Sicurezza. L’emergenza per distrarre [di Antonietta Mazzette]
La Nuova Sardegna 4 maggio 2019. Sono note le polemiche sulle modifiche introdotte dal ministro Salvini al cosiddetto Daspo urbano – provvedimenti antidegrado e contro le illegalità, già adottati dall’allora ministro Minniti – e indirizzate in particolare ai prefetti della repubblica, ai quali verrebbero assegnati ulteriori compiti, quali quello di delineare le zone off limits (con allontanamento o divieto di accesso) ai soggetti considerati fonte di insicurezza urbana: ovunque si registrino “fenomeni antisociali e di inciviltà lesivi del «buon vivere» cittadino, particolarmente in determinati luoghi caratterizzati dal persistente afflusso di un notevole numero di persone, sovente in condizione di disagio sociale”. Con queste modifiche del “Daspo urbano” – espressione mutuata dalla giustizia sportiva – si amplierebbe il divieto di accesso (compresa la durata temporale) a diversi luoghi pubblici a una serie (assai variegata) di categorie di persone, dagli spacciatori e tossicodipendenti ai balordi violenti, dagli street vendors abusivi agli homeless, dai mendicanti ai disagiati sociali e/o psichici. Ma domando, in tema di limitazione della libertà personale, l’autorità che assume il provvedimento non dovrebbe essere abilitata a ciò dalla legge? La direttiva del ministro dell’interno, pertanto, non appare sufficiente perché il prefetto possa intervenire come il ministro pretenderebbe. Ma la direttiva inizia ad essere applicata, ad esempio a Palermo, per impedire a un pregiudicato di entrare nei locali pubblici del quartiere Zisa, in quanto considerato “soggetto pericoloso per la sicurezza pubblica”. Ora, al di là delle polemiche, varrebbe la pena sfrondare questo provvedimento dalle superfetazioni, al fine di capire in termini generali se si tratta di uno strumento utile ad accrescere la sicurezza urbana, oppure no. Ebbene, una prima perplessità riguarda l’effettiva efficacia dell’allontanamento, soprattutto quando le forze dell’ordine non hanno le risorse necessarie per controllare che il soggetto individuato come “pericoloso” o come elemento di disturbo, non reiteri il suo comportamento. Una seconda perplessità riguarda l’ampio orizzonte di categorie sociali che potrebbero essere considerate fonte di insicurezza, mentre in molti casi si tratterebbe di persone che non hanno un lavoro regolare e che cercano una fonte di sostentamento, presidiando le strade urbane con maggiori flussi: come, ad esempio, i venditori di fiori davanti alle sale di un Conservatorio, oppure i pulitori di vetri che stazionano agli incroci e vicino ai semafori. Costoro sono da considerare una fonte di pericolo? Oppure, sono persone che, per vivere, sono costrette a collocarsi nella cosiddetta economia informale? Una terza perplessità riguarda i luoghi meritevoli di “sicurezza” (le zone rosse) e quelli che invece non lo sarebbero: si pensi alle periferie dove si sono accumulati nei decenni gravi problemi sociali e di ordine pubblico, di cui le cronache hanno trattato anche recentemente, quali i conflitti razziali di Torre Maura a Roma. Potrebbero essere le stesse periferie di residenza di quanti verrebbero allontanati a tutela di particolari luoghi – per lo più di pregio -, secondo una logica di dislocazione della fonte di pericolo. Orbene, queste periferie non sarebbero meritevoli della stessa attenzione prevista per le zone rosse? Come hanno scritto molti studiosi, c’è un’iperbole della sicurezza urbana, all’insegna del carattere emergenziale, che costituisce una fattuale “distrazione” dai problemi strutturali che, questi sì, compromettono la vivibilità stessa (compreso il decoro) di molti territori e che non possono essere affrontati con decretazioni d’urgenza, bensì con pianificazione attenta, investimenti e coinvolgimento, anzitutto, delle comunità locali. Ovvero, qualunque atto di politica pubblica finalizzata a garantire forme di sicurezza ai cittadini, non ha bisogno di provvedimenti allarmisti, bensì di approcci “ordinari” alle politiche securitarie locali.
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