Sapere le cose, e saperle bene, salva la vita [di Marcello Fois]
Sono cresciuto in una famiglia che riteneva l’istruzione il cardine, la pietra di paragone, della mia posizione nell’edificio del mondo. Così la pensavano sos parentes: sapere le cose, e saperle bene, salva la vita, ne migliora la qualità, ne definisce il senso. Per questo anche solo la scelta di mandare i figli a scuola poteva significare definire un progetto di modernità nella continuità. Siamo figli competenti di padri che erano stati appena più competenti dei loro padri. Siamo stati cioè il frutto di una volontà ferrea, di una convinzione senza tentennamenti. Le scuole erano scomode da raggiungere, freddissime d’inverno, gli insegnanti erano marziani italofoni che parlavano, e avevano il compito di farci parlare, come il farmacista o il medico condotto o il parroco o il maresciallo. La loro autorevolezza dipendeva dal fatto che avevano un patrimonio riconosciuto da trasmettere. La coscienza del mondo era solo un abbozzo d’informazioni in bianco e nero che venivano dai pochi apparecchi televisivi allora in circolazione. Abbiamo reagito con rigore alla disperazione di non intendere al volo, di dover imparare tutto due volte, tutto meglio, tutto più precisamente. In un anno scolastico noi ne facevamo due, il nostro e quello delle nostre famiglie. Nessuno poteva aiutarci a fare i compiti perché buona parte dei nostri genitori erano appena scolarizzati. A pronunciare scuola allora si tremava e si vibrava. Il nostro obbligo era quello istituzionale, ma anche quello derivante dalla necessità di non disattendere alle attese che la cultura, il pezzo di carta, persino la laurea, potevano significare. Mia nonna augurava “unu fizu duttore” a tutte le donne incinte che incontrava, perché “unu fizu duttore” significava coltivare quella rivoluzione antropologica che tutte le culture sane sanno di avere il compito di prevedere. Erano antichi, ma non statici. Vecchi d’età, ma giovani di senso. Avevano in mente se stessi e il loro opposto e quando esclamavano “a su connottu” intendevano dire che non è sano, anzi è suicidiario abbandonare una strada maestra. Siamo figli e nipoti di madri e zie che hanno individuato nello studio l’unico modo per rompere il destino di servitù. Servitù fisica e servitù mentale. Le terache capivano che la qualità delle case che qualcuno le pagava per pulire dipendeva certo dal patrimonio dei padroni, ma anche da una speciale, aperta, informata, visione del mondo. E dal basso della loro scarsa scolarizzazione capivano che istruzione era la parola chiave. Spolveravano interi scaffali di libri e progettavano la carriera scolastica dei loro figli dopo l’obbligo. Tutti dottori li volevano, che voleva dire volerli tutti liberi e magari padroni. Siamo stati figli di una generazione che aveva più paura dell’ignoranza che della scuola. S’iscola non era la Scuola, ma il suo doppio, perché in quella parola era contenuta ogni aspettativa e ogni prospettiva. Come nel romanzo di Dickens, siamo stati tanti Pip che consideravano Grandi Speranzi le opportunità di perfezionare gli studi. Solo chi aveva paura del futuro, chi era prigioniero della propria incapacità di evocazione, temeva s’iscola e irrompeva nella classe per riportare al gregge il proprio figlio. Solo chi ha paura del futuro, chi è prigioniero della propria presunzione di italofono perfetto, di inconsciamente colonizzato, di integrato a parole, continua a temere s’iscola. |
Non gli e l’aveva spiegato nessuno ai nostri genitori che l’istruzione era l’unica strada per un riscatto vero e certo. Lo sapevano per conto loro,lo sapevano perché la vita,la loro vita tremenda di fame malaria tifo e duro lavoro gli e l’aveva insegnato. E per tanti anni hanno avuto ragione e soddisfazione nel vedere i loro figli diplomati e laureati realizzare una vita degna e molto migliore della loro. C’era la spinta della famiglia ma c’era la certezza che alla fine del percorso di studi i sacrifici sarebbero stati premiati. Oggi laurearsi,soprattutto nelle scienze umanistiche,significa,è vero,acquisire un livello d’istruzione elevato,ma le possibilità di trovare un lavoro appena adeguato sono pari a zero. L’importanza della scuola è sempre meno percepita e gli abbandoni sono lì a testimoniarlo. Penso che solo le istituzioni,con politiche coraggiose che ridiano centralità alla scuola,possono invertire questo stato di cose.
