Covid-19 può distruggere l’Europa, non solo la Ue [di Nicolò Migheli]
Covid-19 si sta dimostrando essere un’arma con grandi capacità distruttive. Non solo i morti, i contaminati, le misure prese da quasi tutti i governi per il confinamento dei cittadini nelle proprie abitazioni, di sospensione delle attività produttive non necessarie e strategiche. Misure hanno effetti pesanti nella psiche, nelle condizioni di sopravvivenza. I più deboli sono già in situazione di quasi fame. Quando questo virus sarà sconfitto, ci lascerà un mondo che faremo fatica a riconoscere. Non è detto che le disparità sociali ed economiche che hanno segnato gli ultimi 30 anni saranno mitigate. I virus come le guerre premiano i più forti: chi avrà avuto la miglior gestione della crisi, chi avrà potuto esprimere un pensiero strategico guardando oltre. L’avrà vinta chi era più attrezzato non solo in termini di sistemi sanitari, ma nella capacità di poter reagire alla sfida. Si è scritto che in questa occasione si è usata troppo la metafora bellica, ma alla fine si conteranno i morti, le imprese distrutte, i cittadini privi di reddito, i Paesi impoveriti. L’America di Trump reagisce, con un impressionante piano finanziario, la Gran Bretagna cercherà di dare reddito a tutti, comprese le partite IVA prive di quei sistemi di compensazione economica che i dipendenti possono utilizzare. Loro sono i veri proletari di questo tempo. L’Italia è il Paese occidentale che per primo ha dovuto affrontare la peggior crisi dal dopoguerra. Dopo di lei, a distanza di poche settimane, Spagna e Francia si trovano quasi nelle medesime condizioni e il resto dell’Europa segue. Non ce n’era bisogno, ma il virus si sta mostrando un reagente che mostra la disunione europea e il dividersi secondo una linea che non è solo geografica ma culturale, affonda le radici in substrati di lunga durata. I premier di Italia e Spagna con Francia, Belgio, Lussemburgo, Irlanda e Slovenia chiedono l’emissione di Bond europei che servano non solo per finanziare i sistemi sanitari ma per sostenere le proprie economie colpite dalla crisi. Proposta bocciata, per il momento, dal gruppo dei Paesi del nord, Olanda e Germania, i Paesi Baltici e quelli del gruppo di Visegrád. La novità è che nel gruppo del nord si palesano defezioni: l’Irlanda, il Belgio e Lussemburgo che rompono una unità d’azione pluridecennale con l’Olanda in quel che fu il Benelux. Altra novità la Slovenia, in posizione contraria ai satelliti tedeschi dell’Europa Centrale. Una linea di faglia tra Paesi di tradizione cattolica e quelli protestanti. Si dirà che il cattolicesimo è presente anche in Olanda e Germania, che l’Austria è cattolica. Però la tradizione culturale dominante è quella protestante. Il successo economico visto come grazia divina, la responsabilità individuale come unico valore determinante l’accettazione sociale. Alla fine anche la salute di una persona rientra in quei parametri. Il debito poi, sempre e comunque visto come stigma negativo. Di fronte una tradizione cattolica che si fa forte del senso di comunità, offre maggior tolleranza, le responsabilità personali che un po’ si annacquano nella relazione. È una descrizione a colpi d’accetta, me ne rendo conto, però quei fondi culturali che ci portiamo dietro da cinquecento anni, creano diffidenze reciproche, producono immagini come il nord risparmiatore e il sud sprecone, il nord che lavora e il sud che si diverte. A cui corrisponde l’immagine dell’uomo del nord barbaro, che ha smesso di girare per l’Europa in tank perché può usare la Volkswagen, che si arricchisce alle spalle dei meridionali usando la finanza e la moneta comune. Pregiudizi forti da cui non sono libere neanche le classi dirigenti, anzi li usano per accrescere i loro consensi e sentirsi in sintonia con il popolo che coincide sempre con il loro elettorato. Nel 2017 l’allora presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem in una intervista alla Frankfurter Allgemeine Zeitung disse: Considero la solidarietà un elemento