La bellezza dopo la peste [di Maria Antonietta Mongiu]

salus

L’Unione Sarda 2 Aprile 2020. La città in pillole. Nei giorni sospesi di un evento inaudito si cerca di scansare la sindrome descritta da Dino Buzzati ne Il Deserto dei Tartari e vissuta dall’ufficiale Giovanni Drogo nella Fortezza Bastiani dove trascorrerà il suo tempo aspettando un nemico che mai si materializzerà. Il tempo, sapientemente pianificato, si muta prima in routine e poi in compulsiva ritualizzazione per approdare alla nevrosi per una vita deprivata di possibilità.

Vivere significa sperimentare e senza non c’è conoscenza, ha detto, nei giorni scorsi, in un’intervista a El País l’ultranovantenne filosofo Emilio Lledó. Sul Corona virus? “Magari ci facesse uscire dalla caverna, dall’oscurità e dalle ombre” e sui suoi effetti la parola chiave è inexperimentado o non vissuto.

Quanto accade non è stato mai vissuto, prima d’ora, dalle attuali generazioni. E la retorica della guerra e la chiamata alle armi per combattere il comune nemico? Il filosofo rigetta ogni confronto perché la guerra l’ha vissuta: frastuono di aerei, terrore dei bombardamenti, confusione. Oggi dominano silenzio e paesaggi urbani vuoti come mai. Dove sta il virus inodore, insapore, insipido?

Ha ragione Lledó non ha nulla a che fare, a prima vista, con quanto guerre, epidemie, pestilenza si portano dietro: sangue, amputazioni, distruzione, fame, sporcizia. Eventi che hanno lasciato tuttavia anche una grande quantità di bellezza. Dopo la fine del mondo antico, nessun evento più della peste ha costruito chiese, conventi, ogni possibile declinazione di opere d’arte.

Forse la presenza mediatica degli scienziati contrapposti spiega l’iniziale percezione di estraneità collettiva verso la pandemia. Ma l’immagine dei mezzi dell’esercito con decine di bare ha innescato un indissolubile nesso, non solo iconografico, con ogni epidemia precedente.

E la città come luogo privilegiato della memoria di ogni sofferenza collettiva e della sua rielaborazione si è, improvvisamente, palesata in un orante nella piazza più importante del mondo. Un orante contemporaneo fattosi collettivo secondo un’iconografia, tra le più antiche del cristianesimo e di ogni religione, diffusa anche in Sardegna fin dal tempo dei nuraghi, e che come in un feedback si sovrappone a quel papa Gregorio Magno, noto alla Sardegna, che nel 590 vinse, si dice, la peste che durava dai tempi di Giustiniano. Invocò un’immagine, da allora salus populi romani, a cui l’orante contemporaneo, come tanti, si è affidato.

 

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