La Sicilia dei miti, un viaggio nella memoria [di Aldo Maria Morace]

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In attesa di presentare il romanzo  “Il terzo sacatto” di Rosario Musmeci a Cagliari, venerdì 28 settembre a cura di LAMAS e di www.sardegnasoprattutto.com,   ripubblichiamo l’analisi che ne ha fatto  Aldo Maria Morace  in La Nuova Sardegna il 20 agosto 2018 (mam).

È un’opera prima, Il terzo scatto (Reggio, Città del Sole, 2018): l’esordio letterario ― senza alcuna traccia d’impaccio o di approssimazione ― di un autore quasi sessantenne, Rosario Musmeci, siciliano di nascita e sassarese d’adozione. Un piccolo grande romanzo: nella sua mole esigua (appena centotrenta pagine) condensa una varietà complessa di temi e di elementi, pervasi da una autentica felicità di scrittura.

Musmeci è un diasporato dalla Sicilia ormai da parecchi decenni; ed ha trovato nell’altra sua isola, la Sardegna, il luogo d’elezione dove vivere e operare; e sembra avere fagocitato dalle due isole la potenza espressiva che ne ha caratterizzato la narrativa fra i due secoli. Non si nasce, senza esserne marchiati per sempre, sullo Stretto di Messina, lì dove miti e leggende alimentano, nell’infanzia, l’inventario dell’universo.

Non a caso alla grande letteratura siciliana si riallaccia il tema portante di Il terzo scatto: un uomo nel transito ultimo dalla vita alla morte; un uomo che ripercorre la sua umbratile esistenza e, insieme, quella del suo microcosmo familiare fra Otto e Novecento, in una terra amata e amara.

Il senso del vivere; l’esperienza dell’estremo confine; il significato dei ricordi: temi grandi ed eterni, che Musmeci affronta impavidamente, con novità di sperimentazioni e di risultati, in una struttura narrativa agile e densa di trentasette svelti capitoletti, preceduti da un prologo.

Carlo è tornato a casa da una clinica, ma non riconosce la casa, né i due figli, Elena e Antonio. La narrazione si dipana per segmenti intermittenti fra il mondo interiore (marcato dal corsivo) in cui l’anziano è ormai confinato, in limine mortis, e quello che vive attorno a lui, riflesso nei figli, che condividono nella quotidianità questa esperienza traumatica. Il presente s’intorbida, nella sua realtà; e, invece, il ricordo del passato si fa sempre più nitido e pressante, per un preciso riscontro nella patologia medica.

I frammenti della memoria compongono così un mosaico sempre più leggibile. È la storia di una famiglia che ha avuto origine da una diaspora, da una ribellione: quando l’antenato, Aronne, ha reciso la fedeltà alla monarchia borbonica, si è trasferito nell’isola maggiore e vi ha impiantato una florida attività economica, che gli ha consentito di supportare massicciamente l’impresa dei Mille.

Ha avuto, Aronne, l’ambizione di cambiare il mondo, di cambiare il destino della terra in cui si era radicato; e ha vinto e ha perduto al tempo stesso.

È anche un romanzo ciclico, Il terzo scatto: perché è la storia di una famiglia attraverso più generazioni, profilata con veloce leggerezza di segno. Ma è anche il riflesso della Storia grande, quella che ha fatto dell’Italia una nazione; e qui è inevitabile il riferimento ai grandi esiti di De Roberto, di Pirandello, di Tomasi di Lampedusa, di Sciascia, di Consolo.

E non è un confronto distruttivo: Musmeci si riallaccia ai suoi spaurenti predecessori senza uscirne distrutto proprio per la novità con cui rimodula il tema di una «terra liquida» che non ha saputo divenire «un popolo». Ed è uno sguardo prospettico sul presente: nella sconfitta di Aronne, della sua generazione, delle sue speranze, la sconfitta del Sessantotto, l’ansia delusa di mutare davvero il mondo.

Il terzo scatto è un splendido viaggio nel Tempo, oltre che nella Storia: la congiunzione in un unico respiro di un microcosmo umbratile (quello di Carlo, il sarto che vede e comprende più di tutti gli altri, mentre le sue mani corrono veloci) e del macrocosmo familiare e storico che certifica la fine di un mondo.

Carlo ha continuato a vivere il suo tempo vero nella casa dell’infanzia, quella che radunava tutti i membri di una famiglia che si è frantumata e dispersa. E il ricordo diviene ― splendidamente ― regressione linguistica al dialetto siciliano: sempre più i frammenti della memoria risorgono nell’onda musicale, avvolgente, della lingua primigenia.

Il nascere e il morire si congiungono, sono poli che si toccano; e se le cose del mondo “pungono” come i fichi d’india, i ricordi di una vita si compenetrano nella carezza di un sogno che accompagna e rende lieve il transito del confine. «La rabbia del mondo» si dissolve nel rintocco subacqueo della speranza, da consegnare a coloro che saranno in grado di percepirlo.

 

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