Il dibattito . «Dal sofà al so fare, è arrivato il momento di prendere posizione» [di Alessandro Bergonzoni]
L’Espresso 02 agosto 2018. Si apra l’epoca del Risarcimento. Che spunti come un barcone un cambio di arti e un diverso moto a luogo. Anche la militanza, lo schierarsi, gli appelli e le piazze, hanno bisogno di un cambio di intenzione, di sensi. Prendere posizione e prendere corpo. Come già scritto , chi ha il privilegio e le possibilità di essere attore, scrittore, poeta, disegnatore o artista è chiamato. Come rispondere, oggi? Con i propri strumenti, con quello che si sa fare e per come si può. Basta ma non avanza. “ Intellettuali ” o no ora, anche la militanza, lo schierarsi, gli appelli e le piazze, hanno bisogno di un cambio di intenzione, di sensi. Si potrà andare fisicamente sulle Ong a toccare con “colpi di grazia” la mano di chi ti ha chiesto di tenergliela per non affogare? Si proverà non più solo a guardare o leggere, ma a stare con chi fa questo indispensabile “ lavoro” da tempo? Come si potrà e dovrà fare, allora noi faremo. Mentre l’Europa (il vero asilo politico?), potrebbe impedire tutto ciò organizzando equamente con giustizia e diritti un esodo di tale portata, andando a fondo su questi temi, non lasciando andarci altri. E qui intanto, nel frattempo, perché è questo frattempo che non riusciamo a colmare in modo convincente, credo ci possa essere un ’ altra strada “navigabile” oltre al mandare video, adesioni. Con orecchie e occhi mai messi. La parola salvare mi serve anche per non cadere nella tentazione di lavare le coscienze e le nostre anime (S.O.S. vuol dire save our souls) dal senso di colpa e impotenza ogni volta che si legge, si vede annegare, torturare, ammassare e affamare, per mettere in pace noi da frustrazioni schiaccianti. È altro quello che dobbiamo salvare di noi e soprattutto di coloro che passano dalle violenze ad altre improbe fatiche sub umane (possibile che nessun sub umano si tuffi nel mare per salvare ciò che di umano in certi casi resta a galla per così poco?). Quel qualcosa d’altro non è la nostra parte più umana, buona, generosa o sensibile che sia, ma la parte più sovrumana, più possente carnale, corporea e sacra: indossare quei corpi ogni giorno, ogni ora, ogni secondo e non a seconda della cronaca. Dal sofà al so fare: “tradire” il fare continua ad annegare chi è in mezzo al mare. E se fosse anche questione di mancanza d’amore? Quale stato ha paura di questa parola? Cominciamo un (capo) lavoro che consiste nel salire non solo su un natante, ma salire di livello, valicare la nostra frontiera di coscienza e conoscenza, aumentare la percezione, la nostra profusione-prolusione fisica (non solo morale, etica o sociale), iniziando a toccare con il tatto ma dell’altra pelle, con l’odorato di un altro naso, con la vista, l’udito e l’inaudito, con orecchie e occhi mai messi; un’ ultra immedesimazione extra-fisica, strasensoriale senza precedenti: quella che fa sentire incinte le donne che non lo sono, che fa sentire un arto a chi non l’ha più, che fa provare dolore al gemello sano quando è l’altro il ferito. Corpo a corpo b? È un’opera per nulla teorica, e gli esempi non sono un caso: concepire, far crescere, compenetrarsi, amare. I loro corpi e i nostri anticorpi. Sento, capisco la reazione di chi legge, immagino si possa pensare ad una comoda e distante “vicinanza”; che si possa credere ad una illusoria quanto utopistica presa in carico che nulla dà a chi sta attraversando mare e dolore. Ma siccome siamo noi, per assurdo, che dobbiamo essere e dare qualcosa di più, per cominciare a conoscerli, a toccarli, oltre che a restituire ad essi le loro, le nostre possibilità (come se diritto, dignità, sicurezza, fossero possibilità), allora stabiliamolo questo nuovo e concreto “contagio”, questa incarnazione, al limite del nostro essere. Si apra l’epoca del Risarcimento, chiedendoci cosa ha fatto la sinistra o la destra ma intendendo anche le nostre due mani, e cosa fa l’altra mano la man-canza. Passiamo ad altra dimensione, ad altro strato e stato (in tutti i sensi) che ci succedono e accadono, non riuscendo più a sentire in modo meramente umano e possibile. Ricordiamoci cosa non è successo a noi ma non possiamo dimenticare. Lamentiamo la nostra paura e incapacità di non poter rispondere degnamente a chi non vuol morire (invece altri non si lamentano ma accettano e credono sia normale amministrazione del mondo, che è sempre andato e andrà così). Bene, allora adesso creiamoli i presupposti per entrare in frequenza vera, in una vibrazione, un’onda, che non solo può capovolgere una barca ma scaraventarci addosso quei corpi, madri, bambini che dobbiamo diventare noi, perennemente, per non permettere agli anti-corpi di debilitarci. Quando cerchiamo la mano dei nostri figli, usiamo la loro, quando sentiamo caldo o freddo esagerati usiamo il loro brivido, il loro sudare, quando siamo schiacciati dalla calca usiamo la loro paura. Trasformiamoci, captiamoli, proviamo ad entrare, spingendoci in una condizione di uscita dal nostro corpo, lì in quel momento, in quel contingente, per “sentire”, per essere loro. Quando ci laviamo sentiamo prima il loro odore, quando ci vestiamo guardiamo le loro nudità. Questo per me non è una idea che prende corpo ma una parte del corpo che calamita l’altra. Quando ci alziamo la mattina o ci addormentiamo la sera entriamo nella loro scomparsa possibile, anche se quella sparizione sembra non ci sia, non sia nostra o ci appartenga. Una zona di tutto, una terra di nessuno. Ecco il punto: l’appartenenza, nostra a loro e la loro a noi. Creiamo una zona di tutto, invece che una terra di nessuno (dove vorrebbero relegarli), fondiamo un movimento che sia vero e proprio gesto, reale atto come il loro, prendendo posizione appunto: afferrando e stringendo un appiglio qualsiasi vicino a noi, chiamando aiuto anche se non ne abbiamo voglia o bisogno, stando seduti in posizione costretta e insopportabile per un lasso di tempo che permetta ogni possibile somiglianza anche la ben che minima. Inutile? Abbiamo mai provato? Quanto è ridicolo? Più o di meno di un emoticon, una foto su Facebook? Serve? A loro non so, a noi soli credo il giusto, ma a “noiloro” comincerà a servire per rifrazione specchiata, per congiunzione e coniugazione del verbo diventare, essere, appartenere, restituire, in una unica linea col nonfine che unisce. Non sostituirò mai te a me, la tua vita e pena vera alla mia; forse dice bene chi spiega che noi non saremo mai migranti (?). Ma posso intanto cercare di non essere mai più soltanto io? Varrà più di uno slogan o striscione? Vale (e vale cosa significa?), cercare di non entrare in una cella, di non essere un morto sul lavoro, di non essere strozzato dal pizzo o malato di leucemia a Caivano in prima persona? Basta leggere, ascoltare e dissentire? Non solo fino a quando ma fino a chi? A loro, a me? Allerta di indegnità e tortura. Fatemi credere che l’azione di contrasto politico a tutto ciò prima o ancora prima, arrivi. Fatemi pensare che l’allerta di indegnità e tortura di qualsiasi tipo abbia fine, non un fine; ma intanto, in questo maledetto frattempo, posso credere (tra il pregare, il meditare, il dimostrare e ogni tipo di umano dissentire) che spunti come un barcone quasi a picco, un cambio di arti, una vera e propria rivoluzione corporale culturale, un diverso moto a luogo, e che possa nascere da ogni essere? Essere che non crede più solo a questa unica realtà esperienziale inflitta, a cui diamo troppe occasioni di abituarci e stancarci nel veder soffrire e morire. |