Hagia Sophia: chiesa, poi moschea, poi museo, presto di nuovo moschea [di Giuseppe Mancini]
Il Giornale dell’Arte on line n 397 – maggio 2019. Il presidente Erdoğan si era sempre detto contrario: ora è favorevole alla riconversione. Chiesa, moschea, poi museo. E adesso di nuovo moschea? Lo ha fatto intendere il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, in due interviste televisive prima delle elezioni amministrative del 31 marzo (conclusesi con un risultato negativo proprio a Istanbul e nella capitale Ankara per il partito di Erdoğan, presidente dal 2014 dopo essere stato primo ministro dal 2003; Ndr): Erdoğan non ha parlato esplicitamente di un ripristino come luogo di culto, ma ha rivelato la sua personale volontà affinché Hagia Sophia/Ayasofya torni a chiamarsi «moschea» e non più «museo», e che non ci sia più un biglietto d’ingresso. Ulteriori piccoli passi verso la riconversione? Già un locale interno al complesso è stato adibito alla liturgia e dai minareti si alza cinque volte al giorno la voce del muezzin. Le vicende del monumento più celebre e rappresentativo di Istanbul procedono in parallelo con i rivolgimenti politici nel corso dei secoli. Costruita nel 537 dall’imperatore Giustiniano, Hagia Sophia (la Chiesa della Sapienza divina) venne trasformata nella moschea di Ayasofya dal sultano Mehmed II subito dopo la conquista ottomana di Costantinopoli, il 29 maggio 1453: il simbolo del nuovo dominio insieme politico e religioso, che non distruggeva l’antico ma se ne appropriava per trarne legittimità dinastica e prestigio culturale. In principio, vennero eliminate le icone e le reliquie e aggiunti la nicchia che indica la direzione della Mecca (mihrab) e il pulpito islamico (mimbar), oltre a tappeti e una mezzaluna sulla cupola al posto del crocifisso. Ma non tutti i mosaici vennero intonacati (senza comunque danneggiarli): quelli dei livelli superiori continuarono a far mostra di sé fino al ’500 inoltrato. Ai due minareti di Mehmed II vennero aggiunti i due di Selim II, un secolo più tardi. Nel 1931, il Byzantine Institute of America ottenne il permesso da parte del Governo turco di svelarne e restaurarne i mosaici. Nel 1934, il presidente Mustafa Kemal Atatürk ne formalizzò la trasformazione in museo, così da preservarne la storia sia romano-bizantina sia ottomana: niente più preghiere, ma visite turistiche tenendo le scarpe e senza obbligo di coprirsi i capelli per le donne. Una decisione mal digerita dal movimento politico islamista, un gesto, nella loro interpretazione, che trasformava la chiesa-moschea in nuovo simbolo di vittoria: stavolta della Repubblica nei confronti dell’Impero defunto, della secolarizzazione nei confronti della religione. Da allora meditano la rivincita. Negli anni 2000, forti dell’ascesa del partito d’ispirazione islamica di Erdoğan ormai al Governo, gli islamisti hanno reso più pressante la loro richiesta: dai social network alle preghiere all’alba del 30 maggio davanti alla chiesa-moschea. Il presidente turco si era sempre detto contrario, fino alla fine di marzo: ma poi ha cambiato idea. Perché? Un po’ per le elezioni imminenti, soprattutto in risposta alla stretta di Israele contro la libertà di culto nella moschea di al-Aqsa a Gerusalemme e all’appello per una riconquista cristiana di Ayasofya da parte del terrorista islamofobo che, lo scorso marzo, ha ucciso quasi cinquanta musulmani in preghiera in Nuova Zelanda. Nel frattempo, sono tornate a essere moschee (dopo esser state per decenni musei) altre due Ayasofya già chiese, quella di Iznik (l’antica Nicea) nel 2011 e quella di Trabzon nel 2013. Sono aperte al culto, ma solo in aree delimitate; nelle altre si può circolare liberamente, come turisti. In quella di Iznik sono sempre visibili il pavimento in opus sectile e gli affreschi sopravvissuti; in quella di Trabzon durante le preghiere le immagini cristiane vengono coperte con un telo. È questo l’approccio che potrebbe essere seguito per la Hagia Sophia/Ayasofya di Istanbul?
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