Un nuovo inizio? Ma quando e quale? (1) [di Franco Mannoni]

Eleonora-dArborea

Pubblichiamo questa lunga nota di Franco Mannoni, per lungo tempo  figura di spicco nelle Istituzioni, pubbliche e private, della Sardegna. La nota è a metà fra diario e riflessione e ha l’intento che condividiamo di mettere in piedi o, almeno, di contribuire a un confronto sulla politica che ci riguarda, come democratici e come cittadini della Sardegna. La suddividiamo in tre parti per dare la possibilità a chi legge di una più agevole lettura. Grazie. (NdR)

Domenica 24 febbraio 2019. Oggi si vota per eleggere il nuovo consiglio Regionale della Sardegna. Dovremmo compiere questo atto di democrazia rifiutando orgogliosamente, per cominciare, le trappole dell’appartenenza a vecchie storie di politiche inghiottite dal vortice tumultuoso dei cambiamenti radicali succedutisi nel tempo della tecnologia e della comunicazione.

Un voto, tuttavia, non privo di riferimenti ideali né disancorato da valutazioni di carattere politico ed etico. Al contrario mai come oggi si avverte che le scelte debbano poggiare su principi che riguardano valori fondanti della convivenza, del rispetto dell’altro, della sua integrità fisica e della sua dignità. Per passare poi alle opzioni più vicine possibile all’idea che abbiamo dell’uomo e del mondo.

Tenendo presente che le elezioni non sono un test individuale sulla coerenza a una visione utopica della società, quanto il contributo alla determinazione del destino collettivo del popolo di cui si fa parte. Sono una forte espressione di volontà, manifestazione di ciò che possiamo e vogliamo fare perché le nostre comunità compiano un passo avanti o indietro. Mai mi è capitato di votare avendo di fronte definite con tanta nettezza le diverse visioni e confliggenti opzioni.

Comprendo, in base a questo ragionare, persino le scelte di quei cittadini che, alle scorse elezioni, hanno votato per 5 Stelle alla ricerca di un argine alla prepotenza di una globalizzazione dissipatrice per la protezione e sostegno alle aree e alle persone sensibili, fragili e trascurate. Capisco quelle scelte anche quando effettuate da elettori mossi da istanze sociali egualitarie, preoccupati di salvaguardare le moltitudini dall’impatto devastante degli schemi imposti dall’economia finanziaria, dalle rendite, dalle caste.

Li capisco anche quando sono fuorusciti dall’area elettorale tradizionale del PD e della sinistra, perché la deriva renziana aveva amputato quel partito del suo potenziale di tutela dei settori deboli in difficoltà e di sostegno a quelli meritevoli alla ricerca di condizioni di cimento. Il PD era esso stesso emigrato, con Renzi, verso il populismo o, per lo meno verso la cultura populista. Si pensi, ad esempio, alla linea delle rottamazioni e al suo esercizio parolaio.

Avendoli giustificati, pur nella mancanza di condivisione, ne capisco la delusione. Oggi in Sardegna le cose sembrano poter cambiare. Nel senso che, quali che siano i risultati, vinca Zedda o vinca il centro destra, possono cambiare i termini della lotta politica e dello stesso confronto sociale.

Durante la campagna elettorale è avvenuto ciò che altrove era mancato, ovvero il confronto netto, di massa, fra l’autoritarismo sbruffone e imbroglione di Salvini, che spinge il paese verso la rovina economica, la compressione delle libertà, delle autonomie e del pluralismo. Sull’altro versante un popolo democratico e autonomista, esso stesso sorpreso del nuovo improvvisato slancio innescato dalla candidatura di Zedda, ma animato da un rinnovato bisogno di convergere e ricreare le condizioni della competizione.

Vedo con realismo, all’interno di quest’ultimo schieramento, contraddizioni, velleitarismi, insufficienze politiche e di programma, come la persistenza di vecchie rappresentanze. Ma c’è, si è visto, un popolo che rifiuta con forza sia la proposta salviniana che appartiene alla più radicale destra italiana ed europea, come anche quelle dell’indipendentismo di maniera, che da un quinquennio all’altro conosce la breve ripresa di un fuocherello, per lasciare le cose come sono.

