Oltre la democrazia dei partiti? Come cambia la politica in Europa [di Lorenzo Viviani]

parlamentostrasburgo

Micromega 20 marzo 2020. La disputa sui partiti, sulla loro crisi, sull’imminenza di un loro superamento come attori della democrazia, fa parte del dibattito sulle forme della politica rappresentativa almeno dagli anni Sessanta del secolo scorso. Il reiterato impiego del termine crisi non di rado assume i tratti di una lettura nostalgica, di una lettura ideologica o una di una semplificazione rispetto a un più sostanziale processo di trasformazione delle forme della politica e del Novecento. In questo scenario i partiti possono ancora essere considerati strumenti indispensabili per la democrazia? Oppure il partito politico è il ridondante fardello di un sistema che ha definitivamente imboccato il piano inclinato della post-rappresentanza e della post-democrazia?

La mole imponente di dati empirici sulla sfiducia nei partiti, sulla riduzione del numero degli iscritti e sulla accresciuta volatilità della scelta elettorale, confermerebbero la sentenza senza appello della perdita di centralità dell’attore-partito nel proscenio della politica. Nonostante l’ampia fenomenologia della crisi, si potrebbe obiettare che a tutt’oggi non si segnalano equivalenti funzionali ai partiti nella capacità di strutturare il conflitto politico e di garantire il funzionamento delle democrazie.

Anche a fronte di esperimenti deliberativi o al ricorso a pratiche di democrazia diretta, i partiti continuano a svolgere funzioni rilevanti fra cui la selezione del personale politico, l’organizzazione del processo elettorale, così come la formazione di governi e opposizioni nell’ambito delle democrazie parlamentari. Per quali ragioni allora i partiti politici sono chiamati sul banco degli imputati della crisi della rappresentanza politica?

Fra i principali capi di accusa rivolti ai partiti, fin dai primi dibattiti sul loro ruolo nelle democrazie, si annoverano la responsabilità di dividere il popolo, di fomentare la cura di interessi parziali, di non perseguire il bene comune, di occupare la sfera pubblica, di impedire il formarsi di una condivisa cultura politica nazionale.

Se questi sono alcuni dei temi classici cari all’antipartitismo, nelle società e nelle democrazie contemporanee il principale problema che affligge i partiti politici mainstream, ossia quei soggetti politici che derivano dalle famiglie politiche formatesi nel Novecento, è la perdita di fiducia e di legittimazione derivante dalla fine della funzione di identificazione sulla base di precise appartenenze ideologiche. Progressivamente i partiti si sono ritirati dalla società allo Stato, divenendo parte integrante delle istituzioni, e così rendendo la propria classe politica non più la depositaria della fiducia nella articolazione di valori e interessi nelle istituzioni, ma il simbolo del privilegio identificato nella “casta”.

Dismessa la funzione di agenti della società nelle istituzioni, i partiti hanno prestato il fianco a quell’antica legge ferrea che già Michels aveva individuato, assumendo la forma di oligarchie autoreferenziali impegnate nella propria auto-riproduzione senza più connessioni con la società. La secolarizzazione delle “chiese laiche”, ovvero i partiti fondati sulle ideologie, ha segnato la rottura del sentimento di appartenenza alle forme, ai luoghi e alle stesse “liturgie” dei partiti di integrazione di massa, con la messa in discussione della delega alla classe politica e della sua legittimazione.

Nel secolo della democrazia di massa i partiti avevano reso politicamente attive fratture emerse nei processi di modernizzazione e di formazione degli Stati-nazione, in particolare il cleavage fra capitale e lavoro, alla base della polarizzazione fra destra e sinistra, costruendo identità e appartenenze.

In quel contesto l’appello al popolo non avveniva sulla base di un’indistinta comunità nazionale, ma il popolo di riferimento si identificava di volta in volta con una precisa constituency sociale, la classe gardée del partito. Dal punto di vista sociologico i partiti svolgevano un’attività di tipo identificante e una attività di tipo efficiente, creando fiducia e legittimità nei confronti dell’intero sistema politico.

In altri termini, i partiti di massa erano in grado di definire il perimetro delle identità, di fornire schemi cognitivi di interpretazione della realtà, di cementare i legami di solidarietà all’interno del gruppo attraverso codici simbolici condivisi derivanti dall’ideologia, e infine di segnare una linea di demarcazione netta rispetto agli altri partiti.

