Un antidoto al marketing del rancore. Fede e immaginazione: Marilynne Robinson. A colloquio con la scrittrice statunitense [di Andrea Monda]
Osservatore Romano.it 29 aprile 2019. Marilynne Robinson, classe 1943, è oggi una delle più quotate e premiate scrittrici statunitensi, con il romanzo Gilead ha vinto il National Book Critics Circle Award nel 2004 e il Pulitzer Prize l’anno successivo, riconoscimenti meritati: Gilead è un grande romanzo, un inno alla vita, alla fede e alla bellezza del mondo («È un pianeta interessante, il nostro. Merita tutta l’attenzione che gli puoi dedicare» afferma il protagonista). L’opposto della fede per la Robinson è la paura; a questo sentimento ha dedicato un lungo articolo nel 2005 sulla «New York Review of Books» intitolato semplicemente Fear in cui ha affermato il paradosso per cui l’America da una parte è un paese cristiano, dall’altra che oggi è piena di paura, un sentimento che non è e non può essere un’abitudine mentale cristiana. Le abbiamo chiesto di provare a spiegare il suo paradosso e non si è tirata indietro, parlando con molta calma e altrettanta franchezza. «La parola “cristiano” può essere utilizzata in molte accezioni. C’è ad esempio il cristianesimo culturale, che osserva le abitudini della fede, ne sostiene le istituzioni e parla usando i suoi termini. Le persone che sono profondamente legate alle sue tradizioni e che l’abbracciano fortemente come identità possono sentirsi vincolate dai suoi insegnamenti, oppure no. Accogliere lo straniero, amare il nemico, porgere l’altra guancia o prestare senza pensare a ciò che si avrà in cambio sono tutti atti che comportano un rischio. Vanno tutti contro gli istinti di autoprotezione, che in genere sono considerati buonsenso dalle società, comprese quelle che si definiscono cristiane. L’assicurazione che accompagna tali comandamenti è che, osservandoli, compiacciamo Dio. Se crediamo nella realtà del Dio della nostra fede, ciò dovrebbe essere una speranza e una ricompensa in grado di prevalere su ogni altra considerazione. Essere capaci del coraggio al quale Gesù ci chiama significa essere cristiani in spirito e verità, e non semplicemente per identità o lealtà. Le persone a volte sono una cosa, a volte l’altra. Ma fede è un’altra parola per coraggio, e dove domina la paura manca la fede». Cosa è successo al grande paese cristiano degli Stati Uniti? Storicamente, di tanto in tanto le società che si definiscono cristiane sono vinte dalla paura e reagiscono in modo violento e irrazionale, ritenendo di difendersi contro la stregoneria, l’eresia o il cripto-giudaismo, per esempio. È questo il genere di paura che oggi sembra crescere in mezzo a noi. Alcuni politici, con le loro coorti e i loro simpatizzanti — e alcuni leader religiosi — hanno suscitato sospetto e risentimento nei confronti di minacce e nemici immaginati che considerano ostili al cristianesimo stesso. A volte le loro paure incoraggiano crimini contro gruppi che considerano una minaccia per il loro paese, la razza o la civiltà, cancellando ogni insegnamento di Gesù che vieta l’odio e la violenza. Non percepiscono l’ironia — parola troppo buona — perché si considerano difensori della fede. La paura diventa la loro religione. Nello stesso articolo lei riflette sulla paura e l’associa alla mancanza di fede e scrive: «Quanti dimenticano Dio, sola certezza della nostra sicurezza, in qualunque modo si voglia definire questa parola, possono essere riconosciuti dal fatto che danno risposte irrazionali a timori irrazionali». La fede può essere una risposta alla tentazione sempre presente della paura? Sì, la fede sarebbe la risposta, quando è reale. Laddove esiste davvero, crea integrità negli individui, una profonda lealtà verso Cristo che si realizza nell’obbedienza a Lui e nell’abbracciare la promessa di una realtà ultima, in cui tutte le nostre paure e i risentimenti non avranno spazio. La paura genera altra paura, eppure sembra essere un bel luogo in cui crogiolarsi; qual è il beneficio che la paura offre al cuore dell’uomo? La paura è uno stimolante, come tutti ben sappiamo. Può offrire una narrativa molto drammatica per strutturare la vita più comune: «ci sono persone che minacciano tutto ciò che mi è caro!». Questo può consentire alle persone di identificarsi in modo appassionato con la parte degli angeli, per così dire, senza lasciare la comodità del proprio salotto. Può dare loro una squadra della quale far parte, un’identità, sempre senza esigere niente da loro. È un’eccitazione facile, come un film horror, ma nella forma peggiore diventa una patologia. Nel