Di scuola, ignoranza e violenza tra realtà e rappresentazione [di Enrico Manera]

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Doppiozero.com 31 maggio 2018. Nelle ultime settimane si è tornato a parlare di scuola con particolare enfasi su alcuni episodi di aggressione e violenza nei confronti di docenti, all’interno di un più generale discorso sul bullismo e sul degrado dell’educazione e dell’istruzione. Come spesso succede quando si parla di scuola, il dibattito ha assunto toni perentori e caratterizzati da petizioni di principio a mio avviso stereotipate, semplificate e ideologiche.

Concordo con con l’idea che non esista una “guerra tra studenti e insegnanti” e che i problemi e le risposte possibili siano di altro ordine. L’attenzione per questa “emergenza” rientra in una concezione dell’educazione, ampiamente diffusa dai media, dai tratti apertamente o implicitamente nostalgici e conservatori che formula un giudizio senza appello sul degrado e sull’incultura diffusi tra le giovani generazioni.

Questo giudizio, con importanti distinzioni e intenzioni costruttive, si ritrova in parte anche nei recenti interventi apparsi su «Doppiozero», all’interno di un’analisi che accetta l’idea di fondo secondo cui la scuola attuale, sulla base di una cultura ugualitaria e garantista promossa principalmente dalla sinistra e dai suoi eredi, sia divenuta un luogo sostanzialmente incapace di produrre e promuovere valori.

Mi sembra che le pur diverse opinioni sulla scuola e sulle cause della sua crisi finiscano per essere accomunate da un sentimento apocalittico di disagio per la contemporaneità e in essa la scuola figuri come un facile capro espiatorio: vorrei proporre qui una diversa lettura e una riflessione sul fatto che essa sia il luogo sintomatico di una crisi che ha altre origini.

Innanzitutto, non sembra che gli episodi di violenza nella scuola siano statisticamente rilevanti e tali da descrivere la normalità delle relazioni scolastiche, né che i professori siano una categoria oggetto di una violenza a loro riservata. Si può invece affermare che  di tali casi è aumentata la rappresentazione mediatica attraverso il web e i social network. Mai completamente contestualizzati o analizzati, sono più visibili a causa della  dimensione “virale” e dell’amplificazione che gli si vuole dare: il che è certamente un pessimo dato e conferma il rapporto conflittuale tra scuola e web.

Il venir meno dell’autorità dei docenti e del valore del ruolo professionale li ha certamente resi più vulnerabili, tanto rispetto alla critiche degli studenti e alle richieste dei genitori quanto a inaccettabili atteggiamenti di derisione e di intimidazione. Credo però che questi, oltre a essere minoritari, siano indice non tanto del degrado della scuola quanto segni di una società che nella scuola manifesta il suo volto peggiore.

Dalle scelte delle classi dirigenti al senso comune, la società italiana non è stata in grado di avere cura dei luoghi di formazione e crescita dei propri cittadini; dopo essere stata delegittimata, impoverita e irrigidita, la scuola è stata gravata della colpa di aver prodotto una crisi di fatto subita.

Caricata di richieste e di compiti che non possono essere solo suoi, la scuola pubblica ha visto tagli pesanti delle risorse ordinarie ed è stata oggetto di campagne volte a riformulare la nozione di educazione sostituendola con quella di formazione permanente. Nella scuola convivono, in modo contraddittorio, vocazione alla trasmissione dei saperi umanistici, scientifici e tecnici e al contempo il progetto che la vorrebbe laboratorio sociale per l’accettazione delle regole del lavoro, del consumo, della redistribuzione nell’età dell’economia globale.

I fondamenti della scuola attuale (spazi, tempi, contenuti, strumenti) sono stati pensati per una diversa struttura sociale: la scuola è schiacciata dalla contraddizione in quanto istituto residuale di socializzazione ispirato a un modello umanistico ed emancipativo, in contrasto con le dinamiche di reificazione, mercificazione e mediatizzazione dominanti nel resto del sistema.