Allo stesso tempo i partiti strutturavano la parte procedurale della democrazia attraverso le elezioni, le decisioni assunte nel governo o, qualora fuori dalla sfera del potere esecutivo, attraverso l’attività parlamentare e l’attività di opposizione. I partiti burocratico-professionali, e in particolar modo i partiti socialdemocratici, i partiti comunisti e i partiti democratico-cristiani, integravano masse sociali (operaie, cattoliche, etc.), si articolavano nei territori con le loro sezioni, costruivano essi stessi delle forme di welfare attraverso associazioni, case del popolo, attività di sostegno economico, dopo-scuola, cooperative di consumo, assumendo un ruolo che andava oltre il momento elettorale, come vere e proprie organizzazioni “dalla culla alla tomba”.

Il compromesso della party democracy è stato quello di realizzare la legittimazione della diseguale distribuzione di potere fra cittadini e classe politica, non solo tramite la connessione dal punto di vista elettorale fra l’élite, la membership e gli elettori, ma attraverso un processo di integrazione identitaria in grado di tessere la trama fra individui e gruppi, partiti e società, organizzazioni collaterali e governi.

La rottura di questo equilibrio chiama in causa il mutamento delle basi sociali della democrazia che attengono sia alle trasformazioni economiche delle società post-industriali, sia al modificarsi della cultura e dei valori. In particolare l’individualizzazione opera progressivamente come delegittimazione delle appartenenze collettive fondate sulla socializzazione alle ideologie e ai corpi intermedi della politica.

Da una parte si ha il venir meno della possibilità di votare al futuro, per un progetto di società in cui identificarsi e che legittima la diseguale distribuzione di potere fra governanti e governati. Dall’altra, in parallelo, si ha l’affermarsi dei processi di personalizzazione della politica e della leadership che creano le condizioni per cui la fiducia, risorsa imprescindibile per la stabilità del sistema, viene tributata a nuovi imprenditori della politica, leader personalizzati che divengono i principali “confidenti” delle masse proprio a partire dalla critica all’establishment tradizionale.

I partiti prendono sempre più la forma di semi-agenzie di Stato che operano in società in cui muta la forma dei legami sociali, ancor prima di quelli politici, e in cui i gruppi sociali diventano progressivamente pubblico, audience.

La frammentazione sociale, i percorsi individuali di formazione dell’identità politica, le nuove sfide portate dai processi di globalizzazione, minano in particolar modo i referenti sociali dei partiti tradizionali aprendo la porta a nuovi processi di polarizzazione. In particolare prende corpo il divario fra winners e losers della globalizzazione, con il crearsi di una frattura fra una élite in grado di orientarsi nei nuovi scenari sfruttando risorse personali e familiari di capitale culturale e sociale, e una parte crescente della società che è esposta agli effetti di un “assetto sociale anomico”, in cui gli individui risultano al tempo stesso massificati e atomizzati e come tali ricettivi alla politicizzazione del risentimento.

Questi ultimi costituiscono una eterogenea base sociale disposta a transazione fra diritti e protezione, fra qualità stessa della democrazia e politiche di sicurezza. Di fatto un’inversione rispetto alla società postmoderna descritta da Inglehart negli anni Sessanta e Settanta, in cui il bisogno di protezione sociale si salda con l’accrescersi del conservatorismo sui valori rafforzando i partiti di nuova destra.

A risultarne destabilizzata è stata in particolar modo la sinistra socialdemocratica che a partire dagli anni Novanta, con il New Labour di Blair e la Neue Mitte di Schroeder, aveva imboccato la strada della Terza Via, con l’apertura al mercato, il superamento del tradizionale welfare e la promozione di valori post-materialisti, infrangendosi di lì a breve contro le onde della globalizzazione e della crisi degli anni Duemila.

A fianco dei processi sociali occorre tener presente che anche le forme della politica e delle istituzioni si modificano progressivamente. Il problema delle democrazie avanzate non si risolve soltanto la crisi di governabilità dovuta al sovraccarico di domande sociali in conflitto individuate dal celebre rapporto di della Trilateral Commission redatto nel 1975, documento alla base della risposta delle élite neo-liberali alle crisi delle liberal-democrazie.

