Se i diritti dell’imputato vacillano è anche perché l’Università ha fallito [di Rita Dedola]

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Alla manifestazione organizzata a Roma al teatro Manzoni, dall’Unione delle Camere Penali il 23 Novembre scorso a chiusura delle quattro giornate di astensione per la difesa della Costituzione e dei diritti individuali, era presente tutto il mondo accademico che si occupa di diritto e del processo penale.

Gli interventi che si sono succeduti, serrati e corposi, tutti concordi nello stigmatizzare la riforma che blocca il decorso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, hanno avuto anche un contenuto sul quale è necessario riflettere per leggere e interpretare i tempi bui che ci stiamo accingendo a vivere.

L’ ”accademia”, da Enrico Amati a Giampaolo Voena, in fatti ha in qualche modo fatto ammenda sul ruolo svolto negli ultimi decenn8i nell’insegnamento del diritto e della procedura penale, più in generale, dei diritti della persona che intorno a questi ruotano.

E’ infatti lecito chiedersi che cosa hanno imparato gli avvocati che oggi ci governano – o forse che cosa e come hanno insegnato i loro professori – da questi insegnamenti se non hanno chiaro che l’istituto della prescrizione è il contrappeso che lo stato di diritto impone alla eccessiva durata del processo; se non hanno chiaro che il blocco della prescrizione dopo il primo grado di giudizio rende il processo interminabile non solo per l’imputato, ma anche per le persone offese dal reato; se non hanno chiaro che la riforma Orlando e, prima di questa, altre modifiche normative, hanno reso i reati di fatto, imprescrittibili; se non hanno chiaro che se è la difesa a chiedere un rinvio del processo, i termini di prescrizione non decorrono; se non hanno chiaro che solo un processo penale  quale quello delineato dall’art. 111 della Costituzione è proprio di uno stato democratico che tutela i diritti e le garanzie.

Evidentemente quella pedagogia non ha funzionato. Allora è venuto il momento, prima che sia troppo tardi, di cambiare passo e sistema pedagogico e, soprattutto, di essere tutti uniti, come ha saggiamente detto Giorgio Spangher.

La giornata del 23 novembre perciò deve rappresentare un punto di ripartenza per la comunità dei penalisti, degli avvocati, dei lobbisti della Costituzione, come efficacemente detto dal presidente dell’Unione delle Camere Penali, Caiazza, per approntare un nuovo linguaggio con il quale spiegare al di là delle logiche di convenienza e delle contingenze politiche, ai giovani avvocati, agli studenti delle nostre facoltà e, ancora prima, ai cittadini di questo paese, che il processo penale è il luogo nel quale più di ogni altro si testa la tenuta dei diritti individuali dei cittadini – che hanno diritto ad un processo la cui durata deve essere ragionevolmente commisurata al caso singolo – e  non il luogo ove consumare la rabbia o la vendetta del popolo.

Se il processo è diventato terreno e argomento di scontro politico è segno che si vogliono minare le basi dello stato democratico così come configurato dai nostri padri costituzionali, che tutela i diritti di ciascuno nel patto sociale che ci siamo dati. Allora chi si è battuto trent’anni fa per l’introduzione del codice di procedura penale di stampo accusatorio e vent’anni fa per la modifica conseguente dell’art. 111 della Costituzione, ha la responsabilità di aiutare 8i giovani a ritrovare il linguaggio delle libertà individuali, delle garanzie, dei pesi e dei contrappesi, a fronte della retorica populista che  in nome e per conto nostro, forte della investitura elettorale frutto di una colossale truffa delle etichette, vuole costruire una democrazia senza diritti.

*Avvocata- Cagliari

 

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