La Chiesa in cerca di un Paolo VII. Bergoglio delinea l’identikit del successore [di Piero Schiavazzi]
L’HuffPost 14/10/2018. “Valicando nuovi confini … nella fatica e nelle incomprensioni”.Dopo gli “atti dovuti” di Roncalli e Wojtyla, quella di Montini è la prima canonizzazione “politica” di Francesco. Jorge Mario Bergoglio e Giovanni Battista Enrico Antonio Maria Montini: Goethe le chiamerebbe affinità elettive, operative anche tra i pontefici. Chimica spirituale profonda che unisce personalità opposte, umanamente agli antipodi, e allestisce un composto insolito ma solido, resistente al tempo e alle intemperie. Il Papa della piazza e quello del palazzo. Il prete delle “villas miserias”, le baraccopoli di Buenos Aires, e il monsignore della Terza Loggia, il piano alto della Segreteria di Stato. La stanza dei bottoni e le stanze dei barboni. Amore postdatato, in apparenza impossibile, che riscuote il dazio e si fa spazio impassibile, quarant’anni dopo, nella memoria dei cuori e alla gloria degli altari. Dimensioni parallele che si sfiorano e sforano, significativamente, una nell’altra. Finestre temporali che si schiudono e affacciano solenni nell’abbraccio, caldo, del colonnato berniniano. Paesaggio e assaggio dell’ottobre romano. Temperatura estiva e prospettiva d’autunno, dolce al palato e retrogusto amaro. Popolarismo versus populismo. Aldo Moro e Perón. Riflessivo, democristiano e programmatore Paolo VI. Istintivo, bolivariano, trascinatore Francesco. La democrazia “formale” del discepolo di Maritain, amico dei costituenti e teorico appassionato di un disegno di libertà. E la democrazia “sostanziale” del teologo del pueblo, nemico delle disparità stridenti e impegnato ad includere coloro che rimangono fuori. Complementari e reciprocamente indispensabili. Accomunati però dal dubbio. Discernimento che si fa tormento e li avvicina molto più di quanto l’indole li separi. Allontanandoli da Benedetto e Giovanni Paolo, assertori tenaci e audaci di certezze. Dopo l’atto dovuto di Roncalli e Wojtyla, santificati congiuntamente, in automatico, sulla spinta di un moto che ascende dal basso, quella di Montini costituisce invece la prima canonizzazione “politica” di Bergoglio, voluta, pilotata e fortemente auspicata dall’alto. Già, politica, come lo furono a riguardo le ripetute aperture a sinistra di Paolo VI: a beneficio dei socialisti nostrani, dei rivoluzionari sudamericani e terzomondisti afroasiatici, dei regimi comunisti dell’Europa dell’Est. Analoghe, in un contesto differenziato e globalizzato, al feeling dell’attuale pontefice con Castro e Morales, o ai meeting in Vaticano della Internazionale delle tre T (Tierra, Techo, Trabajo, dai campesinos ai centri sociali) e da ultimo all’happy end, controverso e conclusivo, definito provvisorio dai suoi fautori e remissivo dai detrattori, dello storico accordo con i capitalisti rossi di Pechino. Strano, provvidenziale destino, che fa convergere sotto la stessa stella e sulla medesima traiettoria esistenziale la parabola dei due papi. Solari e crepuscolari, mentre incombe fatalmente su di essi la sindrome di Pio IX: tipica dei leader che vengono percepiti – e celebrati nel caso di Bergoglio con tanto di copertina di Time ad appena nove mesi dall’elezione – progressisti al debutto e conservatori al tramonto, nel giudizio dei media e della pubblica opinione. Uomini capaci di scelte sofferte, solitarie: come Paolo VI, quando disse no alla pillola nell’enciclica Humanae Vitae, contravvenendo alle raccomandazioni dei suoi consiglieri. O di uscite repentine, temerarie: come Francesco, quando si è scagliato mercoledì contro l’aborto, presago e incurante delle reazioni, paragonandolo a un “sicario” e passando tout court dai toni miti alle parole dinamite, mai udite prima in una udienza generale. Infine inclini alle battaglie a oltranza, perse in partenza e combattute in minoranza: come Montini nel referendum del ’74 sul divorzio e Bergoglio, adesso, nell’arrocco intransigente sul matrimonio uomo-donna e reiterata condanna della “ideologia gender” (deludendo le aspettative dei liberal, dopo il noto “Chi sono io per giudicare un gay?”, allo stesso modo in cui Mastai Ferretti gelò gli entusiasmi dei liberali di ieri, conseguenti al suo esordio patriottico). Ambedue in definitiva consapevoli, Paolo e Francesco, di andare incontro alla débacle ma intimamente convinti – è questo il tratto culturalmente più distintivo e psicologicamente omogeneo – di agire in nome di una morale laica e rimanere per giunta di “sinistra”, sebbene investiti