I giovani fuggono dalla Sardegna [di Antonietta Mazzette]
Sono tanti i giovani sardi che decidono di frequentare università situate per lo più nel centro-nord, il secondo passo sarà quello di andare fuori dall’Italia. Questo tipo di emigrazione non è nuovo e lo potremmo considerare fisiologico, oltre che positivo. E allora, perché oggi ci dovremmo allarmare? In passato studiare in “Continente” e, talvolta all’estero, era un privilegio, ma anche una necessità se in sede mancavano i corsi di laurea a cui iscriversi. Conseguito il titolo di dottore, quasi sempre, anche se con qualche eccezione, si rientrava in Sardegna per svolgere la professione per cui ci si era formati. Oggi la possibilità di studiare fuori per poi rientrare è quasi impossibile. Ovvero, chi si iscrive in altri atenei lo fa in buona misura perché ritiene che in Sardegna non ci siano prospettive e, dunque, tanto vale andar via al più presto. In altri termini, questi giovani sono “in fuga” dalla Sardegna, non dalle università di Cagliari e Sassari. Questa fuga si accompagna ad un’altra fuga: molti laureati in Sardegna vanno via, magari dopo vani tentativi di inventarsi un lavoro di qualunque tipo, anche non qualificato. La Sardegna, così, subisce due perdite: perde la popolazione più produttiva senza la quale un territorio non può avere futuro; perde il denaro investito dalla società e dalle famiglie per formare questi giovani. Naturalmente ciò va ad aggravare la vulnerabilità delle comunità a rischio di spopolamento, cioè di scomparsa. I giovani si iscrivono altrove perché le università sarde hanno un’offerta formativa inadeguata? Prevalentemente no. Se andiamo a vedere i settori produttivi presenti in Sardegna, continuiamo a constatare che permangono debolezze strutturali, compresa quella che non si investe in innovazione, e ciò va a scapito anzitutto dei laureati. Nel settore agricolo sono poche le aziende leader, mentre prevale una frammentazione di piccolissime aziende a conduzione familiare. L’industria si è impoverita progressivamente e ormai ha perso anche l’occupazione manifatturiera di qualità. Il terziario è il settore che registra il più elevato numero di occupati, ma prevale quello tradizionale che non investe in professioni ad elevata specializzazione. Il turismo in gran parte continua ad essere pensato in modo spontaneistico del “fai da te”. Insomma, prevale un sistema produttivo che richiede poche professionalità, dà poco lavoro e di basso profilo, non utilizza i giovani, soprattutto le donne laureate che continuano ad essere le più penalizzate. In altre parole, il sistema produttivo sardo continua a “tradire le aspettative dei più istruiti”, come aveva scritto già nel 2012 la sociologa del lavoro Lilli Pruna. Allora che fare? Anzitutto, si saldi un concreto legame tra formazione e sistema produttivo locale. Al di là delle dichiarazioni rituali, si stipuli un vero e proprio patto tra università ed economia. Tutti i settori dovrebbero essere interessati ad avere lavoro qualificato. Così come avviene nei Paesi più avanzati, si accolgano gli studenti non da usare come manovalanza spicciola, impegnandosi a selezionare quelli migliori. Così questi sarebbero incoraggiati a studiare di più e le imprese guadagnerebbero in termini di innovazione e di creatività che solo dei giovani preparati potrebbero portare. In secondo luogo, i diversi settori della macchina pubblica (dalla sanità all’università) avviino un confronto con il governo centrale perché si attui effettivamente il turn-over: nell’arco di pochi anni la nostra società sarà priva delle competenze necessarie per vivere decorosamente (dal chirurgo al professore al funzionario pubblico). La Regione ha deciso di aumentare i finanziamenti destinati al cosiddetto diritto allo studio, questa è una buona cosa, ma se ne frattempo non si affrontano questi nodi e non si riducono le debolezze strutturali dell’economia locale, è facile prevedere che anche le borse di studio erogate dalla Regione per aiutare i nostri giovani, saranno utili ad altri territori, ma non alla società sarda. |