Non è facile per i docenti sostenere le ragioni dell’amore per la cultura e dello sviluppo del pensiero critico attraverso l’impegno scolastico quando i modelli diffusi di affermazione e di costruzione dell’identità personale passano attraverso consumo, ricchezza e popolarità sullo sfondo di una desertificazione intellettuale, morale e culturale veicolata da vecchi e nuovi media.

Di qui la perplessità sulle colpe della sinistra, a cui più voci con diverse sfumature e orientamento attribuiscono atteggiamenti di lassismo e indulgenza tali da provocare la fine della nozione di autorità, responsabilità e dovere. Le tesi secondo cui la crisi dell’istruzione risale alla cultura del Sessantotto e degli anni Settanta, che avrebbe cancellato il senso della fatica e del merito, non riconoscono pienamente la funzione assolta dalla scuola dell’inclusione e dell’uguaglianza di opportunità.

Quella scuola ha funzionato bene come strumento di mobilità sociale e di formazione di alto livello in un paese arretrato e patriarcale che si stava modernizzando e affrontava una fase espansiva e di grandi trasformazioni della mentalità e dei costumi: un momento importante in cui cambiavano modelli e pratiche didattiche.

A questa fase è seguita un’ondata politica e culturale di segno inverso: in prospettiva storica penso che le radici del problema culturale ed educativo che viviamo oggi affondino negli anni Ottanta, quando politiche di inclusione e modelli di sinistra sono stati erosi e progressivamente sostituiti da una svalutazione della cultura nel quadro di una configurazione liberista ed economicista, destinata a spostare nei decenni successivi il baricentro della politica nazionale sempre più a destra.

Lì si presenta inoltre un processo ancora in corso nelle politiche scolastiche e nel discorso pubblico: diffondere l’idea di una crisi irreversibile della scuola è anche un modo di delegittimare l’esistente per avallare il disimpegno economico della Stato e l’apertura alla privatizzazione del settore.

Molto si potrebbe dire sui diversi e confusi, difficili, tentativi di riforma da allora in poi, con le migliori intenzioni pedagogiche di partenza che nel precipitato si trasformano progressivamente in retoriche e pratiche semplificate e burocratizzate, animate da una cultura aziendalistica e uno spirito “europeista” più attenti alla forma e alla quantità che non alla sostanza e alla quantità. Ma è anche il paese che si è trasformato profondamente.

Docenti e presidi si sono confrontati con un più ampio numero di studenti, con motivazione, impegno, conoscenze e un capitale sociale e culturale non adatti ai requisiti di una scuola che è non stata pensata per l’istruzione di massa. Le molteplici cause di questa diversa condizione dell’utenza scolastica sono da ricercare nella provenienza socioculturale e nelle trasformazioni della società post-industriale, dell’industria culturale e dello spettacolo; e sono correlate a una diversa economia dell’attenzione, del desiderio e della progettualità del futuro, con luoghi e tempi di sociabilità e acculturazione di massa imparagonabili con quelli di pochi decenni prima.

Questa dinamica coinvolge le famiglie e l’educazione famigliare, si associa alle profonde  trasformazioni demografiche e dei settori produttivi, alla crisi economica, al venir meno della fiducia che la scuola possa fornire mobilità sociale, a una differenziazione di ceto, redditi e classe di cui non si può non tenere conto; ha effetti sulle stesse convinzioni, modalità, consuetudini educative dei docenti che nella società sono inseriti pienamente: in questo senso gli studenti di oggi (ma anche i giovani insegnanti o aspiranti tali) sono consegnati ai percorsi tortuosi e demoralizzanti della disoccupazione, della sottoccupazione, della precarizzazione, della formazione sempre più dilatata, della dipendenza economica, della fuga all’estero come prospettiva di appagamento. Senza che si vedano soluzioni politiche realistiche ma solo fortune autobiografiche.

