Il sapere dei diversi “sardi” [di Giampaolo Cassitta]

radici

Anche io , come racconta Marcello Fois, sono cresciuto in una famiglia che voleva i figli “studiati”. Mio padre, operaio, con occhi densi di sudore, ci teneva a poter dire di avere un figlio “dottore”. Sarà per questo, probabilmente, che dopo la sua morte, avvenuta quando io avevo solo tre anni, che mia madre mi ha “ammaestrato” alla scuola. S’iscola, era per me un luogo bellissimo perché potevo incontrare altri bambini con i quali si continuava a giocare anche la sera, per strada, perché le automobili non avevano ancora acquistato tutti gli spazi. La mia scuola, a differenza di quella di Marcello Fois, era comodissima da raggiungere, praticamente davanti casa e il mio mondo era la tivù dei ragazzi ma, soprattutto, l’Odissea, lo sceneggiato originale, in bianco e nero, che veniva trasmessa la domenica dopo Carosello.

Anche nel mio caso, nessuno mi aiutava a svolgere i compiti. Mia madre aveva frequentato le scuole elementari negli anni del fascismo ed era bravissima solo in matematica. Il mio esatto contrario. Avevo una nonna appena scolarizzata e un nonno analfabeta da parte di madre e una nonna analfabeta da parte di padre. Avere un “fizu duttore” rappresentava, per loro, il salto di qualità, il poter dire, a tutti, di essere entrato nella porta giusta della vita. Io amavo molto quel mondo colorato in maniera diversa. Perché, a differenza di Marcello Fois io non parlavo il sardo ma mi cospargevo di tanti “sardi” e di molte “sardità”. Mio padre gallurese e mia madre logudorese avevano deciso che i figli avrebbero parlato l’italiano.

Erano gli anni sessanta, quelli della “modernidade” e parlare la lingua dello Stato rappresentava un primo passo verso l’emancipazione. Io sono cresciuto ascoltando i miei nonni che parlavano il logudorese con mamma. Mio nonno, inoltre, parente lontano del Cubeddu poeta, mi insegnava il sassarese e alcune poesie in logudorese. D’estate, invece, trascorrevo le vacanze negli stazzi galluresi e mia nonna paterna parlava solo quella lingua. Poi, rientravo ad Alghero dove, con gli amici parlavo il catalano. La mia adolescenza è stata costruita tra l’italiano, il logudorese, il gallurese e l’algherese. Ci ho scritto pure qualche poesia in sardo e in algherese. Continuavo a studiare in italiano e ho amato la Deledda, Satta, Dumas, Salgari. Ho letto molto in quegli anni e ho scoperto che la lingua era uno strumento per comprendere ma dovevi saperla dosare. Ho, nel mio personale cassetto di parole, locuzioni e modi di dire in diverse lingue e li uso “alla bisogna” o quando mi trovo nei contesti giusti. Perché la “visione del mondo” non è solo ed esclusivamente sapere le cose e saperle bene.

La visione del mondo è comprendere i diversi mondi e i diversi modi di vivere e di vedere le cose. Io continuo, da “studiato” a leggere, ad avere un consistente patrimonio di libri, ad amare i racconti e i romanzi, ma capisco che tutto il nostro patrimonio genetico culturale è frutto di molte stratificazioni. Non basta la letteratura, serve anche l’antropologia. E’ vero, come sostiene Marcello Fois che siamo stati figli “di una generazione che aveva più paura dell’ignoranza che della scuola” ma è anche vero che siamo cresciuti con una moltitudine di colori e di suoni che oggi, nel mondo veloce di internet, non ci sono più. Mi fa paura quando sento qualcuno che vuole “obbligare”, per legge, l’insegnamento del sardo nelle scuole. E’ come un trapianto di un arto in un essere invertebrato. Non funziona.

Dovremmo, se ancora ci riusciamo, provare a parlare, naturalmente, ai nostri nipoti l’italiano e il sardo. Non significa riportare al gregge il proprio cucciolo, ci mancherebbe. Significa, invece raccontare che esistono lingue e modi di dire a volte intraducibili e rappresentano la nostra identità. Non dobbiamo avere paura del nostro passato e non dobbiamo avere paura di poter costruire un futuro con le vecchie parole dei nonni. Che sono modi di dire e modi di vivere. Io penso e scrivo in italiano. Ma quando sorrido, mi indigno, o scruto l’orizzonte lo faccio in sardo. Con quale sardo dipende dall’orizzonte che ho davanti. E mi piace, naufragare in questi “sardi”.

2 Comments

  1. Angelo

    Giampaolo Cassitta evidentemente considera l’apprendimento di una lingua aggiuntiva un atto assolutamente inutile, forse addirittura dannoso (“E’ come un trapianto di un arto in un essere invertebrato. Non funziona.”).
    Dannoso, aggiungo io, perché nella letteratura scientifica sono documentati i casi di trapiantati che hanno rifiutato il dono non riconoscendolo come parte integrante della propria persona.
    Sarei curioso di sapere cosa pensa Giampaolo Cassitta dell’insegniamento della lingua inglese ai non anglofoni (giusto per citare un’altra lingua tra le tante che solitamente i sardi non parlano dalla nascita).
    Ha forse paura anche dell’insegnamento dell’inglese nelle scuole e di coloro che l’hanno introdotto? Vorrebbe abolirlo?
    Le uniche due risposte che potrebbe dare per sostenere con la logica la sua affermazione (attenzione, non per darle valore, perché è e resta una colossale cantonata) sarebbero A: il sardo non è una lingua, oppure B: il sardo non serve a niente.

  2. cristina puecher

    Caro Giampaolo, con questo mi hai davvero conquistata! Nonostante siamo cresciuti in “mondi” diversi, pur se nello stesso periodo storico, non immagini quante cose in comune abbiamo. L’amore per la scuola, per il “conoscere” in genere, lo scambio culturale e non con gli amici e poi quello scoprire e riscoprire una lingua o un dialetto che esprimono spesso molto meglio il concetto. mi sono innamorata della Sardegna leggendo la Deledda e sono arrivata nell’isola molti anni dopo. adoro sentir parlare “in limba” e all’inizio sono riuscita a cominciare a capirla grazie alle poche nozioni di latino che ricordavo.
    Amo quest’isola. Me la sento cucita addosso e anche se ho altrove le mie radici biologiche e molti affetti non riesco a pensare di andare via. condivido che naufragare in questi “sardi” è semplicemente meraviglioso!! GRAZIE!!

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