Lasciarli cadere nell’acqua. L’ostilità primaria e l’odio verso i migranti [di Achille Castaldo]
leparoleelecose.it 12 luglio 2018. L’enorme quantità di odio riversata di recente su coloro che provano a migrare verso l’Europa non si lascia spiegare facilmente. Il discorso pubblico trova senza sforzo le motivazioni più disparate: la paura della “gente comune” vessata dalla crisi, la perdita del welfare, le condizioni economiche in costante peggioramento. Eppure, le crisi sono parte del sistema in cui ci troviamo. Quanto al welfare, sarebbe necessaria una rigorosa analisi della retorica attraverso cui è stato vissuto negli scorsi decenni. Sembra probabile che una simile indagine lascerebbe emergere l’ininterrotta percezione del declino, del peggioramento, della paura appunto. Non intendo negare che questo odio, così come il razzismo montante di cui si alimenta, abbia un’origine socioeconomica, che sia cioè determinato da, e funzionale a una certa fase del capitalismo. È però necessario, per comprenderne lo sviluppo e il funzionamento, analizzare le disposizioni psicologiche su cui fa presa, indagare i complessi cui si lega per diffondersi con tanta rapidità. Se proviamo dunque a esaminare il modo in cui il discorso xenofobo è cresciuto fino a farsi ragion di stato, almeno in Italia, l’aspetto più evidente è dapprima il senso di sgomento legato all’intrusione di un elemento visto come estraneo e minaccioso, il migrante, e poi la percezione di un’ingiustizia rappresentata dal fatto che chi avrebbe l’autorità per impedire questo fenomeno si sottrae al proprio dovere di protettore. Non solo questa autorità si renderebbe colpevole di un vero e proprio tradimento. Anziché proteggere dall’intruso, si metterebbe ad aiutarlo, a concedergli le proprie attenzioni (gli hotel di lusso, i 30 euro al giorno, i cellulari e tutte le altre leggende che sono state ripetute ad nauseam), sottraendo cure a chi ne avrebbe diritto. Ne derivano rabbia, frustrazione, delusione. E’ stato questo uno dei principali argomenti della retorica populista e del nuovo governo. Io: – Quando guardavi mentre la mamma faceva il bagno a Hanna, forse hai desiderato che lei lasciasse Hanna, in modo che cascasse dentro l’acqua? Non è difficile intravedere in questo schema un complesso tra i più comuni nella vita dei bambini nella nostra società, ovvero la rabbia e la delusione (l’“ostilità primaria”,[2] come la definisce Freud) che immancabilmente emergono nel primogenito alla nascita di una sorellina o di un fratellino. Si tratta del terrore di perdere l’esclusività dell’amore e della cura dei genitori. Il bambino vede nel nuovo arrivato un impostore, un essere malefico che mira a prendere il suo posto. Non solo, in questa aggressione percepisce una sorta di incantamento, una malia che questo essere misterioso sarebbe riuscito a gettare sui genitori, di modo che questi non si rendano conto della palese ingiustizia. Da qui la frustrazione, la delusione, la rabbia, la sensazione di essere traditi, di subire un torto. Da qui, anche, un’aggressività fino a quel momento sconosciuta. Io: – e così, quando la mamma la lavava, tu hai pensato che se l’avesse lasciata sarebbe cascata nell’acqua… Sebbene siano numerosi i luoghi in cui ci si sofferma su questa sorprendente aggressività (la “selvaggia energia che è tipica della vita emotiva di quegli anni”[4]) suscitata dalla detronizzazione del figlio maggiore, sembra che Freud voglia sempre lasciarla in secondo piano, come a riassorbirla nel complesso edipico. È il caso del piccolo Hans, per il quale l’ostilità per la sorella e questo suo desiderio di vederla cadere (“ho pensato che Hanna stava sul balcone ed è cascata di sotto”[5]), finiscono per sparire dalla scena, persino quando si tratterà di interpretare la fobia per la caduta dei cavalli. Stessa sorte, stavolta in modo persino più sorprendente, in Un bambino viene picchiato – ma non è questo il luogo per discuterne. È invece necessario notare come l’impulso violento si manifesti dapprima come desiderio che sia il genitore stesso a compiere la giustizia. Non a caso abbiamo così spesso assistito a invocazioni affinché il governo “facesse qualcosa” contro “l’invasione”, laddove