Barca: “Serve un capitalismo partecipativo per fare cose concrete. Come assumere 550mila giovani nella pubblica amministrazione” [di Gea Scancarello]

FABRIZIO BARCA

https://it.businessinsider.com/fabrizio-barca-bisogna-costruire-un-capitalismo-partecipativo-e-fare-cose-concrete-come-assumere-550mila-giovani-nella-pubblica-amministrazione/7/10/2019. La libertà, diceva Giorgio Gaber poco meno di 50 anni fa, non è stare sopra un albero, e non è nemmeno uno spazio libero: libertà è partecipazione. Oggi si potrebbero invertire i termini dell’equazione: partecipazione è libertà. Di capire, conoscere, decidere. Di costruire una società diversa, magari più simile a quella suggerita negli slogan che hanno riempito le città, e le speranze, durante gli scioperi per il clima.

Ed è proprio da qui, da una sistematizzazione della strada partecipativa, che Fabrizio Barca suggerisce di partire. L’economista, già ministro della coesione territoriale ai tempi di Mario Monti e presidente del Comitato per le politiche territoriali dell’Ocse , da cofondatore del Forum Disuguaglianze e Diversità ha trascorso gli ultimi anni a girare il Paese e a confrontarsi con la cittadinanza, per proporre soluzioni concrete che non solo avviino una volta per tutte la riduzione della disuguaglianze, ma che mettano in moto le trasformazioni necessarie a quella riforma del capitalismo che pare infine essere diventata inevitabile anche per molti  liberisti.

Un modo per superare l’impasse perenne, la chiacchiera vuota, le proposte calate dall’alto e usate più come strumento di consenso che come mezzo di trasformazione. Alle quali nessun governo, nemmeno quelli nati “per salvare il Paese”, riescono a sottrarsi.

Il refrain è sempre lo stesso: lo Ius soli regala punti agli estremisti, la carbon tax penalizza gli allevatori, la sugar tax colpisce le famiglia, e via discorrendo. Succede ogni volta che viene proposto un provvedimento: come si riesce a varare misure nuove, a volte necessarie, senza nascondersi dietro alle scelte obbligate?

“Intanto diciamoci una cosa: non esiste un popolo e non ci sono cose che vanno bene per tutti. Ci sono tanti popoli, con interessi diversi, dentro al popolo, per cui non esistono soluzioni in sé armoniche. Chiarito questo, diciamo anche che ci sono nemici di ogni idea e di ogni proposta. Dire che “non ci sono alternative” è falso: ci sono sempre alternative, si possono fare certe cose o altre. In democrazia, però, le soluzioni devono necessariamente derivare da un confronto acceso, informato, aperto. Che preceda le decisioni, non che venga dopo”.

Il dibattito, come si usava dire una volta.

“Se vuoi toccare i meccanismi di formazione della ricchezza, di formazione della salute, di formazione del potere del lavoro nei confronti dell’impresa devi entrare in dinamiche che hanno persone favorevoli o sfavorevoli. Oppure, nel caso di misure importantissime come quelle per contrastare il cambiamento climatico, devi sapere che avranno effetti sociali, e devi misurarti con questi effetti sociali.

Non si possono liquidare le decisioni dicendo che saranno utili nel futuro: qualcosa come ‘Butta via la macchina vecchia, anche se non puoi permettertene un’altra, perché altrimenti domani il tuo quartiere sarà spazzato via’. Bisogna invece contemporaneamente produrre subito, oggi, un miglioramento delle condizioni sociali, cioè costruire proposte che sodddisfino entrambi gli obiettivi: la giustizia sociale e quella ambientale. Per farlo bisogna discutere. E non sto entrando nel merito dei provvedimenti sul clima, che non conosco: dico che metodologicamente non si tirano fuori dal cappello delle proposte”.

 A proposito di clima, in questi giorni di manifestazioni parecchi cartelli recitavano: “L’ambientalismo senza anticapitalismo è giardinaggio”. L’idea è chiara: bisogna ripensare alcune cose del sistema. Eppure la parola “anticapitalismo” è vaga, e il concetto fa paura.