Se poi guardiamo alla questione della dispersione, la ricerca attuale configura uno scenario diverso rispetto a quello di una scuola che regala promozioni a oltranza e comunque. La scuola viene caricata di richieste eccessive e senza che le sia riconosciuta l’importanza che merita.

Una scuola concepita per una società diversa, attraversata da un disagio sempre più ampio, poteva scegliere tra due soluzioni: arroccarsi in difesa della tradizione di fronte all’incalzare della scuola di massa, con la prospettiva di respingere sempre più studenti e selezionare le eccellenze; oppure adottare strategie di negoziazione e/o recupero, che però risultano meno efficaci in relazione alle pressioni del ranking, della concorrenza sul mercato dell’offerta formativa e della progressiva burocratizzazione su standard europei più formalistici che sostanziali.

Dall’incrocio delle due opzioni, a seconda dei contesti che si sovrappongono alla geografia sociale, si arriva alla polarizzazione tra scuole d’élite e scuole ghetto, con in mezzo scuole in cui in modo quotidiano e silenzioso si lavora sulle competenze fondamentali della cittadinanza e si realizzano importanti obiettivi di istruzione, crescita ed educazione. A fronte di questo,  l’idea che la scuola tolleri l’ignoranza e che non insegni più mi appare decisamente ingenerosa.

È in questo scenario che si inserisce il problema della gestione di una cattiva socializzazione che confina con la devianza e la violenza nei contesti più degradati: che arrivano a scuola, non hanno lì la loro origine. Tra l’altro, i provvedimenti disciplinari per i singoli e gli interventi di rete ci sono e sono numerosi, con efficacia diversa: il recupero del disagio è una questione all’ordine del giorno nei territori più difficili, da molto tempo e senza che i giornali ne diano notizia.

Non mi convincono dunque i giudizi trancianti sull’intero sistema scolastico, che tendono a generalizzare e correlare in modo deterministico fenomeni di differente entità e diffusione come grado di cultura, rendimento scolastico, educazione relazionale, devianza e violenza.

Il punto è capire cosa si può chiedere alle scuole, nei diversi ordini e gradi e contesti. Nel quadro disarmante di sfiducia, anomia e violenza che permea ampi settori della società italiana, la scuola che conosco dimostra di avere radici salde e anticorpi vitali nel costruire conoscenza, educazione e cittadinanza; sa essere uno spazio di felicità pubblica e un laboratorio culturale capace di trasformare le vite più di quanto non emerga dal racconto dei media. Una simile rappresentazione si basa su casi estremi di incuria e degrado assunti come dato standard e così fornisce l’idea che si tratti di un fenomeno universale, endemico ed inevitabile.

Diffonde sfiducia e consolida il senso comune secondo cui un’istruzione inclusiva sarebbe inutile, fallimentare e da sostituire con un ritorno a soluzioni autoritarie e drastiche. Non ultimo, ha un effetto deprimente per chi, nelle tante realtà che funzionano bene nonostante tuttonon vede riconosciuto il proprio faticoso ed efficace lavoro quotidiano.

Penso che per una scuola di qualità per tutti e tutte servano analisi sensibili ed educazione secondo i bisogni. Cose che comportano lavoro e motivazione proporzionale alla gravità della situazione: una fatica di educare che le istanze autoritarie, segnate dal pessimismo antropologico, percepiscono come un peso.

L’attenzione alle specificità e alle diseguaglianze mostra che dietro gli scenari di catastrofe ci sono persone con provenienze, progetti e vissuti che interagiscono con i contesti di formazione; i quali a loro volta non possono essere uno stato neutro dell’esperienza, astrattamente omologato e replicabile: qualsiasi valutazione di un risultato in uscita non può prescindere dal dato di partenza e dal tipo di processo che si è svolto.

L’impegno per trasformare l’esistente passa attraverso questa disponibilità a comprendere il rapporto educativo. Senza questo, qualsiasi progetto di scuola non può che incontrare maggiori difficoltà nella sua realizzazione.

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