La sinistra ora è in prestito ai Cinque Stelle [di S. Borghese, V. Fabbrini, L. Newman]
L’Espresso18 aprile 2018. Dalle battaglie sociali alla partecipazione. Il Movimento Cinque Stelle, con tutti i suoi difetti e le sue contraddizioni interne, si è impadronito di un’eredità. Per adesso o per sempre? Essere di sinistra può assumere tante connotazioni: estetiche, industriali, clientelari, campanilistiche, e dipolicy. In modi diversi sono identificabili come di sinistra le scarpe Camper, le cooperative, il sistema di relazioni che girava attorno alla Monte dei Paschi di Siena, il Livorno calcio e la legge Cirinnà. Nozioni di cosa è non è di sinistra possono però cambiare con il tempo. Che Guevara è un’icona della sinistra, ma è riverito anche da Casa Pound. Fondamentalmente, però, essere di sinistra vuol dire credere in un ideale di giustizia sociale in favore dei meno abbienti. Quest’accezione moderna di sinistra nasce nell’immediato post rivoluzione francese quando, durante l’assemblea degli Stati Generali, le forze rivoluzionarie occuparono la parte sinistra dell’emiciclo. Nel solco di questa tradizione, secondo il filosofo italiano Norberto Bobbio, chi è di sinistra vede l’eguaglianza come il valore più importante. Il mezzo attraverso il quale si persegue l’ideale egualitario cambia però a seconda delle dottrine politico-economiche. Il socialismo offre il mezzo della collettivizzazione. Si tratta di una dottrina che è stata a lungo dominante e spesso identificata tout court con l’ideale di sinistra, ma non è l’unica. Il keynesismo, ad esempio, rientra nel paradigma economico capitalista, ma è generalmente considerato di sinistra perché prevede un sostegno alla domanda interna durante i cicli economici recessivi. A prescindere da dottrine economiche, marche di calzatura e sistemi di potere, l’essere di sinistra significa senz’altro avere a cuore le condizioni di vita di chi sta peggio. È innanzitutto un’attitudine, qualcosa che si fa tutti i giorni, prima ancora di declinarsi in una posizione politica. Dopo Tangentopoli e la caduta del muro di Berlino, si è presentata in Italia una classe dirigente nuova, che in tante aree non è mai cambiata. Sono gli anni in cui a destra emergono i berlusconiani e a sinistra i dalemiani e i veltroniani – forze sociali che hanno visto il loro tramonto solo con il risultato delle politiche del 2018. I dati elettorali più sofisticati, disponibili dalle politiche del 2008 in poi, dimostrano come quello che era il bacino elettorale di riferimento della sinistra ha visto cambiare radicalmente le proprie condizioni e prospettive socio economiche in questi anni. Quella classe operaia che aveva sempre votato a sinistra si è progressivamente impoverita, invecchiata o precarizzata. Anche la classe media ha visto ridursi drasticamente il proprio reddito pro-capite, in maniera talvolta vertiginosa. Continuano a votare a sinistra soprattutto coloro che continuano a sentirsi rappresentati da una leadership anziana che focalizza la propria offerta politica su tematiche tradizionalmente affini ai più anziani e chi da loro dipende: immigrazione, rigore fiscale, pensioni, tutti temi tradizionalmente di destra. I dati più recenti evidenziano proprio come il bacino elettorale di riferimento sia cambiato, diventando anziano e arroccandosi nei centri borghesi delle grandi città. Già nel 2013 infatti il voto al PD era stato quasi direttamente proporzionale all’età, restando sotto il 20 per cento tra chi aveva meno di 40 anni e salendo al 37 per cento tra gli over 65 (dati ITANES); una dinamica che si è ripetuta anche nel 2018, quando il PD ha ottenuto più del 20 per cento solo tra chi ha più di 55 anni, e il 28 tra gli ultra 65enni, secondo i dati del sondaggio Quorum/YouTrend per Sky Tg24. Lo stesso istituto ha calcolato come il PD abbia fatto registrare la migliore tenuta, in un contesto di arretramento generale, proprio nei grandi centri urbani con più di 300 mila abitanti, mantenendo il 70% dei propri elettori 2013, a fronte di una tenuta del 65-66 per cento nei comuni inferiori; ancora più indicativo il dato in voti assoluti, dove si nota che il PD (e il centrosinistra “tradizionale” nel suo complesso) va meglio solo nei comuni di maggiori dimensioni, superando il 20 per cento (e il 30 per cento considerando tutta l’area progressista) soltanto nelle città con più di 100 mila abitanti. Il consenso trasversale nelle regioni rosse (che lo sono sempre meno) ha resistito fintanto che c’è stato un ricambio della classe dirigente locale, capace di una buona gestione economica a favore della propria la base, portando avanti un’agenda progressista, egualitaria. Le