“In quel cartello c’è già una indicazione di lavoro precisa: ragionare sui limiti della stessa idea di antropocene, cioè che la situazione attuale sia “colpa” dell’essere umano. La verità è siamo in questa situazione per colpa dell’essere umano inserito in un sistema che non va. Ne deriva che non basta immaginare che, così come ha distrutto il clima e il pianeta, l’uomo a un certo punto scoprirà delle soluzioni tecnologiche meravigliose per ripararli. L’essere umano deve invece riuscire a mobilitarsi per modificare alcuni meccanismi fondamentali di funzionamento del capitalismo. Il capitalismo può essere malleabile, può essere costretto a trasformazioni radicali al proprio interno costruendo delle isole di non capitalismo all’interno del sistema: come il movimento cooperativo, o il mutualismo”.

 Il tema della riforma sta diventando popolare, tanto da finire sulle pagine del Financial Times.

“Fa un po’ sorridere che abbiamo bisogno che arrivi Wolf sul FT a dire che la massimizzazione del valore delle azioni è un errore, un errore che può essere disruptive per il capitalismo stesso, quando sono venti anni che ne parliamo! Quello che bisogna fare lo dice benissimo lo slogan su quel cartello: cose che vanno dall’evitare che i figli ereditino e poi distruggano imprese solo perché non ci sono più tasse ereditarie progressive, al riconoscere che l’accumulo della ricchezza realizzato da una persona è in larga misura ottenuto grazie al contributo dei lavoratori e della società che ha realizzato investimenti pubblici, e che quindi una larga parte di quella ricchezza deve tornare alla società. Va detto peraltro che queste sono due affermazioni liberali, molto poco anticapitaliste, ma sono corrosive di quello che il capitalismo è diventato”.

 Cos’altro si potrebbe fare, in concreto, subito, per riempire di senso quello slogan?

“Una cosa concretissima: investire per il reclutamento dei 500 mila giovani che dovranno entrare nei prossimi cinque anni della Pubblica amministrazione per rimpiazzare quelli della mia generazione, e che diventeranno il 15% dell’intera forza lavoro. Se non si investe in loro, non si arriverà a nessuna misura né per l’ambiente né per il sociale. E questo perché non si tratta di misure che si decidono solo in parlamento: il parlamento dà il principio, ma poi le decisioni devono essere attuate. In ogni Comune, ogni Regione e ogni Provincia, attraverso un confronto con i cittadini”.

 La cittadinanza è pronta per questo cambiamento, di metodo e di sistema? Un altro refrain tipico è: “Questo Paese non cambierà mai”.

“La domanda è molto difficile, perché la verità è che siamo tutti divisi in due. Una parte di noi vuole convincersi che è possibile il cambiamento, e quindi capisce non solo di dover compiere atti individuali coerenti, per esempio fare bene la raccolta differenziata o cercare di eliminare la plastica, ma sente anche il bisogno di una risposta collettiva, perché le risposte  – in fabbrica, in periferia, nei piccoli o grandi centri – vanno costruite insieme. Però esiste anche una parte di noi che è sconsolata, che pensa che non ce la faremo. Si tratta di capire se ci sarà un consolidamento, un precipitato, da una parte o dall’altra”.

 Il governo dovrebbe aiutare a dare fiducia, a consolidare una sensazione di possibilità. Le sembra possibile?

“Il governo non ha una strategia, questo è palese. E mi risulta che il presidente del Consiglio sia lo stesso del precedente. Detto questo, complessivamente c’è un miglioramento della qualità della persone, e non solo perché è uscito il capo della dinamica autoritaria in Italia, ma perché in diverse posizioni ci sono persone di grande qualità. La speranza è in loro e non nel governo in quanto tale”.

 Cosa dovrebbero fare, per dimostrare se non di avere una strategia almeno di avere una direzione? Ci dica due cose prioritarie.

“Punto primo: scegliere due missioni strategiche, dentro l’alveo della giustizia ambientale e della giustizia sociale – che in un Paese serio tra l’altro vogliono dire anche competitività – e costruire su di esse. Secondo punto: il piano di assunzione di 500 mila giovani della pubblica amministrazione di cui parlavamo poco fa. Capiamoci: questi giovani li stiamo assumendo comunque, alla chetichella, ogni giorno. Alcune piccole amministrazioni stanno facendo miracoli: ci sono Comuni, pezzi di Regioni e persino pezzi di Stato centrale che grazie alla testa di un direttore generale o di un ministro realizzano cose straordinarie.