C’è una moltitudine fatta di tante brave persone, di amministratori locali eccellenti, di insegnanti, artisti, che crede e scommette su democrazia e autogoverno. Da questa comunità, comunque vada, si partirà martedì prossimo.

Martedi 26 febbraio e seguenti.  Non mi sento motivato, oggi, ad avviare ragionamenti sul risultato delle elezioni regionali. Troppe volte, nella mia non breve esperienza, mi sono imbattuto nella consueta ridondante valanga di analisi che seguono la divulgazione del risultato del voto. Prevalentemente il tentativo di analisi è appannaggio dei perdenti, che lo traducono in giustificazione della sconfitta, ai quali si aggiungono gli osservatori impegnati a scrutare i propri destini nel nuovo quadro. Mentre i vincitori tendono a celebrare il successo più che a indagarne le ragioni.

La tecnica di sezionare il capello è riservata agli sconfitti, che ad essa si dedicano con il preciso intento di esonerarsi da ogni responsabilità della sconfitta, il più delle volte attribuita alla sleale prepotenza dell’avversario, oltre che a circostanze imponderabili quanto incoercibili.

Per ciò ne faccio a meno, mi esimo dallo stiracchiare per un verso o per l’altro gli argomenti a sostegno di una parte, come se si trattasse di una coperta corta, destinata comunque a lasciare qualcosa scoperta.

Del resto, non sopporto più la supponenza dei titolari esclusivi del “ve lo avevo detto io”, depositari dei canoni sempiterni e indelebili di una verità riservata ai pochi. Preferisco inoltrarmi nella terra incognita della ricerca delle cause sottratte alle polemiche contingenti. Anche per superare la ristrettezza di analisi piegate al servizio di una polemica politica tutta giocata nella discussione sui mezzi e sulla tattica piuttosto che sui fini e sulle strategie.

Opzione, quest’ultima, che consentirebbe di considerare i fenomeni locali e particolari nel loro svilupparsi e discendere da crisi, cambiamenti e tendenze, positivi o negativi che siano, che hanno caratteri e dimensione generali, rappresentazione di trend a volte epocali.

Comunque non ci si può sottrarre a questioni che dalle cennate tendenze discendono in via diretta. Uno dei temi proposti riguarda il capire le ragioni per le quali in Italia la Lega cresce in maniera così significativa, pur non proponendo soluzioni all’altezza delle questioni che agitano i cittadini del nostro tempo. Esempi: crisi ambientale, migrazioni, nuove tecnologie e diminuzione del lavoro.

Tra l’altro, la grossolanità della proposta politica è gestita da una leadership grezza, invadente, insofferente delle regole costituzionali, faziosa, sprezzante delle regole di rispetto, tolleranza e educazione che sembrano, o sembravano, essere connaturate all’esercizio della democrazia.

Pensiamo a Salvini e il problema degli emigrati, Salvini e la legittima difesa, Salvini e il Parlamento, tutte partite nelle quali ha calato la spada di Brenno della sua cultura reazionaria. Eppure la sua ineleganza, la sua grossolana invadenza, il suo razzismo non gli impediscono, nel paese della presunta bellezza, di registrare consensi crescenti.

Il suo essere l’emblema del centralismo, nazionalismo, etnocentrismo nordista, non gli ha impedito di affrontare e vincere le elezioni in Sardegna, l’isola della lunga e sentita tradizione autonomista, nella quale si organizzano movimenti e partiti per l’autodeterminazione e il separatismo.

La maggioranza dei cittadini è con lui, forse lo era da prima e non lo sapeva, era con lui e non voleva ammetterlo, era con lui e non se ne rendeva conto. Vuol dire che è razzista e autoritaria? Che odia lo straniero e il diverso? Che non nutre solidarietà, ma egoismo e discriminazione, che è pronta a girarsi dall’altra parte alla vista della sofferenza? Probabilmente si, per lo meno in parte sì.

