Tra impotenza e ricostruzione di una egemonia: la sinistra intellettuale oggi [di Carlo Formenti]
MicroMega on line 14 giugno 2019 La maggior parte degli autori esaminati nel libro di Giorgio Cesarale (A Sinistra. Il pensiero critico dopo il 1989, Laterza, 2019), è priva di quella traducibilità politica che oggi serve per reinventare l’opposizione al neoliberismo. All’interno di questo panorama, l’unica via che prepara la ricostruzione del blocco sociale antagonista è quella di Laclau. Che ne è di una sinistra travolta da quella mutazione del capitalismo che, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, 1) ha cessato di generare ricchezza per tutti, negando alla sua controparte sociale ogni spazio di contrattazione del reddito; 2) ha prodotto élite dominanti che non si assumono più responsabilità civili, diversamente dalla vecchia borghesia; 3) ha sostituito all’universalismo illuminista e dialettico l’universalismo della ragione liberale; 4) si è intestato i valori del progresso e del riformismo “scippandoli” all’avversario storico; 5) ha regalato ai partiti populisti l’egemonia politica sulle masse; 6) ha svilito la democrazia, non più associata al dissenso organizzato e di massa ma al mero riconoscimento dei diritti umani attribuiti ai singoli individui? Partendo da tale interrogativo, Giorgio Cesarale costruisce un percorso (“A Sinistra. Il pensiero critico dopo il 1989”, Laterza) che, data per scontata l’impotenza delle sinistre tradizionali, incapaci di far fronte alle sfide sopra elencate, tenta di cogliere i sintomi del riemergere di un “pensiero critico” che, liberatosi di categorie, paradigmi e concetti obsoleti, esplora percorsi di emancipazione alternativi. In particolare, nei cinque capitoli del libro, l’autore esamina nell’ordine: le teorie che hanno ridisegnato l’immagine del capitalismo, svelandone i rapporti strategici con una serie di fattori esterni alla sfera dei rapporti produttivi (Wallerstein, Arrighi, Harvey, Streeck, Boltanski); i profeti della morte del potere sovrano e del suo luogo d’elezione, lo stato-nazione (Agamben, Negri); le nuove definizioni filosofiche della soggettività (Badiou, Žižek, Jameson); le vie d’una possibile rianimazione della democrazia (Balibar, Rancière, Laclau); la problematica generata dalla proliferazione delle identità (Butler, Fraser, Spivak). Il risultato è un’opera difficile da recensire. In primo luogo perché Cesarale, immagino per scrupolo di obiettività (intesa come distacco scientifico dall’oggetto di indagine), limita al minimo lo spazio dedicato ai propri giudizi soggettivi sul pensiero degli autori trattati, il che, se da un lato consente al lettore di appropriarsi autonomamente degli “attrezzi” che ritiene più congeniali al proprio modo di approcciare la realtà, dall’altro non agevola l’individuazione di percorsi trasversali fra autori e campi teorici. Poi perché i suoi corpo a corpo con le tecnicalità linguistiche di alcuni dei sistemi teorici analizzati, in ispecie quelli a più alto contenuto filosofico, ne rispetta fin troppo la specificità e le idiosincrasie, complicando il compito di valutarne la “traducibilità” politica, vale a dire la capacità di ispirare pratiche di opposizione al sistema neoliberista. Una traducibilità che, a mio avviso, svaria su un arco assai ampio: dall’assenza di qualsiasi reale carica eversiva, a un elevato potenziale di “pericolosità” politica. Formulando tale giudizio anticipo la via che intendo seguire per parlare di questo libro: mi sostituirò all’autore, sia nel valutare la reale portata critica dei discorsi da lui presi in esame (trascurandone la più parte per motivi di spazio), sia nell’individuarne le possibili contaminazioni reciproche. Parto da due autori che, a mio avviso, mentre si atteggiano a radicali reiventori di un orizzonte di sovversione comunista, restano ancorati alle più obsolete categorie del pensiero hegelo-marxista, con il risultato di sancire, più che smentire, l’atto di morte di una sinistra subordinata all’egemonia liberale. Mi riferisco a Badiou e Negri, i quali, pur nelle significative differenze fra i rispettivi sistemi di pensiero, compiono un secolare balzo indietro nel tempo, ripescando la vetusta teoria che associa il superamento del sistema capitalistico all’estinzione dello stato. In Badiou questa vis “antistatalista” assume toni particolarmente radicali, al punto da sostenere che la forma-stato – già in quanto mero principio di rappresentatività politica – è ontologicamente associata a un principio di repressione. Manca completamente, in tale visione, qualsiasi sforzo di declinare storicamente l’evoluzione della forma-stato, il che non stupisce ove si consideri il peso strategico che, come ricorda Cesarale, ha in Badiou la categoria di evento, per cui il superamento dell’esistente non è ricostruibile – sia pure a posteriori, come ammetteva anche l’ultimo Lukács – come esito dell’accumulo/intreccio di conflitti e contraddizioni, bensì come irrompere provvidenziale di un contingente che riscrive passato, presente e futuro. Di