E.C. “glielo e gliela”
Molto bello, molto ben scritto come sempre. Io sono una privilegiata, figlia di genitori molto scolarizzati ma…. che per questo ritenevano loro dovera dare a chi non lo aveva non solo l’esempio di una assoluta probità, ma anche la possibilità e la necesità di acculturarsi. Ed in noi, figli, hanno trasmesso questa coscienza di debito verso la società, verso tutti gli altri di dare ciò che noi avevamo, senza nostri particolari meriti, rivevuto in più. Questo credo occorra fare e la cultura, la scuola è certamente la più grossa porzione del debito.
Il sapere dei diversi “sardi”
Anche io , come racconta Marcello Fois, sono cresciuto in una famiglia che voleva i figli “studiati”. Mio padre, operaio, con occhi densi di sudore, ci teneva a poter dire di avere un figlio “dottore”. Sarà per questo, probabilmente, che dopo la sua morte, avvenuta quando io avevo solo tre anni, che mia madre mi ha “ammaestrato” alla scuola. S’iscola, era per me un luogo bellissimo perché potevo incontrare altri bambini con i quali si continuava a giocare anche la sera, per strada, perché le automobili non avevano ancora acquistato tutti gli spazi. La mia scuola, a differenza di quella di Marcello Fois, era comodissima da raggiungere, praticamente davanti casa e il mio mondo era la tivù dei ragazzi ma, soprattutto, l’Odissea, lo sceneggiato originale, in bianco e nero, che veniva trasmessa la domenica dopo Carosello. Anche nel mio caso, nessuno mi aiutava a svolgere i compiti. Mia madre aveva frequentato le scuole elementari negli anni del fascismo ed era bravissima solo in matematica. Il mio esatto contrario. Avevo una nonna appena scolarizzata e un nonno analfabeta da parte di madre e una nonna analfabeta da parte di padre. Avere un “fizu duttore” rappresentava, per loro, il salto di qualità, il poter dire, a tutti, di essere entrato nella porta giusta della vita. Io amavo molto quel mondo colorato in maniera diversa. Perché, a differenza di Marcello Fois io non parlavo il sardo ma mi cospargevo di tanti “sardi” e di molte “sardità”. Mio padre gallurese e mia madre logudorese avevano deciso che i figli avrebbero parlato l’italiano. Erano gli anni sessanta, quelli della “modernidade” e parlare la lingua dello Stato rappresentava un primo passo verso l’emancipazione. Io sono cresciuto ascoltando i miei nonni che parlavano il logudorese con mamma. Mio nonno, inoltre, parente lontano del Cubeddu poeta, mi insegnava il sassarese e alcune poesie in logudorese. D’estate, invece, trascorrevo le vacanze negli stazzi galluresi e mia nonna paterna parlava solo quella lingua. Poi, rientravo ad Alghero dove, con gli amici parlavo il catalano. La mia adolescenza è stata costruita tra l’italiano, il logudorese, il gallurese e l’algherese. Ci ho scritto pure qualche poesia in sardo e in algherese. Continuavo a studiare in italiano e ho amato la Deledda, Satta, Dumas, Salgari. Ho letto molto in quegli anni e ho scoperto che la lingua era uno strumento per comprendere ma dovevi saperla dosare. Ho, nel mio personale cassetto di parole, locuzioni e modi di dire in diverse lingue e li uso “alla bisogna” o quando mi trovo nei contesti giusti. Perché la “visione del mondo” non è solo ed esclusivamente sapere le cose e saperle bene. La visione del mondo è comprendere i diversi mondi e i diversi modi di vivere e di vedere le cose. Io continuo, da “studiato” a leggere, ad avere un consistente patrimonio di libri, ad amare i racconti e i romanzi, ma capisco che tutto il nostro patrimonio genetico culturale è frutto di molte stratificazioni. Non basta la letteratura, serve anche l’antropologia. E’ vero, come sostiene Marcello Fois che siamo stati figli “di una generazione che aveva più paura dell’ignoranza che della scuola” ma è anche vero che siamo cresciuti con una moltitudine di colori e di suoni che oggi, nel mondo veloce di internet, non ci sono più. Mi fa paura quando sento qualcuno che vuole “obbligare”, per legge, l’insegnamento del sardo nelle scuole. E’ come un trapianto di un arto in un essere invertebrato. Non funziona. Dovremmo, se ancora ci riusciamo, provare a parlare, naturalmente, ai nostri nipoti l’italiano e il sardo. Non significa riportare al gregge il proprio cucciolo, ci mancherebbe. Significa, invece raccontare che esistono lingue e modi di dire a volte intraducibili e rappresentano la nostra identità. Non dobbiamo avere paura del nostro passato e non dobbiamo avere paura di poter costruire un futuro con le vecchie parole dei nonni. Che sono modi di dire e modi di vivere. Io penso e scrivo in italiano. Ma quando sorrido, mi indigno, o scruto l’orizzonte lo faccio in sardo. Con quale sardo dipende dall’orizzonte che ho davanti. E mi piace, naufragare in questi “sardi”.