Complessivamente, però, stiamo assumendo questi giovani senza un criterio. Non ci serve la solita, ennesima, riforma della Pa. Ci servirebbero invece i fratelli e le sorelle maggiori dei ragazzini in piazza: con la stessa spinta dovrebbero lavorare per il pubblico. Tutti scrivono che il problema del capitalismo è stato l’abbandono dello Stato: se siamo d’accordo che lo Stato deve tornare ad avere un ruolo, in tutti i campi, servono le forze per farlo. Ma su questo tema non ho letto una riga nel programma di governo”.

 Perché? Cosa impedisce che si agisca in questo modo?

“Perché il senso comune di questo drammatico trentennio ha messo fuori orbita lo Stato. Chi governa lo fa per editti, sanzioni o trasferimenti di somme monetarie: tre tipologie di interventi che non richiedono funzionari pubblici. È la cultura del neoliberismo, specie in versione italiana, che ha rinunziato alla pubblica amministrazione. Per fare un parallelo, è come se il manager di una grande Ong o impresa decidesse cosa vogliono fare l’anno successivo e l’ultima cosa di cui si occupasse fosse con quali dirigenti, con quali funzionari, con quali mission”.

 Invece il dibattito si è incistato subito sulla sugar tax, la tassa sulle merendine. È sensato che lo Stato dica alla gente come comportarsi?

“In astratto certo che può essere sensato. Nel governo Monti abbiamo discusso a lungo e avevamo deciso di fare un intervento molto duro contro la ludopatia, sia attraverso divieti che sul piano finanziario. Siamo stati fermati dal fatto che il gioco dà entrate allo Stato. All’epoca ci fu un confronto lungo e vivace in consiglio dei Ministri: se quel tipo di confronto diventasse pubblico, si litigherebbe per tre mesi e alla fine il Paese potrebbe mettere sulla bilancia la sacrosanta libertà di ognuno di fare quello che vuole – l’antipatia per lo Stato paternalista – e il fatto che questo abbia bisogno di paletti per non indurre preferenze. Significa insomma che tasse e divieti possono starci purché ci sia un serio pubblico dibattito, in modo che tutti possano capire perché si è presa una decisione”.

 Lei descrive una democrazia matura, con un cambio di passo notevole rispetto ai nostri standard, in cui il dibattito spesso si riduce in gag sui social. Spesso anche dei politici.

“Un cambio di passo in cui la partecipazione non è solo uno strumento per acquisire consenso. Ci sono due cose molto più importanti che passano dalla partecipazione: l’acquisizione di conoscenza e la comprensione delle ragioni per cui provvedimenti vengono decisi”.

 La partecipazione aiuterebbe forse a capire qualcosa di più sui migranti, un tema dalle posizioni radicalizzate e che il nuovo governo, in qualche modo, ha silenziato, dopo il disastroso climax salviniano.

“Esiste e sono stato in un’Italia, fatta anche di Comuni con sindaci leghisti, in cui la cittadinanza discute di dove è opportuno che i migranti dormano, di quanti accoglierne, di come accoglierli e via discorrendo. Territori in cui si percorre una strada partecipativa, che aiuta tutti a capire. Purtroppo però non è una prassi nazionale: non succede in modo sistemico. Serve invece un dibattito nazionale, e non sulle chiacchiere: bensì su come l’ingresso di un certo numero di migranti possa essere rigeneratrice della popolazione, o al contrario sfidante”.

 Il fil rouge di questa conversazione è che lo strumento con cui si possono trovare soluzioni è la partecipazione. Una parola in voga, una volta, ma oggi relegata al massimo alla reattività e alla velocità del digitale.

“La strada partecipativa è quella che fa funzionare tutto quello che già esiste nel Paese: se non ci fossero le molte esperienze in corso, il Paese sarebbe collassato. Si tratta dunque di renderla sistemica, di allargare la cittadinanza attiva. Quanto al digitale, lo stiamo usando male, lo stiamo usando per rimpiazzare il dialogo.

Potrebbe invece diventare uno strumento complementare, che allarga la cerchia, che rompe alcuni giri anche di classe che a volte caratterizzano la partecipazione, espandendola per poi portarla poi nel dialogico. Questa d’altronde è stata la parte più interessante dei Cinque Stelle, perché lì c’era un tentativo vero, per esempio nei primi meet up, che la mancanza di tempo poi ha soffocato”.

 

Lascia un commento