Partiti e istituzioni, nati e pensati nell’ottica del conflitto per il potere all’interno dello Stato-nazione, si confrontano con un ampliamento dei luoghi e degli attori delle decisioni politiche, con la depoliticizzazione e l’affidamento al settore privato di ampie parti dei servizi prima gestiti direttamente dalle istituzioni, così come con la devoluzione di potere decisionale a organismi tecnici o sovranazionali sottratti alla sfera della responsabilità democratico-elettorale.

Il simbolo di questo processo è l’Unione europea, costantemente fra il “già” di un attore istituzionale che avoca a sé parte rilevante delle scelte di governo, e il “non ancora” di una comunità politica al cui interno portare le forme del conflitto politico e della rappresentanza.

E così, mentre la dimensione economica, e in particolare la dimensione regolativa del mercato, vengono disancorate dal livello di governo nazionale senza offrire una base di legittimità – se non meramente procedurale – del progetto di integrazione europea, i partiti mainstream nazionali appaiono sempre più convergenti all’insegna della cartellizzazione, quella pratica “collusiva” formale o informale per cui la classe politica tende a de-differenziarsi e a difendere le proprie attribuzioni di potere contenendo le sfide potenzialmente disgregatrici dell’assetto tradizionale e avviando la stagione delle “grandi coalizioni”.

L’insieme dei processi descritti stravolge radicalmente il rapporto tra i partiti, che si muovono lentamente oltre le colonne d’Ercole dei sistemi politici europei post 1989, e la società, che invece accelera i suoi processi di trasformazione. La politica si espone a un vuoto di ricomposizione delle solidarietà orizzontali, e anche laddove si stabiliscono legami di tipo verticale, plebiscitario, con un leader personalizzato, permane il problema della “comunità politica”, ossia di un vincolo identitario e di appartenenza che resiste alla fortuna elettorale del singolo leader.

Il fenomeno della personalizzazione rientra a pieno titolo nella progressiva disintermediazione fra individuo e politica, sia nel processo di costruzione di un’identità politica attraverso un percorso individuale di esperienze, relazioni e informazioni, sia attraverso la relazione diretta fra l’individuo e il leader senza l’ausilio di corpi intermedi.

Un processo sociale e politico intensificato, non creato, dai media, e in particolare da quelle comunità virtuali disintermediate, o ad apparente disintermediazione, offerte dai social media. Inoltre, la personalizzazione come passaggio dalla rilevanza degli attori collettivi a quella degli attori individuali si accompagna al fenomeno della personalizzazione del potere. Il leader prende il posto del partito e il partito diviene corredo del leader, con la sostituzione della classe dirigente e dei quadri delle tradizionali organizzazioni attraverso staff professionalizzati meri esecutori della linea del “capo”.

Senza entrare nei vizi e nelle virtù della personalizzazione, e limitandoci a osservare con Weber che questa è una tendenza inarrestabile delle democrazie, vanno tuttavia osservati due aspetti: la personalizzazione della leadership non equivale a una democrazia senza i partiti e senza identità politiche, pur con organizzazioni diverse da quelle della democrazia di massa; la personalizzazione non stravolge l’assetto della liberal-democrazia, rendendosi compatibile e perfettamente aderente il passaggio da party democracy a leader democracy con le forme della democrazia rappresentativa. Il leader personalizzato muta la forma e la geografia di poteri dei partiti, ma si trova a proprio agio nella prospettiva degli sviluppi dell’elitismo democratico, sostituendo le élite di partito con il leader personalizzato.

La crescente tensione tra leader e classe dirigente tradizionale del partito può riflettere al tempo stesso una venatura populista del leader e una chiusura oligarchica della classe dirigente tradizionale, ed è tanto più acuita quanto la mancata riconfigurazione del perimetro di appartenenza del soggetto politico in questione non crea una circolazione dell’élite interna all’organizzazione, ma un gioco a somma zero fra “scalate” reciprocamente ostili.

Al tempo stesso la parabola della leadership personalizzata nelle liberal-democrazie europee che ha attraversato i principali partiti della famiglia politica popolare così come di quella socialdemocratica, non ha risolto la risposta della politica alla crisi di legittimazione dei suoi attori. In questo senso il fiorire dei populismi è un chiaro segnale di un deperimento dello stato di salute della democrazia rappresentativa in Europa.