elezioni del 4 marzo hanno visto crollare questa certezza: per la prima volta dal 1946, in Emilia-Romagna la sinistra non è stata la prima forza politica. Qui, come altrove in Italia, Il grosso del bacino elettorale ha sofferto tutte le conseguenze del declino macroeconomico, senza paragoni nel mondo occidentale, patito dall’Italia dal 2000 in poi. I pochi investimenti e la mala-gestione della globalizzazione hanno decimato gli ecosistemi produttivi da cui dipendeva l’impiego degli elettori di sinistra. L’establishment di sinistra, come quello di destra, non ha saputo rispondere a questa sfida, se non a livello pratico sicuramentenon a livello di retorica, cultura e capacità di ascolto. Il bacino elettorale di riferimento ha quindi buone ragioni per aver perso fiducia, ed è tra questi delusi che i Cinque Stelle hanno trovato la loro più importante fonte di consenso. Gli studi sui flussi elettorali confermano che sia nel 2013 che nel 2018 una parte consistente dell’elettorato del M5S aveva votato, in precedenza, per uno dei partiti progressisti “tradizionali”: PD, IDV o sinistra. Nel 2013 tale quota era pari al 42% dell’elettorato complessivo dei Cinque Stelle (dati ITANES), mentre la principale destinazione – ad eccezione dell’astensione – degli elettori che sia nel 2013 che nel 2014 avevano votato il PD (quindi, guidato sia da Bersani che da Renzi) è stata, nel 2018, il Movimento (secondo il sondaggio Quorum/YouTrend per Sky TG24). L’elettorato di riferimento della sinistra sembra aver trovato nel Movimento qualcosa che il suo establishment di riferimento ha perso. Si può capire cosa esattamente analizzando le battaglie identitarie del Movimento. Analizzando i media, queste sono principalmente il richiamo all’onestà e il sostegno ai poveri. L’onestà è predicata attraverso la battaglia sui vitalizi, il giustizialismo sommario verso i politici indagati e una retorica distruttiva nei confronti di qualsiasi autorità sospettata di corruzione. Il reddito di cittadinanza – una proposta, per quanto fiscalmente discutibile , di normale social welfare – è invece l’espressione più concreta della battaglia contro la povertà. Anche la lotta all’immigrazione, perlomeno a livello di cornice ideologica, gioca un ruolo. La battaglia contro il disagio sociale è al centro della cultura dei Cinque Stelle, che hanno nella restituzione della voce alle persone comuni uno dei loro valori fondanti. I sondaggi confermano che le battaglie a cui gli elettori Cinque Stelle tengono maggiormente sono proprio queste. Sono temi che hanno una presa naturale su chi ha un profilo sociodemografico più giovane, tendenzialmente disagiato o comunque caratterizzato dall’aver subito le conseguenze della stagnazione economica che dura dal 2000. Il rapporto di fiducia tra l’elettorato dei Cinque Stelle e il suo nascente establishment passa per questa condivisione di obbiettivi. È importante anche precisare che l’opposizione ai vaccini, il razzismo becero, l’anti-intellettualismo sono posizioni minoritarie tra i seguaci del Movimento. La vera proposta del Movimento però non risiede nei suoi contenuti ma nei processi rappresentativi. I Cinque Stelle teorizzano infatti la nascita di una democrazia digitale diretta, in cui internet consente la formazione di un consenso su posizioni trasversali. Le primarie digitali, battezzate parlamentarie, e i referendum online su decisioni cruciali del Movimento, per quanto amatoriali o manipolative nella loro esecuzione, sono prassi fondanti. Consentono all’ex-elettore di sinistra di sentirsi nuovamente ascoltato da un establishment. Poche settimane fa, Luigi Di Maio è stato deriso dal New York Times per aver lasciato la casa dei genitori solo cinque anni prima. Le statistiche dimostrano che la vicenda personale di Di Maio, e di tanti altri quadri del Movimento, è simile a quella di molti dei loro elettori. L’inesperienza professionale e il disagio vissuti da Di Maio, Fico e altri sono asset politici. Riassumendo, il nascente establishment del Movimento è uno in cui un elettorato mediamente giovane, che normalmente tenderebbe a sinistra, si riconosce. I processi partecipativi proposti dal Movimento sono, almeno filosoficamente, di sinistra. Le loro battaglie identitarie – onestà e sostegno ai poveri – sono di sinistra. Il bacino elettorale della sinistra – inteso sia come vecchi elettori che come profilo socio-demografico degli elettori del 2008 – è in buona parte defluito ai Cinque Stelle. Se la sinistra istituzionale paga l’aver tentato a lungo di offrire soluzioni al malcontento senza doverlo ascoltare e rappresentare, il Movimento, al contrario, nei suoi primi nove anni ha potuto sia