Il giornalismo in Sardegna [di Vito Biolchini]
Questo intervento è stato pubblicato nel dossier “Il giornalismo in Sardegna”, curato da Ucsi Sardegna e presentato nelle scorse settimane. Vito Biolchini, 48 anni, cagliaritano, iscritto all’Ordine dei Giornalisti dal 1993 e professionista dal 2003, ha collaborato a partire dagli anni 90 con il quotidiano La Nuova Sardegna per poi far parte dal 1996 della Redazione di Radio Press, di cui è stato direttore tra il 2006 e il 2011. Ha lavorato a Tiscali News, a Sardegna Uno ed è stato direttore del sito di informazione e spettacolo Godotnews. È laureato in Scienze della Comunicazione all’Università di Cagliari (corso per il quale ora tiene un Laboratorio di scrittura) ed è stato consigliere dell’Ordine dei Giornalisti della Sardegna. Ha collaborato con diverse testate nazionali, tra cui l’Espresso, l’Unità, il manifesto e Radio Popolare. Oggi collabora con la sede Rai della Sardegna per la quale conduce la trasmissione Mediterradio, e con Radio X (Buongiornl Cagliari e Extralive dedicato al sociale). È responsabile della comunicazione del Centro di servizio per il volontariato Sardegna Solidale.Accadde tutto in pochi giorni sei anni fa, un’altra epoca a pensarci oggi. Dirigevo a Cagliari una radio privata, ero assunto a tempo indeterminato, andavo in onda due ore in diretta la mattina ma per il resto il lavoro organizzativo si stava mangiando la mia vita professionale. Telefono, scrivania, riunioni. Per consentire ai miei colleghi di fare al meglio i giornalisti, il giornalista non lo stavo più facendo io. Così, all’improvviso aprii un blog e iniziai a scrivere, e sotto il mio nome misi una frase che ricordavo di aver letto in un manuale di giornalismo: “La libertà di stampa è di chi possiede un organo di stampa”. Come dire: è inutile essere giornalisti se poi non hai una testata dove lavorare. Non sono più riuscito a trovare l’autore di quella frase (di cui mi approprierò, per usucapione, a tempo debito, e la spaccerò per mia), ma poco importa: la testata ero io, il blog divenne il mio giornale privato, dove scrivere ciò che per mancanza di tempo non riuscivo a dire in radio. Un sontuoso passatempo. Era per me anche un riconciliarsi con la parola scritta, una antica consuetudine abbandonata in nome della parola detta e sacrificata in nome di una funzione bella e faticosa. A distanza di sei anni quel blog c’è ancora, la radio invece no: è fallita. Quel contratto a tempo indeterminato è rimasto una straordinaria eccezione in ormai ventiquattro anni di iscrizione all’Ordine dei Giornalisti, costellati da collaborazioni a pezzo, collaborazioni non pagate, co.co.co, fino ai contratti “autore testi e conduttore” (perché la parola giornalista fa paura a qualcuno), e così io sono diventato ipocritamente, imprenditore di me stesso: una partita Iva. In pratica, un giornalista senza redazione. E si può essere giornalisti senza redazione? Penso di no. E infatti il giornalismo è per noi partite Iva una attività ormai quasi marginale. Più che altro facciamo comunicazione (prevalentemente uffici stampa), ma non disdegniamo anche consulenze (poche) e docenze (settore in crescita, ma non è per tutti: ci vuole molta umiltà per insegnare le regole delle cinque W a dei quindicenni). Un elemento ci unisce tutti: lavoriamo quasi sempre senza contratto (e il motivo è facilmente intuibile, ma non si capisce perché per noi giornalisti si dovrebbe fare un’eccezione). Questa è la professione per la stragrande maggioranza dei giornalisti oggi. Moderiamo dibattiti (ce ne pagano mediamente pagano uno ogni cinque), presentiamo libri (uno ogni dieci, ma il libro te lo regalano, è già qualcosa), le nostre firme sono comparse su testate importanti (volete il mio elenco? Rai, L’Espresso, Repubblica.it, l’Unità, Radio Popolare…) ma nostra visibilità è curiosamente inversamente proporzionale al nostro reddito, laddove nel mondo normale dovrebbe essere esattamente il contrario. Dopo sette anni, oltre 1500 articoli, oltre di cinque milioni di pagine lette e quasi 50 mila commenti pubblicati, quel blog ancora resiste, e molti pensano che sia il mio vero lavoro quando in realtà continua ad essere il mio bellissimo e pericoloso passatempo (le spese legali per le denunce temerarie me le sono pagate io, e per fortuna che alla fine non sono mai stato condannato). La gente legge le mie analisi politiche e le mie cronache culturali, i miei editoriali sono oggetto di riflessione da parte di migliaia di persone, i politici mi dicono “la gente segue quello che scrivi” e ogni tanto mi accusano di essere la causa delle loro disavventure. Mi rendo conto di usare un linguaggio poco convenzionale, troppo diretto, i miei post non potrebbero mai finire sulle pagine di un quotidiano anche se una volta in realtà è avvenuto (“Possiamo pubblicare il tuo articolo”, “Sì certo!”). Poi siccome la cosa è finita lì (pubblicare più di un pezzo poteva sembrare un atto di debolezza da parte della redazione, ma che i quotidiani siano deboli e sempre più lontani dalla realtà non lo dico io ma le loro vendite), gli amici del giornale si sono sentiti in dovere di non pagarmi. Poco male. E poi è una vecchia storia: nel 1991, quando iniziai a scrivere per un quotidiano locale, come tutti i collaboratori venivo pagato ottanta lire lorde a riga tipografica (non credete alla balla che sia stata internet a creare il precariato giornalistico, gli egoismi dei tutelati sono vecchi come il mondo). Una volta le passioni diventano lavoro, oggi le passioni possono diventare solo degli hobby. Per questo scrivo editoriali per passione e comunicati stampa per professione. Il giornalismo è affare per giornalisti pensionati (sembra che i giornali non possano proprio fare a meno di loro), per giovani supermasterizzati che conoscono quattro lingue, e poi anche per gli eterni aspiranti giornalisti come me. Ma se voglio dare ancora un senso alla mia vocazione non posso esimermi dal scrivere quello che penso. E lo faccio gratis, regalando a tutti il mio lavoro intellettuale: tanto gli altri non mi pagano. E insieme a quella frase che fra un po’ diventerà mia, oggi nel mio blog ne aggiungerei un’altra. Parafrasando Franco Fortini (che disse “Il combattimento per il comunismo è già il comunismo”), scriverei “il giornalismo è la lotta per il giornalismo”. Anche se mi avvio ad essere un signore di mezza età, amo sempre mio lavoro, quindi lotto ancora. Semel sacerdos, sempre sacerdos. Celebro i miei riti in solitudine, senza redazione, senza pensione (chi mai la vedrà?). È andata così. Ma avrete i miei f24, non la mia vita. |