molto importante, ma chi la richiede ha anche obblighi. Non posso spendere tutti i soldi in alcol e donne e dopo chiedere aiuto. La prima parte della frase è corretta, quasi ovvia, la seconda con quel alcol e donne, non è solo una metafora da taverna ma rivela una mentalità, un atteggiamento verso quel meridione visto come luogo di divertimenti e perdizione, buono per le vacanze, ma con cui è bene averci a che fare il meno possibile se non per vendere le proprie merci. Di egual tenore decine di frasi dette e scritte da politici italiani come Salvini e compagnia. Il virus più difficile da combattere che si è impadronito delle nostre menti, è quello nazionalista, pudicamente si continua a definirlo sovranista, ma sciovinismo è la parola corretta. Un rinchiudere le frontiere in modo che il problema sia circoscritto al Paese che ce l’ha. Ma Covid-19 non conosce frontiere, così come non le conobbe la peste o l’influenza spagnola. Un dramma le cui conseguenze vanno affrontate insieme non certo usando strumenti come il Mes, il fondo salva Stati, che poi imporrebbe condizioni draconiane per chi vorrebbe usufruire di quei fondi. Nessuno oggi vuole una troika in casa. Nella frase usata da Conte: Allora facciamo da soli, c’è un non detto che sa di minaccia. L’Italia ha gli strumenti per rompere il fronte del nord. Basta mettere il veto al trasferimento dei fondi regionali ai Paesi di Visegrád, l’Italia potrebbe minacciare di farlo in ottemperanza alla risoluzione di condanna di Polonia e Ungheria espresse dal Parlamento Europeo perché in quei Paesi è a rischio lo Stato di Diritto. Un’altra azione potrebbe avvenire in ambito Nato. L’Italia e Spagna partecipano nella turnazione di difesa dello spazio aereo baltico con le proprie aviazione militari. Reparti militari di terra dei due Paesi sono stanziati in Lituania, basterebbe la minaccia di ritiro per far cambiare idea? Può essere, quei Paesi sono molto preoccupati dalla vicinanza con l’orso russo. Sarebbero però posizioni di rottura che non è detto che il gruppo meridionale voglia mettere in essere. In silenzio e senza tanti proclami la Commissione pensa già a definire dei progetti per la sanità e l’occupazione che abbiano come modello i tedeschi lavoro in solidarietà (Kurtzarbeit) finanziati con eurobond ad hoc. Perché sul tavolo vi è la sopravvivenza della moneta comune e, alla fine, della stessa Unione Europea. Non vi è altra strada, perché il tempo è veramente breve. L’appello drammatico di ieri sera del Presidente Mattarella conferma i rischi che si corrono. La fine della Ue sarà anche la fine del sogno di una Europa soggetto politico che possa confrontarsi con potenze planetarie come Usa e Cina. Un Finis Europae terreno di scorribande finanziarie e politiche di altri soggetti con i Paesi rinchiusi nelle loro frontiere sempre più esorcistiche che reali. Un quadro pessimistico? Forse, però anche nel 1914 nessuno voleva la guerra, si parlò di diplomazie sonnambule. Il rischio attuale non è una guerra intra-europea con le armi, bensì una lotta durissima di tipo finanziario e commerciale volta a indebolire l’altro magari per appropriarsi delle sue risorse. Questo mentre chi può nazionalizzerà le imprese e le banche in difficoltà salvandole dal fallimento. Edward Grey ministro degli esteri britannico il 3 agosto del 1914, dopo che il Parlamento ebbe votato l’entrata in guerra della Gran Bretagna al fianco della Francia nella Guerra Mondiale, guardò i lampioni di Londra che si accendevano e rivolto al suo segretario disse: Le luci dell’Europa si stanno spegnendo e non le rivedremo più nel corso della nostra vita. Per certi versi ebbe ragione, finiva la Belle Epoque, la decadenza dell’Europa cominciò allora. L’unità politica degli europei potrebbe essere lo strumento per invertire la tendenza storica. Però c’è bisogno di una classe politica all’altezza della sfida che sappia ragionare oltre giardino di casa, che abbia una strategia sovranazionale. Questo è il punto.
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