saggio «When I Was A Child I Read Books» lei mette in relazione due termini, “immaginazione” e “comunità” e scrive che il fondamento della comunità si trova in un amore immaginativo per persone che non conosciamo affatto o conosciamo appena. Nel saggio «Ortodossia» Chesterton afferma che «La leggenda è fatta generalmente maggioranza, sana, degli abitanti di un villaggio; il libro è scritto, generalmente da quello, fra gli abitanti del villaggio, che è matto (…) Tradizione significa dare il voto alla più oscura di tutte le classi, quella dei nostri avi. È la democrazia dei morti». Per Papa Francesco è il racconto il fondamento del popolo, perché il popolo non è un fatto sociologico ma una realtà mitica. Forse è questo quello che manca oggi alla società occidentale, una grande narrazione? La nostra comunità nazionale sta vivendo tensioni come non ne ho mai viste prima. Queste rotture hanno messo in luce fino a che punto l’America è “una democrazia dei morti”. Washington, Jefferson, Madison, Marshall, Lincoln, eccetera sono tutti politicamente attivi al presente, e lo sono in modo considerevole per essere dei gentiluomini deceduti così tanto tempo fa. Che abbiano loro l’ultima parola, che i problemi importanti vengano risolti in un modo abbastanza soddisfacente per loro, è una questione di primaria importanza. Ci hanno lasciato un mito valido e duraturo. Persone che sembrano non avere alcun senso della storia e alcun rispetto della consuetudine ora gli fanno violenza. È già accaduto prima. Vedremo quanto continuerà a essere potente la nostra realtà mitica. Molti di noi l’amano profondamente. Il senso della gratitudine permea ogni pagina del suo romanzo «Gilead» in cui troviamo questa affermazione: «Secondo me l’esistenza è la cosa più straordinaria che si possa immaginare», eppure oggi secondo lei la comunità è messa a rischio dal “marketing del rancore”, a cosa si riferisce? Mi riferisco al fatto che il rancore ha trasformato il dibattito pubblico in una sorta di guerra tribale, quando invece la democrazia, nella sua essenza e nel suo spirito, è amore e identificazione immaginativi nei riguardi di una comunità con la quale, sovente e per molti aspetti, ci si potrebbe trovare in profondo disaccordo. Penso che questo marketing del rancore sia davvero una minaccia per la comunità. Le persone devono essere sensibilizzate al facile cinismo che intende privarle della speranza e della dignità e così privare la comunità del milione di benefici che giungono dal sostenere una convivenza pacifica e feconda. Le parole della scrittrice appaiono cupe, drammatiche ma si avverte anche una fiducia nascosta, una serenità di fondo che porta la Robinson a credere che tutto questo «sia una febbre passeggera», la stessa fede che ritroviamo nelle parole del protagonista del suo romanzo più famoso: «Il mio periodo buio, come lo chiamo, il periodo della mia solitudine, è durato la maggior parte della mia vita (…) Adesso che ci ripenso, mi dico che in tutto quel buio si stava preparando un miracolo. Perciò ho ragione a ricordarlo come un periodo benedetto, e a ricordare me stesso in fiduciosa attesa, anche se non avevo la più pallida idea di cosa stessi aspettando». L’ultima domanda è allora su Gilead, se può essere definito un inno alla misericordia? «Di fatto preferirei parlare di grazia. Misericordia implica una disparità: si mostra misericordia a un peccatore, a un criminale, a chi è in povertà. La grazia è un effetto dell’amore che può essere manifestato a chiunque in qualunque momento, anche, ovviamente, ai peccatori, ai criminali e ai poveri, ai fratelli e agli stranieri. E chiunque di loro può manifestare grazia nei tuoi confronti, poiché la grazia non richiede nient’altro che una piccola cortesia, una parola gentile. La capacità alla grazia è un dono universale che cresce nella misura in cui viene speso. Il suo tratto caratteristico è che non impone alcuna condizione, men che meno la penitenza. Ripaga se stessa, arricchisce chi la dona di un sentimento di libertà, poiché è spesso improvvisata, l’impulso del momento. Ed è sempre espressione di una profonda buona volontà che altrimenti rimarrebbe inespressa».
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Marilynne Robinson: sa prima borta chi lezo custu númene. Ma cundivido in prenu sas cunvintziones chi professat.
Su Bene
Su bene chi faghes
a sorres e frades
de donzi colore
est cussu sa paghe,
est cussu s’amore!
Su bene chi faghes
de prexu de paghe
ti prenat su coro,
prus durat e lughet
de prendhas de oro!
Ses Tue, Segnore,
su bene, sa paghe,
su prexu, s’amore,
Sa Vida ses Tue!