dalle critiche, unanimi e massive, di quel versante dello schieramento politico. Similmente, in diverso frangente, non hanno mancato del resto di provocare scandalo e contestazioni a destra: come Paolo VI, nella primavera del 1978, quando “in ginocchio” si rivolse ai rapitori di Moro: “Io scrivo a voi, uomini delle Brigate Rosse … pur sempre amandovi”. O Francesco, che sulle rive del Giordano, dove il cielo si aprì per parlare agli uomini, ha definito i terroristi “povera gente criminale”, pregando per loro con lo slancio e l’abnegazione di un Dostoevskij. Garbatamente estremi, al dunque: nei gesti di apertura e di chiusura. Decentrati dal comune sentire ma in ultima istanza “umili” accentratori del potere. Portati ad annullarsi o ad innalzarsi con identica, educata determinazione. Centralisti e democratici, verrebbe da dire, mutuando un’antinomia d’annata del dizionario politologico. Sinceri sostenitori del sinodo e della collegialità episcopale, ma insieme difensori severi del vincolo gerarchico di autorità. Ossia della subordinazione alla “potestà piena, suprema e universale” del vescovo di Roma. “Virtù” coltivata e collaudata nei corpi specialistici di rispettiva provenienza: segnatamente la diplomazia ecclesiastica e la Compagnia di Gesù. Pontificati drammatici, apocalittici. Luminosi ma portatori sani di un lato dark. I Papi del dialogo con la modernità muovono infatti da una lettura positiva, ottimistica dell’evo contemporaneo, sotto il denominatore della “gioia” (“Gaudete in Domino”, Paolo VI, “Evangelii gaudium”, Francesco), per ritrovarsi poi a condividere in filigrana una contro narrazione pessimistica, negativa, riconducibile al duello tra il principe di questo mondo e il Signore della storia. In tale cornice l’invito sorprendente di Francesco a recitare l’esorcismo di Leone XIII e impetrare la protezione “armata” dell’angelo Michele fa pendant con l’insegnamento di Paolo VI, in una famosa catechesi: “Non vi stupisca, uno dei bisogni maggiori è la difesa da quel male che chiamiamo il demonio … vivo, spirituale, pervertito e pervertitore. Terribile realtà. Misteriosa e paurosa”. Tomisti e razionalisti – Montini ha concluso il concilio con un tributo agli scienziati e Bergoglio ha conseguito il diploma di perito chimico -, entrambi tuttavia ritengono che la “formula” degli eventi umani, per essere completa, e compresa, non possa prescindere da un elemento sulfureo e luciferino. Santificando Paolo VI, Francesco non depone il passato in una teca, benché sacra, ma dispone una ipoteca sul futuro. Ancora oscuro. Ai suoi occhi, Montini non rappresenta solo il prima, quanto piuttosto il dopo. Il prima: con la valorizzazione del cattolicesimo latino-americano e la profezia della globalizzazione, premesse remote del papato extraeuropeo. Ma anche il dopo, all’indomani del big bang innescato e dei processi avviati da Bergoglio, che alla stregua di Giovanni XXIII ha scosso “ab imis” le fondamenta dell’edificio e al netto della riforma di curia, in dirittura di arrivo, tramanderà comunque un cantiere aperto. Sul piano teologico e pastorale, geopolitico e istituzionale. Basti pensare al summit inedito dei presidenti degli episcopati, attesi a Roma in febbraio. Assemblea che al pari degli “stati generali”, quand’anche convocata sul tema specifico e congiunturale degli abusi, strutturalmente contiene in sé la carica generalista e imprevedibile di un concilio. Postulando sin d’ora l’esigenza, nel lungo periodo, di una figura ordinatrice, in grado di razionalizzare e stabilizzare, incanalare e navigare alla guida della barca di Pietro l’onda crescente delle novità suscitate da Francesco. Un ruolo che si attaglia perfettamente al “sapiente timoniere” bresciano, abile a rallentare senza perciò arretrare. A virare senza cedere alle sirene, reazionarie o rivoluzionarie che fossero, quando davanti a lui si profilavano gli scogli e le secche di una società “secolarizzata e ostile”, come Bergoglio ebbe a evidenziare già quattro anni orsono, nell’omelia di beatificazione. Concetto ribadito e rilanciato oggi, nell’omaggio al “profeta di una chiesa estroversa, che guarda ai lontani e si prende cura dei poveri”. Le affinità, così, da elettive si fanno elettorali e offrono discreta, concreta indicazione al prossimo conclave, tracciando l’identikit di un “Paolo Settimo”. Senza urgenza, però in modo chiaro, manifestando una preferenza, o esternando una necessità, per la successione. Tra corsi e ricorsi storici. Paesaggi ecclesiali e passaggi epocali. Autunni romani e primavere globali. |