Nel senso del porcetto [di Luigi Lotto]
«… nel senso del maiale…» cantava Jannacci per tradurre il milanese «purcell». Quasi come porcetto. Non ci rimane che la citazione dei versi stralunati di «Ho visto un re» per stigmatizzare il silenzio in cui è sprofondato uno dei problemi più drammatici della condizione di minorità economica della Sardegna. Non si tratta di idee. Ma di concreta economia della regione che vede deprezzato il simbolo più genuino della sua cucina. Nel senso del porcetto, appunto. La risonanza mondiale di «Eataly» e la popolarità acquisita da Oscar Farinetti, che è riuscito a trasformare in un successo imprenditoriale lo slogan «mangiare italiano», costringe a una riflessione sulla necessità di imporre l’immagine della Sardegna come un marchio di qualità commerciale. Qualità, radicamento nel territorio, tradizione, ma anche beni immateriali come la memoria storica e la cultura sono elementi identitari imprescindibili per ottenere un maggiore valore aggiunto nell’offerta dei nostri prodotti “tipici”. Per dirla con parole più tecniche, la crisi che da sempre rende improduttivo per l’economia dell’isola il settore suinicolo sardo si configura come un suicidio commerciale, di dimensione culturale. La peste suina africana, che da circa trent’anni penalizza il settore, rende vana ogni possibilità di sviluppo. L’attuale condizione di evidente sofferenza dimostra che affrontare la situazione sempre in stato di emergenza, solo con interventi di carattere sanitario come sinora avvenuto, ha portato all’impegno di ingenti risorse che non sono servite a risolvere il problema. Eradicare la malattia è un imperativo che ha certamente implicazione sanitarie, ma soprattutto economiche, con solo per l’economia dell’allevamento, e agricola in generale, ma anche per le ricadute turistiche devastanti. Non posso nemmeno immaginare come si senta un turista tedesco che scopre nato in Germania il maiale con il quale è stata preparata la salsiccia che sta mangiando a Nuoro. L’85% della produzione dei derivati in Sardegna viene consumata nel mercato locale, coprendo appena il 18-20% del consumo regionale. Quindi, poiché solo una piccola parte viene esportata in Italia e all’estero, ci si chiede per quale ragione s’importino quantità ingenti di carne, le uniche ammesse per la lavorazione degli insaccati per l’esportazione in quanto esenti da peste suina africana. Ma, soprattutto, sorprende che solo il 10% dei salumi sardi venga ottenuto utilizzando animali allevati in Sardegna. Consumiamo e offriamo, quindi, un prodotto che non può più essere definito tipico. Eppure le soluzioni sono state indicate e in più occasioni ribadite. Il riconoscimento della razza sarda (46 aziende sono iscritte al Registro Anagrafico delle razze suine autoctone), insieme alla differenziazione dei prodotti della salumeria tradizionale e la regolarizzazione degli allevamenti clandestini, sono obiettivi cui deve guardare una politica regionale che intende ridare al comparto il ruolo economico che merita. Solo una politica di filiera che coinvolga tutti gli operatori della produzione, della trasformazione, della commercializzazione, della ristorazione e del consumo, potrà creare le prospettive di un serio rilancio del settore in linea con la nuova Politica Agricola Comunitaria. La produzione suinicola locale di carni fresche e lavorate dovrà essere, però, il cardine principale su cui imperniare ogni misura regionale e non potrà esserci un futuro per i nostri allevamenti se non verrà definitivamente eradicata la peste suina africana. La sola iscrizione nell’elenco dei prodotti tradizionali, gestito dal Ministero e dalle Regioni, non consente una sufficiente tutela dei prodotti suinicoli. Pertanto, l’individuazione di un marchio di qualità per i derivati sardi ottenuti da carni prodotte nei nostri allevamenti, con specifici disciplinari di produzione, dovrà essere lo strumento per dare all’intera produzione una prospettiva commerciale, volta non solo al mercato regionale ma anche a quelli nazionale ed estero. *Consigliere regionale Pd |
Concordo pienamente. Da poco ho visitato una grande cooperativa lattiero-casearia e mangimistica nella zona di Cordoba, Spagna, producono anche suini a cui fanno un finissaggio su ghiande. Ottengono salumi, venduti in grandi volumi ed a prezzi prezzi stratosferici, proprio per il marchio geografico di cui godono. Ovviamente, con la peste suina questo non si può fare. Non ci vergogniamo ad essere l’unica regione europea con questo problema, nonostante le enormi cifre spese?