Kyenge cartina di tornasole [di Nicolò Migheli]

Volto di donna

Il 18 di settembre è stato il settantacinquesimo anniversario della prima lettura che Mussolini fece  delle leggi razziali. Un avvenimento ignobile totalmente ignorato dai media. In Germania, dove i conti con il proprio passato se li sono fatti, non sarebbe stato così. In Italia invece ci si è sempre consolati con certa storiografia che mise quelle leggi nella volontà fascista di assecondare l’alleato nazista, dimenticando che nel primo fascismo c’erano già tutti i prodromi del Manifesto della razza.

Per riparare a quelle vergogne non bastano le centinaia di italiani che si opposero, che nascosero gli ebrei. La mala pianta del razzismo è sempre viva. Non più quello biologico degli anni Trenta. Oggi quello più sofisticato delle intolleranze culturali. Perché ricordare ancora quella pagina triste? Perché dovremmo farlo noi sardi? Solo perché  tra gli estensori c’era il professor Lino Businco?

Durante questa estate abbiamo assistito ad un rigurgito di razzismo che ha toccato anche la nostra isola. La notizia vera o falsa – non lo sapremmo mai- che la ministra dell’integrazione Cécile Kyenge, in rappresentanza del governo, avrebbe salutato Papa Francesco all’aeroporto di Elmas, ha rivelato che nel corpo della società sarda esistono persone  e gruppi che considerano intollerabile avere una ministra nera.

Movimenti neofascisti che per l’occasione si sono dati una vernice anticolonialista che è immediatamente caduta quando è stato annunciato che il saluto sarebbe stato portato dalla ministra Cancellieri. Una posizione contro natura per chi si identifica nello sciovinismo italiano, solo per poter affermare una  identità “sangue e suolo.”  Il fenomeno è stato poi amplificato dalle reti sociali, con effetti preoccupanti tanto da meritarsi un editoriale allarmato del maggior quotidiano dell’isola. Ancora una volta ricorre la domanda: i Sardi sono razzisti?

Non più di altri popoli si potrebbe dire, forse anche meno, a giudicare dai giudizi che danno le minoranze dei migranti presenti in Sardegna. Terra storicamente molto più accogliente di quanto non siano, ad esempio, le regioni dell’arco alpino. Bisogna anche dire che la pressione migratoria fino ad ora non è stata così forte come in altri luoghi. Ma se dovesse esserlo, come reagiremo?

La immaginaria visita della Kyenge è una cartina di tornasole sulla attuale identità dei Sardi. Che cosa ci definisce come tali? Solo l’abitare un certo luogo o vi è qualcosa di più? Il termine identità è di sicuro una espressione fortemente ambigua, si nutre della differenza, del “noi siamo un’altra cosa” e questo può portare a derive revansciste ed esclusiviste.

È noto che l’identità è una costruzione a posteriori. Siamo noi generazioni viventi che decidiamo come esserlo. Siamo noi che scegliamo cosa ci appartiene e cosa no. Ogni periodo della storia ha conosciuto identità differenti. I Sardi di cento anni fa erano diversi da quelli di oggi; si definivano in altro modo. Lo facevano  in riferimento al loro mondo conosciuto, che per molti non andava oltre il paese natio.

Oggi ci si deve definire in rapporto con un mondo molto più vasto; Europa e dirimpettai mediterranei inclusi. Sempre più Sardi si sentono nazione, ovvero un popolo caratterizzato da lingua propria, da tradizioni comuni, da un riconoscere il paesaggio e l’ambiente, le città e paesi come beni comuni identitari.

Una concezione fatta propria da chi auspica forme sempre più ampie di autodeterminazione sino all’indipendenza. È una fortuna che questi movimenti non abbiano mai abbracciato posizioni xenofobe e razziste. Al contrario hanno fatto dell’apertura e dell’inclusione la distinzione del loro agire culturale e politico.

Non si può escludere però, che se le aspirazioni di autogoverno toccheranno fasce ampie di popolazione, non possano sorgere organizzazioni che si facciano portatrici di culture che fino ad ora sono rimaste dentro i movimenti fascisti e xenofobi italiani. Una Lega sarda ad esempio.

Non siamo ancora sufficientemente vaccinati. La crisi economica e morale di questi tempi è una pessima consigliera. Negli stessi paesi scandinavi, abituati a politiche di accoglienza, sono nati partiti neonazisti. Occorre una grande vigilanza. Le società laiche ed includenti si costruiscono già nella scuola. Ancor di più se si pensa che le dinamiche demografiche prevedono una significativa diminuzione della popolazione nei decenni a venire.

Chiunque governerà la Sardegna nel prossimo quinquennio, dovrà porsi il problema di costruire una società accogliente, con misure che garantiscano le persone che intendano trasferirsi da noi. Significa, quindi prima di tutto, adottare un sistema di regole che dovranno essere rispettate da tutti. Un processo difficile e complesso. Non potremmo però ignorarlo. Non esistono più luoghi chiusi, le migrazioni si potranno controllare ma non bloccare. Decenni di politiche italiane sbagliate lo insegnano.

Saranno Sardi quelli che condivideranno con noi la lingua, le tradizioni, l’amore per la terra ed un patto civile. Senza inventarsi nulla, solo prendendo i casi più riusciti adattandoli alla nostra realtà. Una comunità di destino.

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