evento in evento verso il paradiso di una società armoniosa e depurata dai conflitti, appunto in grado di fare a meno della forma-stato. Allo stesso esito “anarchico” Negri approda per vie diverse, nel senso che, nel suo pensiero, il motore dell’estinzione dello stato è immanente allo sviluppo capitalistico. Certo, a sovradeterminare la direzione di tale sviluppo è, per Negri, la soggettività operaia (e le sue successive trasfigurazioni, dall’operaio massa alla moltitudine), ma ciò non inficia il carattere di un processo che resta tutto interno al capitale, che non ammette cioè alcun fuori di sé e conduce spontaneamente all’esito del comunismo (o del comune, come è oggi di moda chiamarlo). Il capitale, per Negri, nega marxianamente se stesso, si fa comunismo in ragione delle sue contraddizioni immanenti, a partire da quello sviluppo del general intellect che rende obsoleta e impraticabile la legge del valore lavoro. Il paradosso è che le comunistissime utopie negriane finiscono per specchiarsi in quelle di un neoliberismo che celebra la fine della sovranità nazionale come fine della storia, come quel definitivo e irreversibile trionfo del capitale anticipato da von Hayek. Passando all’estremo opposto, cioè al campo del pensiero critico che offre un reale contributo alla lotta politica contro il sistema neoliberista, credo che esso si articoli attorno a tre assi che percorrono trasversalmente le cinque aree disciplinari individuate da Cesarale: il primo è quello del riconoscimento della non autonomia – ai fini di garantire la continuità del processo di accumulazione – del modo di produzione capitalistico rispetto a una serie di attività esterne alle relazioni di mercato; il secondo coincide con la presa d’atto dell’irreversibile divorzio fra capitalismo e democrazia, il terzo con il tentativo di estendere la soggettività antagonista oltre i tradizionali confini del proletariato. I contributi relativi al primo asse si trovano soprattutto nel primo capitolo. In Wallerstein incontriamo la tesi secondo cui l’economia capitalistica non si fonda solo sul conflitto capitalisti/proletari ma anche su quello fra stati-nazione del centro e della periferia del sistema mondo, un conflitto centro/periferia che rispecchia la divaricazione dimensionale degli attori economici: le imprese dei Paesi del centro sono monopolistiche e tecnologicamente più avanzate. Ancora Wallerstein, ma anche e soprattutto Arrighi, spostano l’attenzione dal concetto di modo di produzione – che inspira la classica visione bipolare della lotta di classe – a quello di modo di accumulazione – che viceversa prende in considerazione l’eterogeneità delle relazioni economiche che possono contribuire ad accrescere il volume dei profitti. Harvey contribuisce a sua volta al cambio di paradigma attraverso il concetto di “accumulazione per espropriazione”, termine con cui descrive le rapine imperialistiche nei confronti di forme di vita e mondi esterni alle relazioni di mercato (per Harvey tali pratiche non sono caratteristiche di una specifica fase storica – quella della cosiddetta accumulazione originaria – ma sono un fattore permanente della riproduzione del sistema capitalistico). Infine Arrighi: 1) integra nel dispositivo di accumulazione capitalistica la funzione dello stato: il fenomeno dell’accumulazione resta incomprensibile finché non lo si esamina alla luce del combinato disposto tra stato e capitale; 2) libera l’analisi marxista del capitalismo dalle pastoie del determinismo storico: la finanziarizzazione che sta alla base delle attuali crisi sistemiche non è, secondo il dettato leninista, “fase suprema del capitalismo”, bensì fase che si ripropone ciclicamente ogniqualvolta un determinato ciclo egemonico – come sta oggi accadendo a quello dominato dagli Stati Uniti – giunge al tramonto. Lo spostamento dal concetto di modo di produzione a quello di modo di accumulazione (che per inciso potrebbe restituire attenzione nei confronti di autori che il marxismo ortodosso ha confinato ai margini del pensiero critico, come Luxemburg e Polanyi) spalanca un orizzonte del tutto nuovo all’indagine sulla soggettività antagonista. E, sotto questo aspetto, converge con contributi che vengono da altri ambiti disciplinari. E’ il caso di un’autrice come Nancy Fraser, la quale, partendo da un confronto critico con il pensiero femminista emancipazionista – in cui riconosce un potente alleato dell’egemonia culturale neoliberista –, allarga la propria visione fino a costruire un complesso modello della dinamica delle crisi capitalistiche che assume come centrali le contraddizioni che si producono al confine (anche qui l’attenzione si sposta verso l’esterno!) fra modi di produzione e modi di riproduzione, per approdare a una reintegrazione del femminismo nel progetto della rivoluzione socialista. È il caso, anche, di due autori come Boltanski e Chiapello, che riformulano il tema della non autonomia del sistema capitalistico come incapacità di autolegittimarsi sul terreno ideologico: per ottenere tale risultato il