C’è quindi qualcosa di più, o di diverso, che agita la società moderna globalizzata nel suo rapporto con la politica e che rende i leader sempre più soggetti a rapida consunzione, al pari di quanto avviene per le celebrities mediatiche. La personalizzazione della leadership non risolve di per sé la ri-articolazione di fratture sociali legate alle nuove forme di precarietà, al mutamento dei valori, all’indebolimento del ceto medio, alla mancata ridefinizione della connessione fra politica e società. Lo scettro appartiene al re, ma i regni hanno vita breve nella solitudine del potere monocratico di vertice.

Questo è il contesto al cui interno prende corpo il decadimento della qualità della democrazia di cui soffrono le democrazie avanzate e in cui si aggira il nuovo “spettro” della politica europea (e non solo): il populismo.

Un fenomeno di cui nel contesto della politica contemporanea è possibile individuare declinazioni diverse, fra cui una un populismo di protesta, ossia un populismo che si manifesta attraverso la politica di opposizione ai partiti dell’establishment, un populismo identitario che si salda a ideologie tradizionali, prevalentemente di destra, nel nome del sovranismo e della sfida alla democrazia rappresentativa, e infine una forma di “populismo dei politici”, un populismo soft espressione di uno stile politico fatto proprio anche da leader di partiti mainstream.

Benché sia pratica corrente nel dibattito pubblico ricondurre ogni forma di opposizione all’establishment a tale fenomeno, “populista” è spesso un epiteto arbitrariamente attribuito a partiti e leader da parte di avversari politici.

Prova ne è che raramente, se non per provocazione, il populismo rientra nell’auto-rappresentazione di una famiglia politica culturalmente coerente, dotata di una serie di policies definite e con una comune base sociale. Di partiti populisti, o neo-populisti, nelle democrazie europee si inizia a parlare negli anni Novanta per caratterizzare la nascita delle nuove destre radicali e delle loro forme di appello al popolo.

A livello verticale questo processo si avvale della costruzione di un’opposizione fra il popolo e le élite, mentre a livello orizzontale il confine del popolo viene tracciato in termini di esclusione dello “straniero”, di cui il “migrante” è la principale, ma non l’unica, reificazione offerta dagli imprenditori politici del populismo. Si tratta ovviamente di partiti diversi fra loro, per momento genetico, storia, leader, organizzazione e cultura politica.

Fra i partiti della destra radicale populista si spazia dall’Ukip protagonista della Brexit alle evoluzioni della Lega in Italia, dal FPÖ austriaco al Front National francese, dal fiammingo Vlaams Belang ad Alternativa per la Germania (AfD), oltre ad un’ampia serie di partiti del Nord e dell’Est Europa. Partiti sovranisti, ma lungi dal costruire una casa comune, basti pensare al loro differente posizionamento nel Parlamento europeo, al cui interno si dividono fra gli euro-gruppi dell’Europa della Libertà e della Democrazia Diretta, dell’Europa delle Nazioni e della Libertà, del Gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei e dello stesso Gruppo del Partito Popolare Europeo.

A completare la galassia populista, a partire dalla crisi del 2008, prendono forma nuove declinazioni di populismo, fra cui il “populismo di sinistra” di Podemos in Spagna, Syriza in Grecia, e più recentemente France Insoumise in Francia, a cui si aggiunge il caso italiano, la “terra promessa” di partiti e leadership populisti, la cui platea in un arco storico ventennale si estende dal tele-populismo di Forza Italia e Berlusconi fino al Movimento Cinque Stelle e alla Lega di Salvini.

Fenomeni diversi, con partiti e leader che sono tuttavia accomunati da una politica della disintermediazione, dal ricorso a un plebiscitarismo contrapposto alla mediazione dei corpi intermedi, da una concezione moralistica della politica, da un processo di costruzione sociale del popolo come comunità di difesa, dalla propensione alla teoria del complotto contro il popolo messa in atto dalle élite politiche, scientifiche, economiche, giornalistiche, etc.

