“Roma, triste e tragica nel suo abbandono e nella sua incuria”: la Capitale vista da Kureishi [di Hanif Kureishi]

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L’Espresso.it 4 aprile 2018. “Non vorrei mai che i miei figli cercassero di sopravvivere in un luogo simile”. Il grande scrittore parla di bellezza, decadenza e integrazione Hanif Kureishi Pochi mesi fa, al calar del giorno, decisi di uscire a cena con la mia fidanzata italiana. Arrivati in macchina a Trastevere, passeggiammo fino a quando non ci sentimmo stanchi e poi trovammo un posto dove mangiare.

Era una splendida serata. Non notai nulla di strano quando ci sedemmo ai tavolini all’aperto di un ristorante che prometteva bene e ordinammo del vino. Le strade erano affollate, gli scorci incantevoli, con gronde e madonne su ogni muro, e nonostante le mie lamentele sulla monotonia dei menu italiani, non vedevo l’ora di mangiare.

Mentre aspettavamo mi dissi: non guardare il tuo telefonino, guarda il mondo che ti sta intorno. Osserva le persone e fai attenzione a quel che vedi. Mi ritrovai così a rispondere a una domanda che si affacciava in modo persistente. Dov’erano gli altri? Sì, proprio così: dov’erano tutti gli altri?

Ovunque volgessi lo sguardo vedevo solo volti bianchi: turisti, passanti, camerieri, commensali. A un certo punto un povero bengalese mi avvicinò con una rosa. Avrei voluto chiedergli cosa stesse facendo e come se la cavava in mezzo a tanta bellezza e fra tutta questa gente bianca. Ma lui continuò a mendicare e a sorridere e presto si dileguò. Quando guardai di nuovo in strada vidi che ciò che avevo notato non era impreciso. Tutti erano dello stesso colore: bianchi.

Per un momento ebbi uno strano pensiero su questa inspiegabile situazione o sensazione di vuoto. Cosa sarebbe accaduto se si fosse verificato un bizzarro evento fantascientifico in seguito al quale, come in un film, tutta la gente di colore della città fosse stata teletrasportata in un’altra epoca o in un’altra galassia? Forse sarebbero ritornati presto, mescolandosi con i bianchi, e il mondo sarebbe tornato alla normalità: una miscela di razze e di popoli, che si mescolavano insieme.

Ma forse non sarebbero stati rimandati indietro. In effetti, sapevo che era molto probabile che non sarebbero tornati soprattutto perché non erano mai stati presenti. E sapevo anche che avrei dovuto abituarmi da tempo a questa strana situazione in cui ti senti una persona distinta. Sono cresciuto, dopo tutto, in un sobborgo bianco e ho studiato in una scuola frequentata da bianchi. I libri che ho letto erano di autori bianchi; tutti i politici e tutti quelli che apparivano in televisione erano bianchi. Più tardi, all’università e quando lavoravo in teatro, era lo stesso.

Alla fine della bella serata, mi venne in mente un’eccezione. Mi ricordai di aver letto, da adolescente, un ottimo saggio di James Baldwin, “Equal in Paris”, pubblicato nel 1955 in “Notes of a Native Son”. Allora quel testo mi aveva spaventato come un incubo perché l’autore raccontava che era stato arrestato e schiaffato in prigione per otto giorni dopo esser stato trovato in possesso di un lenzuolo consegnatogli da un amico che lo aveva rubato da uno squallido hotel della “rive gauche”. Baldwin sapeva che a Parigi un uomo di colore sarebbe stato sempre considerato con sospetto, e spiegava come i fantasmi di “antiche glorie” possano creare paranoia nella popolazione originaria, la cui cultura rende le persone ottuse, presuntuose e introverse, preoccupate soltanto di mantenere la loro posizione.

Da allora, lasciare Londra per Parigi, Milano, Stavanger o altri luoghi, mi ha sempre reso nervoso, non solo perché ti senti un anonimo, ma perché le persone hanno idee sulla gente di colore che non hanno sui bianchi, e queste idee possono metterti nei guai, come può confermare qualsiasi musulmano che sia passato attraverso un aeroporto. I bianchi non capiscono quanto possiamo diventare nervosi; non riescono a capire il motivo della paranoia, che considerano un’esagerazione.

Ma la prima cosa che si nota di qualcuno è se è un uomo o una donna, e di che colore è, e su questo si crea una mitologia ben di rado favorevole a una persona di colore. Quindi la domanda per noi è: chi siamo noi oggi in un’Europa sempre più pericolosa? E che ne sarà di noi?

Amo Roma più di qualsiasi altra città perché è la più malinconica di tutte le grandi metropoli europee, triste e quasi tragica nel suo abbandono e nella sua incuria. Penso a vecchie donne ricurve in nero e a vecchi intellettuali in giacca e cravatta, fuori tempo e luogo, che parlano solo a se stessi, come i personaggi di una commedia di Čechov.

Una città ricoperta di graffiti, trascurata, che sembra cadere a pezzi e mi ricorda la Londra libera e anarchica degli anni ’70, o un luogo in cui c’è stata una grande festa e la bella gente che vi ha preso parte è tornata a casa senza che nessuno si sia preoccupato di rimettere tutto in ordine.

Amo il romanticismo di Roma, ma compatisco i giovani nella loro disperazione. Non vorrei mai che i miei figli cercassero di sopravvivere in un luogo simile, anche se mi chiedo perché la zona della West London dove vivo diventa sempre più italiana, e si sentono sempre più voci italiane nelle strade. A cosa stanno rinunciando le persone per avere quel che non possono ottenere in casa propria?

Un’atmosfera di abbandono può essere seducente per un visitatore, ma non tutto ciò che è vecchio è bello. E la disperazione che accompagna la decadenza rende le persone crudeli e pronte ad accusare gli altri per le loro disgrazie. E non si tratta soltanto dello straniero che non è integrato, ma anche della gente del luogo che si sente sempre più spaesata e senza futuro.

Le recenti serie televisive italiane, come “Gomorra” e “Suburra”, di cui sono un fan, sono storie fantasiose e un po’ esagerate destinate a un mercato straniero. Ma come ben sappiamo la finzione assume il volto della verità. E l’atmosfera soffocante, incestuosa, xenofoba di questi spettacoli – popolati da personaggi che finiscono col distruggere le loro stesse comunità di appartenenza, e alla fine anche loro stessi, perché non c’è luce né aria, e tutti sono stufi gli uni degli altri – potrebbe fornirci una lezione sulle capacità di reazione che dovremmo sviluppare.

Guardando la città e chiedendoci come è destinata ad evolvere – e quanto timorosi possiamo diventare, a seconda del ruolo che ci viene assegnato – non si può fare a meno di pensare che la civiltà non può essere consegnata al passato. Al contrario, va mantenuta e ricreata ogni giorno in ogni atto di scambio, di benvenuto e di riconoscimento.

Copyright © 2018 by Hanif Kureishi (Traduzione di Mario Baccianini). Romanziere, drammaturgo, sceneggiatore, Hanif Kureishi è nato a Londra da padre pakistano e madre inglese. I suoi libri sono pubblicati in Italia da Bompiani

 

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