I colori di Michela Murgia [di Giampaolo Cassitta]
La scena è scarna per scelta. Lo dice Rita Marras nel camminare solitaria sul palco del teatro Verdi, a Sassari, mentre invita i candidati che in meno di un minuto devono raccontarsi. C’è chi, come Riccardo Anedda vuole raggiungere qualcosa di bello, Laura Fois, 27 anni è stata per sei anni all’estero ed è rientrata per poter fare buona politica, chi si è candidato per non dover dire ai propri figli di emigrare, chi era nauseato dalla politica e si è ammalato di possibilite acuta; c’è Gavino Balata, di Alghero, si occupa a Bruxelles di fondi europei, l’archeologo Madau vuole mettere al centro del cambiamento il paesaggio, poi ci sono quelli che vogliono riprendersi la terra, i pacifisti, i difensori accaniti della scuola pubblica, Sari, la senegalese cittadina italiana dal 1996, lei vuole poter dare una politica migliore alla Sardegna, alcuni sono stanchi di essere considerati cittadini passivi e ci si candida, come scandisce Marilena Budroni, perché “me lo merito” perché tutti abbiamo il diritto di poter dire che un’altra Sardegna è possibile. Visti dalla platea, quasi gremita – ed è un successo, rispetto alla platea gremitissima di Pigliaru, ma con ben altra forza di base – sembrano essere personaggi in cerca d’autore, giunchi apparentemente leggeri in una giornata di maestrale, sembrano una squadra e, probabilmente lo sono. L’attesa è tutta per Michela Murgia. Non ci sono ulteriori passaggi. Lo scarno palco la accoglie e lei è subito al centro. La differenza sostanziale tra Francesco Pigliaru e Michela sono le parole. Pigliaru è il docente paziente che spiega con una certa calma e con un piglio a volte troppo “montiano”; Michela è la maestra chiara e risoluta, forse pragmatica, che conosce il peso delle cose e sa riconoscere l’anima della platea. Almeno, questo si respira dalla parte del pubblico dove non ci sono volti troppi conosciuti. Dice di sentirsi a disagio sul palco, lo dice per raccontare la metafora della strada, della politica fatta dal basso, è da luglio che girano la Sardegna non per cercare i voti, ma per cercare i sardi e si sono imbattuti in alcune persone che costruivano, tentavano almeno di costruire qualcosa nel deserto delle opportunità. Michela regala visioni e le materializza. Dice che non ci sono più spazi pubblici nei nostri paesi e nelle nostre città. Ed è vero. Nei bar si va a giocare alle slot-machine e le piazze sono state divorate dalle rotonde, dalla velocità. Più che gli spazi, penso ascoltando, manca l’amore per le pause, per la lentezza, per restare assorti a godere semplicemente del nostro mare, del nostro vento e del sole. Poi, continuando a disegnare immagini, in questa sua tela apparentemente semplice come i disegni di Mirò e con i tratti soffici di Renoir, racconta che la Sardegna è diventata un arcipelago di solitudini non comunicanti, un mazzo di solitudini, piccole isole abbandonate. Occorre cercare soluzioni e non colpevoli, dice Michela e lo dice veloce, con fermezza e con vigore. Occorrono le proposte politiche, ci vuole un programma. Quello di Sardegna possibile è un concerto di ascolto, un pentagramma dove le note sono il risultato di una canzone ascoltata nei mesi, dai pastori ai docenti, agli uomini di cultura, ai medici, gente che è passata negli OST e ha dato un apporto specifico. Ha parlato di riprogettazione strutturale e, in questo caso, il disegno ha vagato troppo su un Picasso cubista piuttosto incomprensibile; di combattere lo spopolamento del territorio lasciando le scuole, gli ospedali, anche nei piccoli centri. Si ha assoluto bisogno di un piano di trasporti che inserisca nella continuità territoriale anche l’interno. La Sardegna, grazie a Cappellacci si è periferizzata. Ha parlato della vertenza delle entrate e ha velatamente accusato il centro sinistra di non aver insistito, di aver trattato troppo e per troppo tempo con il governo italiano. Ha parlato di piano energetico, la Sardegna produce più energia di quella che ci serve ma non sappiamo venderla. Ha parlato di industria generativa e degenerativa, ha detto che non devono uscire blocchi di granito ma piastrelle, non quintali di sabbia ma bottiglie di vetro e questa è stata un’immagine molto comprensibile, molto chiara, molto metaforica, molto calda, come un quadro di Guttuso. Ha continuato a raccontare la sua campagna elettorale, il suo dover parlare nei bar del Sulcis, perché nei teatri gli operai incazzati da quelle parti non ci vanno. A Teulada si sono presentati e hanno restituito a lei, come politica, 1200 tessere. Perché di votare non ne hanno intenzione. Magari sperano in un sussidio che qualcuno andrà a promettergli, ma nessuno è in grado di raccontare la verità a quel territorio martoriato e offeso, violentato, nessuno avrà il coraggio di raccontare a quegli operai che si potrà anche togliere il chiodo dal buco ma il buco difficilmente si riuscirà a riparare. Tinte fosche, scure, come i dipinti di El Goya. Ha concluso proponendo micro-modelli da analizzare, progetti triennali e non grandi piani di rinascita, costosi e fortemente inutili. E’ solo passata con una certa leggerezza davanti alle affermazioni di Cappellacci sul presunto finanziamento di Onorato. “Magari fosse”, ha detto sorridendo. Poi ha atteso le domande di una platea curiosa. Qualcuno ha anche pensato che Michela Murgia potesse essere la candidata giusta per il centro-sinistra. In fondo da quella strada proviene. Poteva fare le primarie ed oggi ci sarebbe lei al posto di Pigliaru. “Me lo avevano proposto”, ha detto “meno male che non le ho fatte, per come sono andate a finire”. Le presentazioni non sono mai il manifesto chiaro e completo di ciò che si dovrà fare. Sono quadri, semplici schizzi giocati sull’impressione e sull’impatto emotivo. Michela Murgia ha saputo, in meno di trenta minuti, abbozzare un disegno, mettere insieme alcuni colori, mischiarne certi lasciandone alcuni solitari e forti. Ha dimostrato di conoscere l’arte del dipingere e quella del narrare. Il quadro è appena abbozzato e i capolavori hanno bisogno di tempo e di tecnica. E di gente che poi, quei capolavori li apprezzi e li osservi con la giusta lentezza, quella che si regala alle cose fatte bene e con passione. |
Grazie. Io non c’ero, ma se ci fossi stato non avrei visto da questa prospettiva. La buona politica può essere generatrice di visioni oltre l’ordinario.
Affascinato dalla:’riprogettazione culturale’. Ma va!? È questa sarebbe la tela percorsa da toni di Renoir e di Miro’?