Non si tratta di difetti di pochi emarginati, ma dell’orientamento di una parte rilevante di coloro che stanno accanto a noi, che frequentiamo.  Ho cambiato bar, pescheria, panetteria, per evitare di sentir blaterare gestori e clienti contro i neri, contro i gay, contro i sindacalisti, contro Saviano e contro non so chi altro. Contro i politici, i parlamentari, i medici e gli impiegati della ASL. La sostanza è che il mondo non è diviso fra buoni e cattivi. Da un lato i buoni padri, buoni cittadini, buoni politici, e dall’altro quelli che siedono sui banchi dei cattivi. I bianchi, i neri! Sarebbe già un poco più semplice e facile, ma non è esattamente così.

La spaccatura, la divisione passa piuttosto all’interno di ciascuna persona. Ciascuno porta in sé pulsioni verso il bene e verso il male. Divise da confini fragili, comunicanti, sia pure in conflitto, fra di loro. Ciascuno porta in sé, cosciente o no, elementi di aggressività e di violenza. Reca persino nell’aspetto i segni di aggressività ataviche necessarie alla conservazione della vita che, con l’avanzare della civilizzazione, sono state riposte e coperte, ma non cancellate.

La civiltà, l’educazione, la convivenza organizzata, rendono innocua la bestia che si annida in noi. Regole scritte e altre non formalizzate attenuano lo spirito aggressivo, domato, ma non estinto. Secoli di progresso civile, la cultura dell’illuminismo e della democrazia hanno introdotto la regolazione dei conflitti secondo procedure di mediazione e di convivenza, persino di equità.

Finché l’involuzione del capitalismo e lo sviluppo senza progresso hanno messo in difficoltà l’applicazione di quelle regole. Quando globalizzazione e progresso tecnologico hanno fatto crollare, con i confini statuali, le condizioni di vantaggio dell’occidente, hanno aperto un campo di conflitti, nel quale svaniscono le condizioni e le basi sociali e culturali della convivenza.

Nella società della crescita erano ampi i margini di redistribuzione della ricchezza prodotta e per tenere viva l’affidabilità di un futuro di speranze. Gli alberi, certo, non stillavano latte e miele. Esistevano le diseguaglianze, esisteva il colonialismo e lo sfruttamento. Le condizioni di vantaggio del mondo occidentale erano tuttavia tali da consentire la continuità della crescita pur in presenza di dialettiche sociali capaci di garantire ai lavoratori buoni livelli di benessere e prospettive di sicurezza.

La crisi, così continuano a chiamarla, nascondendo un dato strutturale del capitalismo contemporaneo, consuma i margini di produzione di profitto, il cui recupero ha il prezzo di ulteriori restrizioni dei diritti e di compressione delle condizioni di vita.

La risposta dura quanto illusoria che viene fornita sta nel capovolgimento degli assetti sociali del novecento, nella riduzione del lavoro e della sua retribuzione, nell’instaurazione di politiche e governi populisti e autoritari. Che si avvalgono di tutto l’armamentario, nell’esperienza italiana in corso, dispiegato nella politica a egemonia populista salviniana.

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Nel tempo della precarietà e della paura per il futuro, del liquefarsi delle strutture sociali indebolite dall’imperversare del rischio come dato permanente dei destini individuali e collettivi, si affermano le tendenze che puntano alla difesa del proprio particolare. Si elevano e rafforzano confini, si indeboliscono gli istituti della rappresentanza democratica, cresce la capacità di controllo, sui governi e sulla società, da parte dell’economia finanziaria.

Si affermano nel senso che sono fatte proprie dalla maggioranza dei cittadini, fino a dar corpo ad una pericolosa egemonia della destra nazionalista, xenofoba, autoritaria.  La nuova egemonia prende consistenza attraverso l’utilizzo dei canali tradizionali della democrazia rappresentativa e per il tramite dei mezzi aggiornati della comunicazione di massa, particolarmente adatti a veicolare il messaggio semplificato e ambiguo del populismo.

Infatti una delle caratteristiche delle tendenze populiste di destra in atto è quella di giovarsi con competenza, abilità e profitto, dei social media di cui sono a volte gestori essi stessi.

Se non si colgono queste tendenze, si perde il senso di marcia di ciò che avviene con la crescita della destra salviniana in Italia. Che è proprio il frutto di una insorgente egemonia, ovvero dell’affermarsi di un ruolo guida della destra che si identifica con il senso comune prevalente nel popolo. Che si è aggregato come reazione al bisogno, alla precarietà, alle diseguaglianze, alla mancanza di prospettive di miglioramento.