ascoltare che rappresentare il malcontento egregiamente. Il Movimento Cinque Stelle è, con tutti i suoi difetti e con tutte le sue contraddizioni interne, il nuovo partito di sinistra italiano. Le battaglie politiche dei Cinque Stelle sono le stesse che l’establishment e i partiti di sinistra hanno smesso di fare, almeno a livello comunicativo. Se i governi di sinistra hanno attuato misure di contrasto al disagio sociale come il reddito d’inclusione, raramente questa questione è stata al centro della loro retorica. La lotta alla corruzione e alle clientele, elementi centrali nell’identità dei Cinque Stelle, è avvenuta concretamente attraverso provvedimenti del PD quali l’istituzione dell’ANAC e il nuovo codice degli appalti. Eppure non sono diventati elementi identitari dei partiti di sinistra. In tempi più recenti, scandali minori come quello di Banca Etruria sono stati gestiti male sul piano comunicativo, accrescendo l’impressione che l’establishment di sinistra sia un sistema di potere più che l’espressione di un consenso politico. Tutto ciò è vero non solo a livello partitico ma di classe dirigente in senso lato e di cultura politica. Al calo continuo del numero degli iscritti dei partiti di sinistra negli ultimi 25 anni si è accompagnato il declino delle cooperative, dei centri sociali e delle banche e aziende con consigli direttivi espressi dai partiti di sinistra. La cultura di sinistra si è evoluta di pari passo. Nella percezione mediatica, i suoi simboli odierni sono diventati confusi e autoreferenziali: il cashmere, i film in lingua originale, Capalbio. Si tratta di ossessioni da élite che non verrebbero così derise se la sinistra istituzionale avesse mantenuto una capacità di ascolto e rappresentanza propria delle élite politiche in una democrazia rappresentativa, come insegna Bernard Manin. Più che il fallimento di un leader, Renzi o D’Alema o Bersani, è un fallimento di leadership. Renzi è solo l’espressione finale di un declino pluridecennale. Il suo tentativo di eversione è stato l’ultimo respiro dell’ultima classe dirigente giovane dell’ultima regione rossa. Questo scollamento dalla base è stato così lento da essere ignorabile dall’establishment di sinistra. Fino al risultato del 4 marzo. Storicamente, nel mondo occidentale, l’asse sinistra-destra non scompare. Cambiano semplicemente i partiti e le loro identità. E le ragioni per cui i partiti cambiano ideologia sono spesso legate alle loro strutture di potere. In America, fino agli anni ’50, il partito Repubblicano era la forza progressista e il partito Democratico quella conservatrice. In passato questo bipolarismo è stato interpretato dai Whigs, i Federalisti e altri. Nel Regno Unito vi è stato un percorso simile. Gli odierni partiti progressisti del Regno Unito e degli USA nascono da frange insoddisfatte dei partiti progressistiche c’erano prima. In Italia molti attribuiscono l’emergere del proto-fascismo di ispirazione socialista alla perdita di contatto con la base della Sinistra Storica e alla frustrazione del primo Mussolini con l’establishment socialista. Similmente, spesso i quadri grillini sono persone che hanno rinunciato a permeare l’establishment, spesso quello di destra, ma più spesso quello di sinistra. Se Di Maio e Di Battista hanno vissuto le delusioni dei padri, dirigenti locali delle destre sociali, Virginia Raggi e Roberto Fico sono dei delusi dalla leadership di sinistra. Da ragazzo, anche lo stesso Di Battista si è definito di sinistra. La rosa di ministri proposta per il governo dai Cinque Stelle è composta da persone relativamente giovani, relativamente di sinistra, rimaste però ai margini dell’establishment progressista. Questo è l’altro specchio della medaglia degli elettori grillini, che sono appunto più spesso vecchi elettori delusi della sinistra che della destra. I tanti delusi tra le aspiranti classi dirigenti del post‘92, soprattutto ma non solo di sinistra, stanno formando un nuovo establishment che, per quanto possa essere poco qualificato, sta sostituendo quello precedente. È verosimile che delle componenti dell’attuale o aspirante classe dirigente di sinistra si lascino cooptare dai Cinque Stelle pur di sopravvivere o avere la propria occasione di ribalta. In alcune frange della società civile, questo sta già avvenendo. La destra in Italia non è cambiata in questi anni, rimanendo sostanzialmente reazionaria, nonostante la tentata evoluzione berlusconiana. Per l’elevata età anagrafica della sua leadership, e a causa della centralità di Silvio Berlusconi, Forza Italia e la rete di relazioni che la circonda sono irriformabili. L’ha scoperto Gianfranco Fini proprio come lo sta