capitalismo è costretto ad appellarsi costantemente a risorse esterne, dalle quali dipende per costruire di volta in volta delle “ideologie”, intese non come sovrastrutture illusorie, ma come insieme di ragioni individuali e collettive per ottenere l’obbedienza dei dominati (in particolare Boltanski e Chiapello esaminano il caso dei valori antiautoritari e antigerarchici del 68, che il management di un’impresa capitalistica interessata a sviluppare un’organizzazione del lavoro più adatta alle nuove tecnologie di rete, ha abilmente saputo integrare). È, infine, il caso di Spivak, la quale, partendo dall’analisi dei conflitti sociali all’interno dei Paesi postcoloniali, propone di mettere il concetto di classi subalterne al posto di quello di classe operaia al centro della scena politica. L’esponente più significativo del secondo asse, quello del divorzio fra capitale e democrazia, è senza dubbio Wolfgang Streeck, ultimo erede delle Scuola di Francoforte nonché autore di una provocatoria analisi sulla natura del tutto contingente del matrimonio fra democrazia e liberalismo. Streeck va aldilà del concetto di postdemocrazia utilizzato da autori come Crouch, nella misura in cui sostiene che il fine del modo di produzione capitalistico – che era, è e sempre resterà l’accumulazione illimitata di profitti – è intrinsecamente incompatibile con le esigenze di un regime democratico che deve limitare tale fine per rispondere agli interessi e ai bisogni di una pluralità di soggetti sociali. Se questa compatibilità è sembrata possibile nel corso del trentennio succeduto al secondo conflitto mondiale, ciò è avvenuto solo in ragione della forza accumulata dai movimenti operai e per esorcizzare lo spettro di un sistema sociale alternativo incarnato dai Paesi del socialismo reale. Venuti a cadere questi ostacoli, la natura sfrenata dell’accumulazione capitalista è tornata a manifestarsi in tutta la sua violenza, travolgendo ogni resistenza. Alla convergenza fra il primo e il secondo asse si colloca la scaturigine del terzo, vale a dire la ricerca di nuove forme di soggettività antagonista. Mi pare che su questo terreno giganteggi – ove confrontato con quello di altri autori come Balibar, Rancière, Žižek e la Butler – il contributo di Ernesto Laclau. Alla fine di un percorso eclettico, che lo ha visto traghettare dal marxismo allo strutturalismo (con forti debiti nei confronti di Lacan più che di Althusser), senza tuttavia perdere del tutto l’aggancio con le radici originarie, Laclau è a mio avviso riuscito a costruire l’unico modello teorico in grado di rendere conto delle cause profonde dell’attuale esplosione populista. Superando le interpretazioni ideologiche e moralistiche del fenomeno (sistematicamente negativizzanti), Laclau vi riconosce l’effetto dell’incapacità del sistema di dare risposte differenziate alle varie domande sociali – capacità che costituisce il fondamento della democrazia liberale. In questo inedito contesto storico, le differenti domande finiscono per connettersi reciprocamente in una catena equivalenziale e, se una di tali domande riesce ad assumere un ruolo egemonico nei confronti di tutte le altre (cioè a incarnarle simbolicamente), ma soprattutto se nasce un movimento in grado di dare forma politica a tale egemonia, a costruire un popolo – definito dal confine dell’inimicizia che lo oppone alle élite dominanti – a partire da questa congerie di soggettività antagoniste, assistiamo all’emersione di un momento populista che può andare al di là sia della tradizionale alternativa destra/sinistra, sia dell’ascesa di nuove élite dirigenti al governo, fino a configurare un vero e proprio mutamento di sistema. Ciò che rende particolarmente potente l’analisi di Laclau, a mio avviso, è il solido riferimento al pensiero gramsciano (fondamentale anche per autori come Spivak) e soprattutto al concetto di egemonia. Gramsci, ben prima di tutti gli autori presi in esame da Cesarale, è stato infatti capace di estendere l’orizzonte del conflitto sociale al di là delle determinanti economiche, nella misura in cui nella sua idea di blocco sociale è contenuta in nuce quella di catena equivalenziale proposta da Laclau, nonché la consapevolezza della necessità di unificarne le diverse componenti sfruttando un adeguato cemento culturale-discorsivo. Non so in che misura Cesarale possa riconoscersi nel percorso che ho “scavato” dentro il materiale che il suo libro ci regala. Credo sia difficile, visto l’alto grado di tendenziosità che ha ispirato queste mie sintetiche riflessioni. In ogni caso, confido di avere reso giustizia alla perizia e al notevole impegno testimoniati dal suo accurato lavoro di ricostruzione delle peripezie del pensiero critico successivo al crollo del Muro di Berlino. Da tale punto di vista, credo che il suo libro rappresenti un’utilissima mappa concettuale per capire dove ci troviamo, a quasi trent’anni dal tramonto delle speranze suscitate dal primo grande assalto al cielo tentato dalle masse popolari.
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