quel “qualcosa” allude (non sempre solo implicitamente) alla sparizione, cioè alla morte o alla deportazione dell’invasore indesiderato. Soltanto dopo aver constatato che il detentore dell’autorità è stato stregato, il soggetto frustrato può in certi casi decidersi ad agire in prima persona (l’ossessione per il farsi giustizia da sé): Il venir meno, direttamente sperimentato o giustamente temuto, delle premure da parte dei genitori, il presentimento di dovere d’ora in poi spartire per sempre ogni possesso con il nuovo venuto hanno per effetto di risvegliare la vita emotiva del bambino e ne acuiscono la capacità di pensare. Il bambino più grandicello manifesta palese ostilità nei confronti del rivale, ostilità che trova sfogo nel rude giudizio dato del medesimo, o in desideri come quello che “la cicogna se lo possa riprendere”, e porta a volte persino a piccoli attentati all’essere indifeso che giace nella culla.[6] Questi “piccoli attentati” sono probabilmente giustificati, nella mente del bambino, proprio dalla convinzione che i genitori siano caduti sotto un malefico incantamento, e che perciò, una volta eliminato l’intruso, anche costoro non potranno che riconoscere il proprio errore e l’atto eroico che da esso li ha liberati restituendoli all’amore unico del figlio. Su una simile fantasia delirante sembrano essere modellate, dunque, le lucide esplosioni di violenza razzista contro i migranti ad opera di individui convinti di agire secondo una forma di superiore giustizia, cui lo Stato traditore si sarebbe sottratto. Non a caso, un individuo di questo tipo può giungere a comportarsi, dopo l’attentato, come si aspettasse di essere trattato da eroe (e avvolgersi in una bandiera). Ma non è questa la forma massima di soddisfacimento, né per chi vi si presta, né per i molti che pure sembrano più o meno apertamente esultare per simili gesti. Come rivelano le fantasie infantili, infatti, l’appagamento massimo sarebbe in questo caso costituito dalla figura genitoriale che si assumesse in prima persona il ruolo di ristabilire la giustizia, di punire e scacciare l’intruso. Il che è poi l’impossibile per eccellenza, quello che il bambino non potrà che vivere e ripetere nel fantasma, mentre nella situazione politica attuale può verificarsi davvero, e anzi essere sfruttato per creare consensi ed arrivare al governo: Ci sono altri bambini in casa, di pochissimi anni maggiori o minori, per i quali si prova antipatia per una quantità di altre ragioni, ma soprattutto perché si è costretti a spartire con loro l’amore dei genitori; perciò essi vengono respinti con la selvaggia energia che è tipica della vita emotiva di quegli anni. Se si tratta di un fratellino (o di una sorellina) più giovane, come in tre dei miei quattro casi, oltre ad odiare questo bambino lo si disprezza; eppure si è costretti a stare a vedere in che modo costui attira su di sé quella parte di affetto che gli accecati genitori hanno ogni volta in serbo per l’ultimo nato. Si comprende ben presto che l’essere picchiati, anche quando non fa tanto male, significa una revoca d’amore e un’umiliazione. Parecchi bambini, che si ritenevano stabilmente assisi sul trono dell’incrollabile amore dei loro genitori, sono stati così sbalzati d’un colpo dall’olimpo della loro immaginaria onnipotenza. È dunque una gradevole rappresentazione quella del padre che picchia questo odiato bambino, a prescindere completamente dal fatto che il padre sia stato visto davvero nell’atto di picchiare. Tale rappresentazione significa: ‘mio padre non ama quest’altro bambino, ama soltanto me.