scoprendo Matteo Renzi con il PD. Molti vedono però nell’avventura di Matteo Salvini un altro percorso: un tentativo di superare Forza Italia sostituendola, piuttosto che cambiandola dall’interno. I quadri della Lega salviniana sono infatti più giovani dei berlusconiani, ma molti sufficientemente moderati da essere ideologicamente ascrivibili a Forza Italia se volessero. Queste nuove destra e sinistra sono protagoniste di un nuovo bipolarismo geografico. Un Settentrione che esce dalla crisi, più che schierarsi contro l’Europa o la migrazione, ha semplicemente votato un partito che propone una misura pro-crescita: la flat tax, ovvero un’aliquota IRPEF unica. Si tratterebbe di una riforma, per quanto utopica nell’attuale contesto fiscale italiano, essenzialmente di destra. Il Meridione, che non ha visto la ripresa economica, ha sostenuto con maggioranze schiaccianti un partito, il Movimento Cinque Stelle, che propone una misura assistenzialista altrettanto inverosimile, ma fondamentalmente di sinistra. L’emergere della Lega e dei Cinque Stelle tra le principali forze politiche ha più a che vedere con un ricambio di establishment che con un superamento ideologico. Con la fine della cortina di ferro, si afferma il Washington Consensus. È la convinzione, nel seno della sinistra istituzionale americana, che le soluzioni economiche tipicamente liberali – globalizzazione, competizione – rappresentino l’unica ricetta credibile per la crescita macroeconomica. La sempre minor attenzione all’egualitarismo che vediamo oggi nella sinistra italiana nasce qui, traducendosi per la prima volta in politiche pubbliche con la Terza Via di Bill Clinton. Il primo ad adottare la Terza Via in Europa è Tony Blair, seguito via via da altri colleghi europei. Il principale punto di riferimento estero di Renzi, sia dal punto di vista ideologico che per come ha riformato il proprio partito, è proprio Tony Blair. E fino al duplice trauma dell’elezione di Trump e la Brexit, molte sinistre occidentali hanno più o meno continuato su questa scia. Oggi, non avendo saputo tradurre la Terza Via in una dottrina egualitaria e credibile per le proprie basi, i partiti di sinistra tornano alle loro origini, come Corbyn nel Regno Unito e Sanders negli USA, oppure rischiano di scomparire a causa della concorrenza di un’offerta politica più innovativa, come è avvenuto con i socialisti in Francia o il PASOK in Grecia. La sinistra istituzionale italiana dovrebbe cambiare radicalmente visione politica per trovare o ritrovare una base. Potrebbe farlo in direzione centrista oppure tornando a valori di sinistra tradizionale. In entrambi i casi, l’establishment di sinistra e l’elettorato che gli è rimasto fedele dovranno partire dal riconoscimento che il Movimento Cinque Stelle si è impadronito delle loro battaglie storiche. I meme sul reddito di cittadinanza, condivisissimi nei giorni del post-voto, suggerirebbero che questo non stia avvenendo. Un cambio di paradigma potrebbe arrivare da un cambio di leadership in seno ai partiti. Molti sperano che un NicolaZingaretti o un Carlo Calenda abbiano il carisma per dare una nuova identità politica alla sinistra. Ma il problema è di classe dirigente e non solo quella dei partiti. Un cambio di visione difficilmente può essere imposto univocamente dall’alto come ha provato a fare, nel bene e nel male, Renzi. Strutturalmente e storicamente, infatti, è molto raro che un establishment sostanzialmente anziano e diffuso viva grandi cambi di rotta. Non a caso Potere al Popolo, ovvero la parte della sinistra radicale che più aveva avvertito la distanza tra sinistra istituzionale ed elettorato, ha una leadership e unabase giovane. Se altri giovani dirigenti che si identificano nella sinistra percepiscono di avere maggiori chance di emergere altrove, appunto tra i Cinque Stelle, è giusto essere scettici chela sinistra istituzionale per come la conosciamo possa sopravvivere a questa legislatura. Il 18,7% registrato dal PD il 4 marzo potrebbe essere stata un’ultima resistenza. La sinistra è viva, ma non lotta insieme a noi. ************** Gli autori * Salvatore Borghese è caporedattore di Youtrended è stato tra i fondatori di Quorum, un istituto di ricerca demoscopica. I suoi pezzi di analisi elettorale sono apparsi su Slate, Il Fatto Quotidiano, Il Mattino, La Stampa, e altri. Commenta spesso gli ultimi sondaggi su Rai 3 e La7 Valeria Fabbrini è una ricercatrice economica specializzata nel monitoraggio e valutazione degli investimenti e della spesa pubblica. Su questi temi ha collaborato per sei anni la Presidenza del Consiglio dei Ministri e pubblicato numerosi articoli, saggi e una monografia. |