Il deserto della politica sarda [di Alessandro Mongili]
È difficile ragionare dopo una serie così ravvicinata di sconfitte per l’indipendentismo e per la sinistra sarda, cominciate dalla sconfitta di Soru nel 2009, e finite con lo svanire nel nulla del “modello Zedda” e del progetto ADN. È facile dire che cosa – e chi – ha vinto in questo decennio di sconfitte. Ha vinto il ceto politico mediatore e clientelare di sempre, garante della continuità di un modo di governare, privo di visione e di strategia, ma attento alla conservazione e vorace di affari o di mediazioni vantaggiose. Al suo interno, hanno vinto i polli d’allevamento dei vecchi notabili, prevalentemente DC. Pronti a svendere la Sardegna a chiunque si faccia avanti, dagli Emiri ai generali con le stellette, e aggrappati alle aritmetiche delle clientele e dei voti controllabili. Che cosa è stato sconfitto, invece? È stata sconfitta l’idea che sia possibile migliorare la nostra condizione semplicemente governando meglio, razionalizzando pratiche e procedure. Un’idea nobile ma illusoria, perché ci sono nodi che non si possono eludere, e che sono strutturali. Si tratta dei nodi della dipendenza della Sardegna e delle pratiche politiche subalterne del suo ceto politico. L’idea del Bantustan ben governato, e magari con un proprio Stato “indipendente”, si è infranta sulla realtà. L’idea di Sardegna come Bantustan ben governato ha accomunato infatti esperienze apparentemente così diverse come la Giunta Soru, Sardegna possibile, le Giunte Zedda a Cagliari, la Giunta Paci-Pigliaru, Autodeterminatzione-Muroni e ADN-Rossomori+Lìberu? Non si tratta forse di esperienze diverse, che si sono poste spesso come concorrenti le une con le altre? Indubbiamente così appare. Ma se le cose si osservano con minore superficialità appare un paradigma comune e un’unità di fondo che unisce tutte queste esperienze e spiega molte convergenze, al di là del trasformismo dei loro minimi protagonisti, rappresentabile da due elementi che provo a sintetizzare. Per finirla con la modernizzazione imitativa. Il primo è legato una sorta di riformismo ingenuo, una visione che indipendentismo e sinistra hanno condiviso. Contrariamente all’elaborazione di Gramsci, che vedeva con chiarezza come il principale problema della Sardegna fosse la disuguaglianza, insieme di classe e coloniale, e la subalternità culturale e morale della popolazione, e quindi la necessità del conflitto e della dialettica politica, dal Secondo Dopoguerra in poi l’idea dominante nella sinistra e nell’autonomismo è stata quella della modernizzazione necessaria e del superamento dell’arretratezza della Sardegna, causato dalla propria “natura” e non, per esempio, da qualche secolo di spietato dominio coloniale, a cui si è accompagnata la pratica politica consociativa. Questa idea si è espressa nei termini di nazione abortiva, di popolazione caratterizzata dall’atavismo, di arretratezza, di luogo senza storia, senza città o senza industria – insomma, di sfiducia profonda verso la nostra capacità di farcela. In questa visione l’effetto (l’arretratezza) ha preso il rango di causa, sostituendo con ragioni astoriche, mitologiche e/o ontologiche (il carattere dei sardi, la loro mentalità, la loro supposta “identità”) quelle storiche (la “scelta della Patria” italiana delle élite modernizzatrici sarde sin dall’inizio dell’Ottocento, le politiche di dominio, estrattive, di emarginazione costante dello Stato italiano, ecc.). Questa idea ha legittimato progetti politici di miglioramento dell’economia attraverso l’importazione di modelli esogeni, spesso sostenuti da capitali e organizzazioni esterne, evitando di mettere in crisi le gerarchie sociali e quelle di potere esistenti, il vero nodo della nostra subalternità. Sebbene l’indipendentismo abbia prodotto una critica serrata all’idea della sinistra e dell’autonomismo che ho esposto, nella