L’Huffpost post 7 novembre. I Democratici hanno conquistato la Camera. Trump ha conquistato il Senato. In termini assoluti, se si fosse trattato delle presidenziali, Donald avrebbe vinto di nuovo, ma come tappa intermedia di valutazione dei rapporti di forza, le Midterm danno un verdetto di equilibrio, una quasi cartesiana divisione di spazi.
Nelle cui pieghe si nasconde una serie di effetti il cui impatto appare oggi lieve, ma la cui capacità di innescare cambiamenti è molto alta. Primo fra tutti: il ruolo del voto delle donne, che si conferma il pivot intorno a cui ruota il sistema elettorale; e la sconfitta di ogni previsione apocalittica sul futuro della democrazia.
La democrazia funziona. I Democratici sono ritornati a contare, nonostante Trump sia sempre più forte. Hanno rimesso un piede nel potere, senza essere aiutati da nessun evento deflagrante, nessuna rivelazione sui rapporti con Putin, o una richiesta di impeachment. Sono rientrati in gioco semplicemente organizzando una buona campagna elettorale e scegliendo candidati migliori.
Il che smentisce ogni catastrofismo, provando che la democrazia è ancora ottimamente funzionante, in Usa (e forse altrove?), a patto che venga nutrita da giuste decisioni politiche. Forse è la più importante prova uscita dalle urne.
Le donne decisive. Le candidature femminili e il loro successo hanno segnato stavolta un numero record. Diventando il motore della vittoria dei democratici. È l’effetto di due anni di mobilitazione iniziata fin dalla inaugurazione di Trump con marce in tutte le città. Ma è anche l’onda lunga della sconfitta di Hillary e dei modi con cui è avvenuta – la rappresentazione della umiliazione delle donne messa in atto dai modi con cui l’attuale Presidente ha condotto la battaglia contro di lei.
Inoltre, Hillary, la cui condotta e i cui valori politici sono sempre stati avvertiti in molti settori del mondo femminile come estranei (troppo elitismo, troppo denaro, troppi compromessi di potere) pure è diventata un simbolo per tutte le donne della classe media, con alto livello di istruzione, e ancora spesso umiliate o limitate nella vita professionale e nei ruoli privati.
Archiviata Hillary non è stata archiviata la politica. Le numerose candidature di donne hanno portato a vari successi: in Pennsylvania dove non c’era nessuna donna nella delegazione al Congresso, ne sono entrate stavolta quattro. E molte donne sono state elette in Stati che pure hanno dato la vittoria ai Repubblicani. La prima donna di colore al Congresso eletta in Massachusetts, la prima donna musulmana in Michigan e la prima donna nativa Americana in New Mexico.
Non di successo è invece stata la presenza femminile nella corsa a Governatore nei vari Stati. Provando forse che per ruoli di gestione diretta la fiducia nelle donne non è ancora alta?
Un partito Repubblicano più Trumpiano. Un partito Dem più articolato. Dalle urne esce, come si vede già solo da questi primi dati un rivelante aggiustamento del profilo dei due partiti.
Trump ha fatto fuori, aiutato anche dall’età dei senatori, quasi tutto il gruppo originario dei repubblicani che lo avevano combattuto. E i suoi nuovi candidati sono riusciti a consolidare nel Senato la vittoria che il Presidente aveva ottenuto nel 2016. Un grande ruolo ha giocato in questo rafforzamento la battaglia sui valori – il più simbolico dei quali è quello antiaborto.
Molti dei nuovi senatori sono antiabortisti, come ad esempio i repubblicani che hanno strappato la elezione in Stati democratici, quali Indiana, North Dakota, Missouri. E così è successo nella corsa al ruolo di Governatore in Iowa, Florida, Georgia e Ohio. Il partito repubblicano è oggi dunque non solo più conservatore, ma anche più coerente, e dunque più compatto intorno al Presidente.
I democratici anche sono cambiati. Decisamente spezzato il filo del legame con i Clinton, e in parte resosi molto labile anche quello con Obama, che non è riuscito a far eleggere nemmeno la governatrice nera che era andato a visitare ad alcune ore dal voto.
L’identità dei dem attuali non è necessariamente più di sinistra (anche se Sanders ha avuto un solido successo), è nella varietà e novità delle candidature. Un mix razziale e di gender molto forte – uomini bianchi, donne tantissime come si diceva, multirazzialità accentuata – unito alla mobilitazione al voto di una classe media ricca e cittadina.
Che ha fatto convergere il suo voto accanto a quello delle minoranze. La affermazione dem dentro le classi sociali medio alte nei luoghi del Paese a maggiore concentrazione di sviluppo economico proietta nel futuro una crescita del voto, perché queste sono aree molto dinamiche.
Non si tratta ancora di una rinascita per i dem. La loro debolezza in rapporto ai Repubblicani è ancora evidente. I Democratici si sono rafforzati alla Camera ma hanno perso Stati in cui erano forti, e mancato la conquista di Stati decisive, come Florida e Ohio. Male è andata la scalata all’incarico di Governatori. Il risultato finale per i Dem è dunque di segno misto: al successo alla Camera corrisponde, ad esempio, il fatto che, non a caso, da questo voto non esce nessuna nuova star, non emerge nessuna potenziale nuova leadership.
Ma il movimento e l’articolazione trovata nelle candidature sono una sorta di ripartenza. Un processo di rinnovamento solo iniziato, aiutato dal fatto che le candidature in Usa vengono scelte con le primarie e non decise dai boss dei voti nelle stanze chiuse del comitato elettorale.
Un rischio paralisi, e perché non ci sarà. Una tale simmetrica divisione di potere fra Dem e Repubblicani, può produrre la paralisi di Washington. Non che la Capitale Usa non abbia già sperimentato alla grande questa condizione – la distonia fra Casa Bianca e Congresso è stata una costante nella vita di molti Presidenti, non ultimo Barack Obama. In questo caso, però, è possibile che l’equilibrio di forze porti piuttosto alla possibilità di una Guerra di posizioni, utile a entrambi i lati.
Alla Camera cui tocca il primo passaggio dell’attività legislativa, i Democratici potranno bloccare le proposte di Trump. È facile così immaginare che il Presidente non porterà a termine una serie di progetti che gli sono cari e che sono il simbolo della sua Presidenza – il definitivo smantellamento della riforma sanitaria, la legalizzazione del Muro, ulteriori tax break.
Così come è facile immaginare che ci sarà un fiorire di inchieste, commissioni ad hoc, proposte di azioni legali contro Trump. Non da poco come potere democratico. D’altra parte a Donald, entrato ora nel suo terzo anno, serve relativamente poco la compiutezza dei suoi progetti sul piano legislativo perché nei primi due anni ha già “spremuto” tutti gli effetti che voleva dai suoi interventi.
Il controllo del Senato basta e avanza per agire sul terreno che più ha impatto sul futuro del suo lavoro: la nomina dei giudici. Quelli costituzionali, di cui oggi può nominare il terzo, e a cascata i giudici su tutto il territorio. Un investimento di lungo periodo che mette al sicuro, questo sì, la parte “valoriale” dei suoi elettori conservatori. Temi cari, in posizione inversa, anche ai democratici che però potranno fare poco.
Più che una paralisi si profila una Guerra irregolare combattute da due fortezze, in cui ogni parte ha il potere solo di bloccare l’avversario; ma in cui ognuna delle parti ha un territorio proprio in cui ha mani libere. Per essere lo scenario che prepara le elezioni fra due anni non è male. Per nessuno dei lati.
*Direttore, Huffpost Italia