Se non esiste un’ontologia del populismo, intesa come essenza che prescinde dai particolari processi di politicizzazione nazionale e storica del fenomeno, al tempo stesso si possono evidenziare due pilastri portanti dei partiti anti-partito populisti: l’anti-elitismo e l’anti-pluralismo. Non solo, quindi, l’opposizione alle élite, ma un progetto organico di rivisitazione della rappresentanza politica, in cui una sola parte (partito) è moralmente legittimato, in quanto espressione del popolo puro e incorrotto, mentre le altre parti (partiti) assumono la rappresentazione di un nemico che ne usurpa la sovranità.

Una concezione, quest’ultima, che sta alla base della democrazia illiberale e che, una volta al potere, interpreta la maggioranza al di là dei vincoli e del bilanciamento fra poteri dello Stato, evocando il popolo e il consenso come unica forma di legittimazione. Il populismo nasce e si sviluppa come estremizzazione della contro-democrazia, in cui il potere di sorveglianza, il potere di interdizione e la capacità di esprimere un giudizio sull’operato delle istituzioni, vengono snaturati facendone strumenti di delegittimazione del sistema.

All’establishment politico, così come al cittadino riflessivo e cosmopolita raffigurato dall’elettore dei “partiti delle aree urbane di pregio”, viene contrapposta la “sacralizzazione” del cittadino comune, il cui simbolo è il leader “uno di noi”, un outsider rispetto alle élite anche quando possessore di grandi ricchezze personali o anche quando egli stesso politico di professione.

Il populismo offre una forma di semplificazione dei legami sociali, uno schema cognitivo di lettura della realtà e un criterio di identificazione potenzialmente maggioritario: noi, il popolo moralmente buono che si batte per la difesa del patrimonio materiale e immateriale di un Heimat a rischio; loro, le élite, i partiti tradizionali, l’establishment, corrotto e auto-referenziale.

In conclusione, la sostanza della crisi dei partiti tradizionali è da ricercarsi in un processo più profondo che riguarda le premesse non mantenute di una democrazia che diviene mera procedura che regola il conflitto politico e il funzionamento delle istituzioni, mentre perde progressivamente la sua componente di progetto politico e di società che nel secolo della democrazia di massa era assolto dalle ideologie.

Lungi dall’essere l’approdo a un nuovo sistema politico stabile, il populismo appare come una nebulosa che per prosperare necessita di rendere la “crisi” una condizione permanente. In questo contesto, c’è un futuro per i partiti politici nella democrazia dell’audience, o la post-democrazia si presenta come unico orizzonte possibile dominato dalla crisi del primato della politica, stretta fra l’avanzata dei populismi e la dimensione sovranazionale dei flussi del capitalismo finanziario, dei fenomeni globali di rischio?

Ancora una volta l’intreccio fra modernizzazione e processi democratici propone una forma di “doppio movimento”, per cui mentre si afferma un sistema di mercato proprio dell’economia globale, la risposta della società sembra pericolosamente agitata da un contro-movimento populista che prospera nella debolezza della politica, con soluzioni che spostano la traiettoria di sviluppo della democrazia verso un modello post-rappresentativo. Uno Zeigeist irrimediabilmente ostile ai partiti?

Nonostante il superamento della party democracy, non per questo i partiti cessano di esercitare un ruolo non solo nelle democrazie, ma nelle stesse società contemporanee. Non si tratta di riportare in auge modelli di partito ormai consegnati alla storia, ma di osservare come senza partiti politici la qualità della democrazia subisca un’involuzione verso regimi politici in cui ad una iper-politicizzazione del popolo si affianca una de-politicizzazione della democrazia.

La democrazia e i partiti sono “corpi vivi” in continua evoluzione, la cui funzione rimane quella di calarsi nei nuovi scenari sociali e culturali, nazionali e sovranazionali, colmando quel vuoto in cui prospera il germe della post-democrazia populista. La democrazia ha ancora bisogno dei partiti, tanto quanto i partiti hanno bisogno di leader e classi dirigenti che siano in grado di leggere la società.

 

Ancora una volta il futuro della democrazia passa dalla presenza di “grandi partiti” o di “piccoli partiti”, tali non per il dato quantitativo della dimensione organizzativa, ma per l’obiettivo e la funzione che assolvono nella società.

Perché come scriveva Tocqueville ne La democrazia in America: «I grandi partiti rovesciano la società, i piccoli l’agitano; gli uni la ravvivano, gli altri la depravano; i primi talvolta la salvano scuotendola fortemente, mentre i secondi la turbano sempre senza profitto».

 

 

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