sua azione politica ne ha adottato programmi e, addirittura, candidati presidenti, come si è visto nei casi dei tre candidati di liste indipendentiste alle ultime elezioni RAS, tutti e tre di origine autonomista e non indipendentista. Dunque, raramente si è parlato di empowerment dei Sardi, di far fiorire la nostra peculiare civiltà, o di rovesciamento delle strutture di dominio e di controllo, di lotta alla povertà e allo sfruttamento, mai si è visto nelle nostre strutture produttive o nella nostra economia tradizionale una base da cui partire per migliorarle e creare noi la nostra modernizzazione. La sinistra e gli indipendentisti hanno preferito inseguire miti yuppie come l’innovazione, le start-up, il culto degli imprenditori, l’idea di “mettersi in competizione”, magari con la Silicon Valley. Un’idea totalmente ingenua, anche perché priva di capitali e di progetti di investimento adeguati. Si tratta, se si prendono uno per uno, di elementi in sé positivi, ma insufficienti o addirittura ideologici, se non si affrontano per le corna le strutture profonde della dipendenza, insieme politiche, infrastrutturali, economiche e culturali, e se non si pensa la modernizzazione della Sardegna non in opposizione alla nostra civiltà, ma come un modo di farla – al contrario – finalmente fiorire. La modernizzazione e la trasformazione della Sardegna in un’Estonia, o in una terra di investimenti qatarioti, a seconda di orientamenti o mode, è parsa una prospettiva più affascinante che l’individuazione di percorsi, anche creativi, per affrontare e risolvere i nostri problemi partendo dalla nostra situazione concreta. Che però occorrerebbe studiare sul serio, non brandendo – nella migliore delle ipotesi – dati raccolti chissà come e in base a chissà quali principi di classificazione. Nessuno è contrario alla modernizzazione, ma l’idea che in Sardegna essa sia possibile solo se esogena, imitativa, e non legata ai nostri bisogni, alle nostre capacità, e almeno in gran parte sotto il nostro controllo politico, è un’idea tipicamente coloniale e razzista. Essa parte dall’idea che i Sardi non possano farcela da soli perché ancorati ad atavismi e a un’identità pittoresca ma che riflette una tradizione ostile a ogni progresso. È l’idea di ogni colonialismo ed è l’idea buttata a mare da molti popoli che hanno intrapreso la loro strada indipendente. Nel mondo, tutte le modernizzazioni esogene si sono risolte in catastrofi e in maggiore dipendenza e sottosviluppo, come noi stessi abbiamo sperimentato grazie alla tragica “Rinascita” che avrebbe potuto segnare il punto finale dei tentativi di modernizzazione esogena, e invece no. No, perché è il modello della dipendenza e della “scelta della patria” italiana, quello che sembra convenire alle élite locali che si vogliono modernizzatrici, ma che poi finiscono sempre malissimo, con tutte le loro proprietà in vendita a stracu baratu, dai terreni chiudentati alle ville al mare, e con la rovina del loro prestigio sociale. Gli spettri e i fantasmi dell’indipendentismo e della sinistra sarda. L’indipendentismo e la sinistra sarda, due radici politiche che avrebbero dovuto convergere invece che frammentarsi in mille rivoli, hanno preferito alimentare spettri e fantasmi piuttosto che investire in un ceto politico serio e preparato, e affrontare i problemi della condizione sarda per risolverli. Spettri e fantasmi abbondano, infatti. Su un versante è un profluvio di Cube, Kurdistan, Catalogne, Estonie e Malte da copiare. Sull’altro battagle di facciata per diritti civili in realtà mai assunti, soluzioni urbanistiche di scarso pregio ma chissà perché esaltate, razionalizzazioni contabili e scelte antipopolari manco fossimo nell’Inghilterra di Thatcher e non nella Sardegna a dieci anni dalla più grande crisi economica del Dopoguerra, e di fronte a un esodo quasi totale e drammatico della gioventù istruita