati, cioè, sono colpevoli per il solo fatto di esserci, proprio come gli ebrei per i nazisti.

ALTRA CARATTERISTICA del linciaggio è l’ambigua relazione fra la violenza “spontanea” e la complicità o il silenzio delle istituzioni che della violenza dovrebbero avere il monopolio. Questo è già insito in luoghi comuni come la flebile condanna del “farsi giustizia da sé”. Questo sventurato luogo comune sembra dare per scontato che di “giustizia” si tratti, come se la colpa del terrorista fosse quella di essersi arrogato una funzione dello stato che non è abbastanza rapido e duro nel punire.

Eminenti rappresentanti passati e, temo, futuri delle istituzioni, infatti, sono su una lunghezza d’onda comparabile: da un lato, Berlusconi propone anche lui una punizione collettiva sotto forma di deportazione di massa; dall’altro, dall’area governativa vengono discorsi sulla “sicurezza” e sull’urgenza di bloccare i flussi dei migranti, che rinforzano le stesse paranoie che hanno armato la mano del terrorista di Macerata. In altre parole: non meno assassini, ma meno bersagli.

INFINE, LA RITUALITÀ. LINCIAGGI e rappresaglie sono sempre anche forme di comunicazione: terrorismo nel senso stretto del termine perché hanno lo scopo di incutere terrore non solo alle persone colpite ma a tutti i loro simili. Perciò ritualità e simbolismo sono inseparabili dalla violenza immediata. Qui ci troviamo davanti a una ritualità e una simbologia  il tricolore, il monumento ai caduti, il saluto fascista – che ci fa capire quanto sia ancora difficile districare un’idea di identità nazionale dalle incrostazioni che gli ha attaccato addosso il fascismo. Il messaggio è chiarissimo: essere italiani significa essere fascisti.

LUCIDISSIMO DUNQUE il terrorista, altro che “gesto di un pazzo”. E comunque, anche se fosse: in ciascun luogo e tempo storico, la pazzia prende le forme che gli propone la “ragione” che ha intorno: se l’aria è satura dell’odio sano e normale verso i migranti, è logica che la “follia” si armi in quella direzione, assuma i simboli che i sani e normali condividono e amplificano, e faccia davvero quello che sente ripetere che andrebbe fatto.

Questa è la “ragione” che abbiamo intorno e che respiriamo, a partire dall’irresponsabile e sciagurato discorso di Violante sui “ragazzi di Salò”. Abbiamo legittimato i fascisti nello stesso tempo in cui ci pentivamo di essere stati comunisti; abbiamo riconosciuto ai repubblichini i “valori” e abbiamo accusato i partigiani di “ideologia”.

Una volta aperta la diga dell’antifascismo, non c’è limite alle schifezze che possono tracimare e dare assuefazione al senso comune. Richard Wright aveva paura, e dovremmo avere paura anche noi. In un paese dove ai bambini di San Saba viene impedito di cantare “Bella Ciao” perché “è di parte” (che sarebbe poi la parte della democrazia), non sono solo i migranti ma tutti gli antifascisti ad essere bersaglio di aggressioni e violenze diffuse e impunite (quanti sono oggi i condannati per apologia di fascismo?).

ALABAMA E MISSISSIPPI in salsa italiana, dunque? No, peggio. Mi è già capitato di dire che in Alabama, se non altro, lo ius soli esiste e nessuno lo mette in discussione (anche quel simil-Berlusconi di Donald Trump vuole deportare masse di migranti, ma non gli viene in mente di deportare i loro figli nati negli Stati Uniti e cittadini americani).

Soprattutto, ai tempi della segregazione in Alabama e in Mississippi qualche anticorpo c’era: e non penso solo a quelli che la comunità nera aveva generato da sé, come Rosa Parks, Fannie Lou Hamer, Martin Luther King, ma anche a Viola Liuzzo, a Andrew Goodman e Michael Schwerner, uccisi (col loro compagno afroamericano James Earle Chaney) per essere andati ad affrontare i razzisti sul loro stesso territorio, insieme a centinaia di ragazze e ragazzi bianchi e neri che sono andati al Sud a praticare l’azione diretta nonviolenta, e ne sono tornati vivi ma non senza aver conosciuto il carcere e le botte. E penso a un ministro della giustizia come Robert Kennedy, che l’ha pagata cara anche lui. E da noi?

DA NOI, ASSUEFAZIONE e paura: fascismo, razzismo, nazismo sono parte della nostra quotidianità, tanto che non li chiamiamo più neanche col loro nome. Dice Matteo Renzi che non bisogna “strumentalizzare” il tentato linciaggio di Macerata. Ma strumentalizzarlo consiste precisamente nel rifiutarsi di chiamarlo col suo nome, cioè nel rifiutarsi di dire una parola chiara sul fascismo, il nazismo e i loro portatori attuali, per la preoccupazione strumentale di perdere qualche voto fra un mese.

In altre parole: la ex sinistra è convinta che contro la deriva razzista e nazifascista non ci sia più niente da fare, e quindi niente fa. Anche perché ha paura.

 

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