L’Europa dei piccoli egoismi [di Nicolò Migheli]
La Nuova Sardegna, 11 maggio 2019 La crisi dell’unità europea ha del positivo. Dal 1979, da quando vota per il Parlamento Europeo, è la prima volta che queste elezioni assumono l’interesse di quelle nazionali. Si voglia o no, la Ue è entrata nelle corde degli europei sia che la difendano o l’attacchino. I cittadini hanno finalmente compreso che l’istituzione sovranazionale determina la quotidianità di tutti. La virulenza dei comizi trova in questo una sua giustificazione. Purtroppo la Commissione uscente non si è differenziata molto da quella precedente di Barroso, è continuata l’acquiescenza alle linee politiche determinate dalla Germania e dalla Francia. Le scuse tardive di Juncker su come è stata trattata la Grecia hanno il sapore di una uscita elettorale più che la presa di coscienza che i dictat tedeschi finiscono, soprattutto nei Paesi mediterranei, per innescare una forte ostilità nei confronti dell’Unione. La Commissione è impedita nella sua autonomia dal Consiglio degli Stati membri che, alla fine, detiene il potere decisionale. Gli Stati sono attenti agli umori dei propri elettorati e più che cooperare vivono nella competizione. L’Europa come soggetto politico unitario è tutta da costruire e non può neanche contare su l’essere soggetto storico unitario. Quello ultimo risale all’Impero Carolingio di 1000 anni fa e neanche allora comprendeva tutti i popoli che oggi compongono la Ue. Le immigrazioni di massa, l’austerità, le regole imposte da una burocrazia percepita come sorda alle istanze nazionali, hanno agito da moltiplicatore del disincanto che trascende spesso in ostilità. I sovranisti non riconoscono che le responsabilità sono degli Stati e che la Commissione non fa altro che applicarle. Lo scontro oggi è su più Europa o più Stati nazionali. Contrariamente a qualche anno fa nessuno, se non forze molto minoritarie, vuole l’uscita del proprio Paese dalla Ue. Le difficoltà delle Brexit hanno agito da deterrente, lo stesso ritorno alle monete nazionali sembra uscito dall’agenda di quei partiti. “Poll of Polls” e Politico Europe.com monitorano costantemente le intenzioni di voto degli europei. Da quelle rilevazioni traspare che i nazional-sovranisti diventeranno la terza forza politica del parlamento con circa 130 seggi, a cui dovranno, forse, aggiungersi i 31 del neo gruppo creato dal M5S e alcuni dei 77 definititi Nuovi affiliati. I parti tradizionali: popolari, socialisti e liberali più En Marche di Macron, potranno contare su la maggioranza di 446 seggi. Su questi calcoli vi sono due incertezze. La prima: Fidesz il partito di Orbán, pur essendo di estrema destra fa parte dei popolari; questi per bloccare la deriva sovranista potrebbero accoglierne alcune istanze condizionando in senso reazionario la loro politica. La seconda: cosa sarà dei britannici? La posticipazione della Brexit consentirà il loro voto, però se GB uscirà dovranno abbandonare il parlamento e i loro seggi divisi tra i restanti. Se i numeri dell’indagine dovessero essere confermati nelle urne lo stallo dell’Unione perdurerebbe. I partiti tradizionali potrebbero essere restii ad ulteriori riforme in senso federalista per non dare argomenti ai sovranisti. Eppure senza fisco unico, unione bancaria, una politica estera comune, una legislazione unitaria sul lavoro con retribuzioni simili in tutta l’Unione, la disgregazione europea aumenterebbe. Ci saranno forse iniziative dei “volenterosi” come il Patto di Aquisgrana tra francesi e tedeschi – che mostra già i suoi limiti- ma non a una politica che rinsaldi l’Unione. Le differenze tra Stato e Stato potrebbero aumentare. Eppure nello scontro mondiale tra macro entità ogni paese da solo, compresi i più forti, diventerà vaso di coccio. Ultima considerazione tutta italiana. Il governo giallo-verde ha investito ogni sua speranza nel cambiamento degli equilibri europei in suo favore, ma resterà deluso. Su emigrazione e deficit, i sovranisti sono più intransigenti dei partiti storici, ognuno pensa solo al proprio interesse. L’ultimo anno lo dimostra. |