Popolazione in calo: nuove politiche [di Antonietta Mazzette]
La Nuova Sardegna 5 luglio 2019. L’ultimo bilancio demografico dell’Istat è impietoso. La popolazione italiana diminuisce inesorabilmente, è sempre più vecchia, con meno bambini (si registra il minimo storico dall’Unità d’Italia) e, per la prima volta da circa un secolo, è ufficialmente in fase di declino. Basti pensare che, in neppure cinque anni, è come se fossero scomparse in un colpo solo le città di Firenze e Bologna, o tre città come Venezia, Messina e Brescia. Il saldo naturale della popolazione complessiva, scrive l’Istat, è negativo ovunque, tranne che nella provincia autonoma di Bolzano. E ciò non è casuale perché Bolzano si colloca stabilmente ai vertici delle graduatorie nazionali ed europee in termini economici e lavorativi, di sostenibilità ambientale, di elevati livelli di benessere, oltre che di standard di civicità altrettanto elevati. Il declino è rallentato leggermente grazie ai flussi migratori, senza i quali il piano demografico sarebbe decisamente più inclinato. Ma il declino non è omogeneo nelle diverse aree del Paese. Le regioni del Mezzogiorno sono quelle che registrano maggiore sofferenza “ascrivibile presumibilmente sia a saldi naturali negativi (più morti che nati), sia a una minore attrattività migratoria e a una maggiore capacità espulsiva rispetto ad altri contesti”. La Sardegna si colloca dentro questo contesto negativo, anche perché è un territorio dove l’invecchiamento della popolazione è più accentuato che altrove. Eppure, anche nel caso sardo, i dati non sono omogenei e si differenziano a seconda delle specificità territoriali e del livello di produttività del lavoro, ad esempio, di quello nel settore turistico. Ecco che comuni come Olbia, Arzachena e Golfo Aranci registrano maggiori segni di vivacità demografica rispetto a quasi tutti i comuni delle aree interne. A ciò si aggiunge l’emigrazione dei giovani, in particolare dei più acculturati. L’Italia ha attraversato una lunga storia di migrazioni interne, in particolare dal sud verso il nord e dalle aree rurali verso quelle urbane. Dette migrazioni hanno contribuito sia alla redistribuzione demografica (quando le popolazioni del sud erano più prolifiche di quelle del nord), sia allo sviluppo economico delle aree “ospitanti” ma anche di quelle di provenienza, in virtù del rientro delle rimesse degli emigrati. Ma già sul finire degli anni ’80 queste rimesse hanno smesso di confluire al sud, così come è cambiata la direzione degli spostamenti, anche se continua a rimanere vitale la traiettoria sud-nord Italia. Recentemente queste migrazioni infra-regionali hanno assunto caratteristiche nuove. A spostarsi sono giovani adulti con un livello d’istruzione medio-alta: nell’ultimo decennio sono andati via dalle regioni del Mezzogiorno “483 mila giovani di 20-34 anni”, di cui oltre il 40% in possesso di una laurea. Il trasferimento verso altri Paesi (soprattutto europei) ha assunto uguali caratteristiche e ciò riguarda persino regioni ricche come la Lombardia, anche se il bilancio delle migrazioni interne e verso l’estero continua ad essere complessivamente positivo per il centro-nord, mentre è totalmente negativo per le regioni del sud. I nostri governanti dovrebbero trarre insegnamento da questi dati. Anzitutto, adottando politiche rivolte alla famiglia e creando le condizioni perché i nostri giovani diventino anche per l’Italia una risorsa economica, così come lo sono per molti altri Paesi anche extra europei. In secondo luogo, elaborando interventi mirati che partano dalla conoscenza delle specificità territoriali, vista l’alta variabilità tra le regioni e a livello locale in termini di produttività e lavoro. In terzo luogo, cercando di essere lungimiranti nelle politiche di accoglienza degli immigrati, non per “buonismo”, ma perché potrebbero essere loro a pagare le nostre pensioni. I nostri governanti useranno con proficuo questi dati e smetteranno di fare propaganda? Considerate le dichiarazioni di taluni ministri presenti assiduamente sui social, non nutro molte speranze. |