[7] Ci si potrebbe in ogni caso chiedere come nell’essere umano adulto una simile forma di aggressività possa arrivare fino all’esplicito – e anzi rivendicato – desiderio di morte verso un intruso che non rappresenta alcuna reale minaccia. La risposta è forse da cercare nella regressione provocata dal fissarsi di questa aggressività nel fantasma dell’ostilità primaria, dal momento che la morte, per il bambino, si presenta come una forma estremamente semplice, naturale, di sparire, di non essere più lì, senza alcuna spiegazione circa cosa significhi, per chi la subisce, tale sparizione: come può l’animo infantile giungere a tal grado di malvagità da augurare la morte al concorrente o a compagni di giuoco più forti, come se soltanto con la pena di morte si potesse espiare ogni colpa? Chi parla in questo modo non considera che la rappresentazione infantile dell’“esser morto” non ha in comune con la nostra che l’espressione e poco altro. Il bambino non sa nulla degli orrori della decomposizione, del gelo nella fredda tomba, del terrore del nulla senza fine, che l’adulto – come testimoniano tutti i miti dell’aldilà – tanto male sopporta nella sua rappresentazione. … Per il bambino, al quale d’altra parte si risparmiano le scene di sofferenza che precedono la morte, essere morti equivale a “essere via”, non disturbare più i superstiti. Egli non distingue in che modo avvenga quest’assenza, se mediante una partenza, un congedo, un allontanamento.[8] Non bisogna poi dimenticare che la comparsa di una sorellina o di un fratellino viene a infrangere il sogno di eternità senza storia in cui si culla il bambino. In quel momento si desta il desiderio di conoscere la propria origine, ma soprattutto si intuisce l’esistenza di un tempo in cui non si aveva la proprietà esclusiva dei genitori, e che dunque non è tale di diritto, e può essere revocata. In modo simile, l’arrivo del migrante attraverso il deserto amniotico del Mediterraneo infrange la fantasia di un diritto innato sul possesso del suolo nazionale, distrugge l’implicita fantasia di un’unione ab aeterno di una presunta “nazione” e di un luogo geografico[9]. L’attuale governo italiano, per guadagnare consensi, si è presentato, e continua a presentarsi, come il genitore che esaudisce la fantasia delirante del primogenito, scacciando, umiliando, distruggendo l’intruso: da qui la ripetizione ossessiva, da parte di Salvini, della formula “agire da padre”. Eppure, lo sfruttamento parassitario del fantasma non può che portare a una realizzazione aberrante: la figura che vorrebbe presentarsi come genitoriale non riesce nell’intento poiché sovverte le azioni proprie di questo ruolo nello schema familiare (il genitore non elimina il secondogenito per soddisfare le fantasie del primo figlio). E così, la realizzazione del fantasma del primogenito avviene nel modo più paradossale: la lega dei figli unici (di coloro che vorrebbero rimanere tali) si ritrova in balia non di un genitore miracolosamente redento, ma di un fratello maggiore mostruoso, passando dunque dal sogno di conservare per sempre il diritto divino all’amore e alla cura, ad assumere proprio il ruolo minoritario di coloro che aveva inteso distruggere. Mi rendo conto che un approccio di questo tipo può sembrare un tentativo di naturalizzare, e dunque in un certo senso di giustificare, una disposizione di massa abominevole, come a volerla ricondurre a una dimensione pulsionale innata. In realtà, il mio intento è l’esatto opposto, ovvero mostrare come la retorica xenofoba di stampo populista sia riuscita a proliferare in modo capillare e a risultare vincente nella comunicazione globale proprio parassitando meccanismi psicologici molto comuni. Si tratta del resto di un qualcosa di basilare per la comunicazione pubblicitaria. Più il complesso pulsionale di appoggio è universale, più una certa strategia risulta vincente. [1] S. Freud, Analisi della fobia di un bambino di cinque anni (caso clinico del piccolo Hans), in Opere, vol. 5, Bollati Boringhieri, Torino, 1972, p. 528. [2] S. Freud, Teorie sessuali dei bambini, in Opere, vol. 5, op. cit., p. 454. [3] S. Freud, Analisi della fobia di un bambino di cinque anni (caso clinico del piccolo Hans), op. cit., p. 532. [4] S. Freud, Un bambino viene picchiato, in Opere, vol. 9, Bollati Boringhieri, Torino, 1977, p. 48. [5] S. Freud, Analisi della fobia di un bambino di cinque anni (caso clinico del piccolo Hans), op. cit., p. 529. [6] S. Freud, Teorie sessuali dei bambini, in Opere, vol. 5, op. cit., pp. 453-454. [7] S. Freud, Un bambino viene picchiato, op. cit., pp. 48-49. [8] S. Freud, L’interpretazione dei sogni, in Opere, vol. 3, Bollati Boringhieri, Torino, 1980, pp. 236-237. [9] Devo questa intuizione a Filippo Screpanti.
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