e capace. In realtà una via d’uscita c’era, ed era quella che la Giunta Soru conteneva al suo interno, con mille problemi e altrettanti errori. Si trattava di affrontare i problemi della condizione della Sardegna, uno per uno e attivando competenze e serietà. E qui veniamo al secondo elemento, cioè la pratica politica arruffona e la scarsa qualità degli esponenti politici. I politici, privi di competenze ma non di vanità, nel loro insieme non sono riusciti a far crescere un ceto politico adatto a un’impresa così complessa come quella che dovrebbe attenderci. Le competenze non sono molte in Sardegna e nella nostra diaspora, ma esistono. Sarebbe stato possibile mobilitarle e inserirle in un quadro di scambio e di apertura che però è stato difficile attivare perché i gruppi politici indipendentisti e della sinistra non riescono a superare la struttura settaria, autoritaria e proprietaria che ne accomuna le organizzazioni, se così vogliamo chiamare questi gruppi di amici e, spesso, parenti. Questo si è rivelato difficile anche per la loro scarsa cultura democratica che si manifesta drammaticamente nell’ostilità da vicinato di paese a ogni critica e a ogni dibattito aperto, senza il quale non esiste però democrazia. Nella sinistra e nell’indipendentismo non esiste infatti un dibattito libero. Se Pigliaru e Zedda stigmatizzavano i loro critici come “invidiosi” o “rosiconi” (di che cosa non si capisce, forse del loro fallimento epocale), nei gruppuscoli indipendentisti esiste il culto di capi privi di ogni qualità politica e con scarsissimo uso di mondo, ma inflessibili nel controllo delle opinioni e sensibilissimi a ogni critica, con degli ego talvolta imbarazzanti per presunzione e per totale assenza di qualità che possano avere un senso fuori dalla làcana de bidda. Sembra che perseguano l’eutanasia dell’indipendentismo perché forse, come scrisse Giulio Angioni, in realtà la Sardegna la odiano. E i sardi, perché avrebbero dovuto votare un ceto politico di scappati di casa, di semi-istruiti, di non-leader morti di fama, che non vivono se non per la prossima conferenza stampa? Perché avrebbero dovuto votare, a Cagliari, una compagine quasi interamente di figli-di ma senza lavoro, intasata di genitori che neanche Anna Magnani in Bellissima? Una compagine chiusa a ogni critica e in arrogante continuità con un’esperienza rispetto alla quale le elezioni regionali avrebbero dovuto suonare l’allarme? Perché a Sassari avrebbero dovuto votare l’ulteriore candidata non indipendentista e analogo radicaloide da salotto del mainstream della sinistra peggiore di Sardegna, scollegata dai problemi reali e chiusa ad ogni ascolto? In che cosa le giunte Pigliaru e Zedda hanno migliorato la condizione dei Sardi e dei cagliaritani? Non parlo dei Cinquestelle per spirito di pietà verso di loro. In Sardegna esprimono un livello così mediocre di ceto politico, che anche un radar molto avanzato non riuscirebbe a intercettare segnali di vita interessanti. L’alternativa è una sola, assumere i nostri problemi seriamente e lavorare per affrontarli e risolverli, come prioritari rispetto ai fantasmi ideologici. Quindi studiare, mettersi all’ascolto delle persone e dei loro problemi (e delle loro proposte di soluzione); rigettare in modo radicale l’idea che l’unica modernizzazione possibile sia quella esogena perché “in noi c’è qualcosa che non va” per misteriose ragioni identitarie, o genetiche, o di altra indimostrata natura essenzialista e/o ontologica; assumere forme di iniziativa politica autenticamente democratiche, aperte, contendibili e, appunto, indipendenti da quelle tipiche dell’Italia, il paese del fascismo. Purtroppo, non vedo però quali energie siano disponibili in Sardegna per un programma simile perché ormai il rischio è che qui rimangano solo i vecchi, i disperati, e gli ignoranti.
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