La memoria è per sempre [di Raffaele Deidda]
Lunedì è il 27 gennaio, il Giorno della Memoria. Istituito per legge nel 2000, con l’adesione dell’Italia alla proposta internazionale che vuole ricordare le vittime dell’olocausto proprio in questa data. Questa la motivazione: “La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati”. Chiedo scusa a chi già conosce la storia che racconto ormai da anni, già pubblicata in diversi giornali e siti on line. Sono consapevole di essere ripetitivo. Sento però il dovere di raccontarla ancora e la racconterò anche in futuro per chi non la conosce. Lo devo soprattutto al protagonista di questa storia, a cui l’ho promesso, e a tutte le vittime dell’immane tragedia che il mondo ricorda col nome di Shoah. Il ricordo primo va alla metà degli anni sessanta, quando risuonavano le note della canzone di Francesco Guccini “Auschwitz” eseguita dall’Equipe 84, che stimolavano la lettura del libro di Primo Levi “Se questo è un uomo”, testimonianza di un avvenimento storico e tragico, che lo stesso Levi aveva dichiarato di scrivere “per il bisogno irrinunciabile di raccontare agli altri, di fare gli altri partecipi”. Quelle note e quel libro hanno accompagnato il mio desiderio, coltivato negli anni, di visitare Auschwitz. Poi realizzato solo in età adulta. Jerzy Junosza Kowalewski è la guida polacca che nell’agosto 1999 mi accompagnò nella visita al campo di sterminio di Auschwitz. Aveva allora 75 anni. La visita al campo era stata emozionalmente devastante. Chi non è mai stato ad Auschwitz non può forse capire fino in fondo quale disumana, feroce bestialità si sia dispiegata in quella, come in altre località, dove la belva umana ha potuto compiere un atto così terribile finalizzato alla cosiddetta “soluzione finale”, all’eliminazione fisica di milioni di persone: ebrei, omosessuali, zingari, oppositori politici. Stranamente quell’anziano signore polacco, educato, gentile, che padroneggiava diverse lingue straniere, era stato quasi sereno, distaccato, nell’accompagnarmi nei luoghi dell’olocausto. Non aveva manifestato emozioni particolari durante la visita che trasferiva orrore, raccapriccio, e faceva stringere dolorosamente la bocca dello stomaco. Eppure Jerzy Kowalewski aveva vissuto una vita complicata da raccontare e quasi impossibile da credere per la sua drammaticità. Imprigionato dai russi nel 1940 in quanto figlio di un ufficiale dell’esercito polacco, era riuscito rocambolescamente a scappare e a tornare a Varsavia, dove aveva partecipato al movimento di resistenza contro gli occupanti nazisti nel reparto del maggiore Henryk Dobrzanski, noto col pseudonimo di “Hubal”. Fu successivamente arrestato dai tedeschi e rinchiuso nella terribile prigione di Pawiak, dove venne torturato nel corso di estenuanti interrogatori e dove conobbe padre Massimiliano Kolbe, che lo assistette durante la sua permanenza nell’ospedale della prigione. Nel 1942 fu trasferito ad Auschwitz, da cui venne ancora trasferito prima nel campo di concentramento di Lordo-Rosen e poi in quello di Dachau, vicino a Monaco di Baviera. La liberazione avvenne ad opera della 45.ma Divisione di Fanteria USA il 29 aprile 1945. Kowalewski trascorse molte settimane in un ospedale militare americano e, una volta rimessosi, si unì al Corpo d’Armata polacco ed arrivò in Italia. Dall’Italia si trasferì a Londra e da lì in Argentina, per poi tornare in Polonia. Durante la visita al campo di concentramento Kowalewski mi aveva anche raccontato della sua collaborazione nel fornire dati e testimonianze a Primo Levi per la scrittura del libro “Se questo è un uomo”. L’anziano signore polacco mi aveva esibito con orgoglio una cartella contenente gli scambi epistolari con Levi, non nascondendo la soddisfazione di aver anche corretto alcuni errori di datazione e di localizzazione fatti dallo scrittore italiano sopravvissuto alla deportazione. A fine visita lo stavo salutando e ringraziando, scambiando con lui la promessa di rivederci o quantomeno di sentirci telefonicamente, quando avvenne qualcosa di sconvolgente. Una giovane guida, che accompagnava un gruppo in ingresso al campo, chiamava da una distanza di qualche decina di metri con voce concitata Kowalesky, gli chiedeva di non andar via, di aspettare. Nel gruppo da lei guidato c’era un anziano spagnolo, anch’egli sopravvissuto di Auschwitz, che aveva domandato se il suo compagno di prigionia Jerzy fosse ancora in vita. Ho già testimoniato e confermo di non aver mai provato un’emozione così forte in tutta la mia vita, nell’assistere all’abbraccio interminabile fra quei due uomini e nel vedere gli occhi di Kowalesky finalmente bagnarsi di lacrime, un fiume irrefrenabile di lacrime, mentre urlava: “Hermano, mi hermano!” La mano tremava mentre cercavo di scattare una fotografia del loro abbraccio. Non conosco il nome dell’anziano spagnolo. So solo che è un uomo, un “hermano”, un fratello, che la banalità del male aveva deciso di sopprimere forse perché ebreo, oppure testimone di Geova, oppure oppositore politico, oppure omosessuale. Forse perché, semplicemente, non appartenente alla razza ariana, la razza eletta. Porto da allora con me il ricordo di quell’abbraccio che non mi consente di dimenticare, mai.
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Ho letto questo articolo dietro segnalazione di un amico che mi chiedeva se fossi io il raffale deidda che scriveva quegli articoli belli e interessanti su sardegna soprattutto, e devo dire che concordo pienamente sul giudizio del mio amico, continuerò a seguirla con interesse