Questa egemonia si nutre dell’iniezione di reincanto praticata dalla destra su un paziente, il popolo, alla ricerca dei miti che il declino della sinistra aveva disincantato. Ed è sostenuta dalla evidente convinzione dei suoi capi circa la natura partigiana del governo delle istituzioni che, di conseguenza, non si mascherano più nel politicamente corretto e si scatenano all’attacco celle vecchie élites.

Quale miglior bersaglio nel momento in cui queste ultime si sono presentate come operatrici dell’economia mondializzata e finanziarizzata, come supporter delle rendite e produttrici di diseguaglianza? Nel contempo, però, le linee della destra sono del tutto vicine, omogenee e funzionali proprio a quelle élites politico finanziarie alle quali dovrebbero, nelle loro affermazioni, opporsi.

Finestra 1

Leggo nei post di diversi, e non pochi, interlocutori sui social, l’evocazione del rivoltarsi nella tomba di alcuni trapassati capi “storici” (a proposito in questo caso, ma quanto abuso di questo aggettivo si riscontra in giro!) del Sardismo, insofferenti del tradimento delle origini perpetrato dal vincitore Solinas nell’allearsi con la Lega di Salvini.

Non vago intorno alle sepolture per cogliere indignati sussulti, ma, sia pure osando, direi che nessun particolare scuotimento risulta sia stato percepito nei cimiteri dove sono raccolte e onorate le spoglie.

La storia del PSdAZ ha visto adottare, da parte dei suoi dirigenti, orientamenti di alleanza di segno diverso nel tempo. Ai primordi dell’Autonomia regionale Anselmo Contu, esponente sardista di primo piano, fu eletto Presidente del Consiglio in alleanza con la DC e fino al 1965 i sardisti sostennero Giunte della DC.

Sia Giovan Battista Melis che Mario non si chiusero però ad accordi con la sinistra. Mario Melis ebbe la ventura di presiedere per un intero quinquennio, ‘84/89, una giunta formata con il PCI, PSI, PSDI e PRI, quando ancora non vigeva l’elezione diretta del Presidente della Giunta.

I Sardisti hanno sempre orgogliosamente affermato di anteporre l’interesse dei sardi alle logiche di schieramento proprie dei partiti italiani. Mario Melis divenne deputato europeo anche grazie all’alleanza con l’Unione Valdotain, ma non trovò alcun accordo con la Lega di Miglio.

Giacomo Mameli ha affrontato il tema delle alleanze sardiste con un appassionato e denso articolo su La Nuova Sardegna. Quasi una filippica, la sua, nei confronti di chi, sardista, vorrebbe ignorare le radici democratiche e di sinistra del suo partito. Cita esempi illustri, di rango elevato, la cui storia non contraddice, però, la valutazione di chi ha conosciuto i sardisti come forza che ha anteposto, al dato di schieramento, l’interesse dei sardi, e dei sardisti, a ottenere una adeguata rappresentanza per far emergere la loro politica oltre i ristretti confini della rappresentanza elettorale conseguita.

D’altronde, anche gli esempi citati, non chiudono il cerchio. Lussu stesso, il cui ricordo non è coltivato con pari devozione da coloro che anche oggi si richiamano al sardismo, una declinazione importante, ma parziale dell’idea sardista, tanto da distaccarsene per confluire, con il simbolo dei quattro mori, nel PSI.

La storia dell’Autonomia testimonia della presenza sardista nelle giunte regionali a egemonia democristiana negli anni che precedettero, in Regione, l’avvento del centro sinistra (1965). Sovente abbiamo visto i sardisti dar vita a variegate formazioni, di centro e di centro destra, nel livello regionale, nelle provincie e nei comuni.

 Per ciò credo che i sacelli che custodiscono le spoglie dei trascorsi capi sardisti non siano agitati da sussulti. Se non quello di Mario Melis, unico Presidente, finora, di una giunta di sinistra scaturita dall’inequivocabilità di una affermazione elettorale e da scelte a essa coerenti. (Prima parte).

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