La guerra di Battista, una storia vera [di Quirina Ruiu]

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Battista aveva concluso brillantemente gli studi liceali a Tempio e si preparava a far rientro in famiglia con l’entusiasmo di chi ha saputo mettere a buon frutto i sacrifici dei genitori che avevano investito sulla sua intelligenza, davvero spiccata. I suoi abitavano in campagna nello stazzo di loro proprietà e vivevano del lavoro della terra, con onestà e parsimonia. Nonostante la sua natura intellettuale, Battista si rendeva utile nei lavori manuali aiutando i fratelli nelle mansioni tipiche di quell’ambiente rurale. Amava la sua terra, il profumo che emanava, la tranquillità che ritemprava il suo spirito assetato di conoscenza.

Come ogni giovane aveva i suoi progetti di vita e coltivava aspettative. Dopo la pausa estiva avrebbe lasciato la campagna per trasferirsi a Sassari dove avrebbe intrapreso gli studi universitari. Impresa non facile per quei tempi, sia per ragioni economiche che sociali. Una mattina d’agosto del 1938 ricevette una cartolina dalle regie poste contenente la chiamata a prestare il servizio militare con destinazione Padova. Accettò con animo sereno quella missione nonostante intralciasse il suo percorso di studi e insieme ad altri giovani galluresi s’imbarcò per Padova dove svolse il suo dovere di cittadino – soldato per diciotto mesi.

Al momento di preparare la valigia per far ritorno a casa avvenne qualcosa che gli ruppe il sogno di rivedere la sua Gallura. Era il giugno del 1940, l’Italia aveva ripreso la guerra espansionistica nel Nord Africa e servivano nuove forze. Battista fu destinato, insieme al suo battaglione, a sostegno della guerra nel deserto. Raggiunsero Lecce e da lì un aereo li portò in Libia e fu l’inizio di una tragedia immane. Lo scenario che si presentò ai loro occhi era terribile. Si videro in un inferno, buttati allo sbaraglio in un teatro di guerra dove italiani e tedeschi da un lato e forze alleate dall’altro si contrastavano senza pietà, in un conflitto impari quanto a dotazione di forze e di armamenti.

Le offensive italiane nel deserto furono numerose con vari fronti aperti, compreso quello egiziano. Le controffensive nemiche, pur disponendo di forze numericamente inferiori, erano tecnicamente e tatticamente superiori essendo gli inglesi dotati di mezzi mobili e corazzati idonei a combattere una guerra di breve durata nel deserto. Centinaia di militari italiani furono fatti prigionieri e internati nei campi di detenzione. Stessa sorte ebbero Battista e i suoi compagni che, dopo la battaglia di Al Alamein, subirono la sorte di essere di essere chiusi dagli inglesi in grandi gabbie,  come fossero bestie feroci. Malvestiti, malnutriti, ridotti a dei numeri di matricola senza altra identità, frustrati e feriti nel loro orgoglio di uomini, alcuni di essi non ressero alla miserevole condizione e divennero facile preda della pazzia.

Battista invece rimase sempre vigile, la sua mente era come una spugna che assorbiva ogni percossa e umiliazione riuscendo ad attutirne gli effetti più devastanti. Lo rendeva forte il pensiero di tornare alla sua terra, unico antidoto alla follia. La prigionia durò quattro anni, durante i quali il suo animo accusò i colpi di tanta sofferenza fisica e morale, col formarsi di cicatrici che non si sarebbero più rimarginate. Aveva letto molti libri con storie di esploratori che esaltavano il fascino del deserto e ne descrivevano le emozioni che dispensava ai viaggiatori.

Ora le trovava ben diverse da quelle che stava sperimentando, precipitato in uno scenario di morte dato da una guerra di sopraffazione dell’uomo sull’uomo, ridotto a pedina di una scacchiera con unica posta in gioco la sua vita. La guerra finì e i sopravvissuti furono rimpatriati. Attraverso il canale di Suez viaggiarono da Porto Said a Napoli e da qui ognuno fece rientro alla propria terra. Battista sbarcò a Cagliari e da lì, in treno, arrivò a Olbia: era l’agosto del 1946. La famiglia non aveva avuto sue notizie dal giorno che era partito ed era rassegnata all’idea che fosse morto. Fu perciò incontenibile la gioia nel vederlo arrivare, pure smunto e spaurito come chi si è smarrito e non trova la via del ritorno.

Riprese vigore tra il calore e l’affetto dei suoi cari, ma quella maledetta guerra lo segnò per sempre. L’apatia s’impadronì di lui, abbandonò le sue ambizioni e si spensero i sogni. Spesso la notte era tormentato dai fantasmi del deserto e dalle immagini di morte, nelle orecchie risuonavano i rimbombi dei cannoni. Era partito giovane pieno di speranze e si ritrovava ora uomo adulto gravato di un tragico destino. Non trovò più la forza e l’entusiasmo per ricominciare, per riprendere in mano il filo dei suoi sogni. Nel suo animo si era per sempre spezzato qualcosa che non riuscì a ricomporre. Solo il silenzio e la pace della sua campagna riuscivano a mitigare l’angoscia che lo opprimeva, diventando le ancora della sua salvezza. La sua mente non riuscì  però a dimenticare quella drammatica esperienza, che lo segnò per il resto dei suoi giorni. Eppure non cessò mai di essere un osservatore attento all’evolversi del mondo che lo circondava, aiutato dalla mai sopita passione per la lettura.

Divenne l’ascoltato e rispettato testimone vivente dell’immane tragedia umana causata dalla guerra. Attraverso i suoi racconti molte persone, soprattutto giovani, maturarono la giusta sensibilità per rifiutare la guerra quale strumento di composizione dei dissidi fra popoli, contribuendo ad alimentare la cultura della pace.

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