Vivalascuola. Dalla tragedia della pandemia alla farsa della “didattica a distanza” [di Giovanna Lo Presti]
lapoesiaelospirito.wordpress.com. Metto in premessa la mia opinione: per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale (sono ormai pochi quelli che hanno un ricordo preciso della guerra) ci sentiamo in pericolo come collettività. Le scuole sono chiuse e mi pare auspicabile e giusto che ogni insegnante desideri tenere i contatti con i propri studenti. Perciò approverei, da parte ministeriale, ogni caldo invito a mettere in campo i mezzi che si hanno per non interrompere la relazione educativa; esorterei anche i dirigenti scolastici a fornire ai loro docenti una serie di strumenti e di esempi su come continuare il colloquio con bambini e ragazzi. Invece no. Il ministro si lancia in affermazioni avventate, che non tengono conto dello stato reale della scuola italiana, abbonda in parole e difetta in contenuti, rovescia sui dirigenti la responsabilità di “gestire l’emergenza” e quelli, come caporalmaggiori che non vedono l’ora di esercitare il comando, rovesciano sui docenti circolari e, per non essere da meno del Ministro, producono enfatici proclami e non rinunciano a larvate minacce per gli inadempienti. Insomma, solo e soltanto per la scuola sembra che nulla sia cambiato: vediamo lo stesso stile, lo stesso velleitarismo, lo stesso ottundimento che prevale nella fase “normale”. Il momento è grave e non è il caso di aprire adesso un dibattito serio né sulla didattica a distanza né sull’uso (quanto opportuno?) delle Nuove Tecnologie (neanche poi così “nuove”) nei processi di apprendimento-insegnamento. Il dibattito, serrato, documentato, appassionato, avrebbe dovuto essere vivo e vitale da anni – tanto più che l’Italia (e direi l’intero Occidente) si trova ad affrontare una emergenza educativa che, pur meno funesta in tempi brevi rispetto a quella sanitaria, rischia di aver un impatto molto negativo nel futuro prossimo. Proprio perché il momento è grave sarebbe invece il caso di non parlare a vanvera, di lasciar da parte quello spirito di improvvisazione per cui gli italiani vanno famosi nel mondo e di abbandonare ogni sciocca forma di retorica e di esaltazione di un “ottimismo della volontà” di qualità almeno dubbia. Leggere le dichiarazioni del ministro Azzolina non può che destare perplessità; percepire il protagonismo della giovane ministra un po’ troppo spesso sottolineato da un sorriso color rosso fiamma ci mette in imbarazzo. Cominciamo a capire i motivi che portarono qualche mese fa (in un tempo che sembra ormai così lontano) il professor Massimo Arcangeli ad accusare, motivatamente, la ministra di plagio. Rinfreschiamo la memoria: Azzolina si presentò all’orale del concorso per dirigenti scolastici quando era già deputata, senza alcun senso dell’opportunità: si giustificò dicendo che, al momento dello scritto era soltanto una professoressa. La sua tesina conclusiva della SISS era in parte copiata da altri testi: si giustificò dicendo che era “soltanto” una tesina. La bibliografia della suddetta tesina, che chiudeva il percorso per l’abilitazione all’insegnamento, consisteva in CINQUE testi! Per questo fatto non risulta abbia fornito alcuna giustificazione. Inoltre, alla prova di Informatica, la ministra, che è quella stessa persona che inneggia ed esorta all’insegnamento a distanza, conseguiva il punteggio di 0 su 6. Zero, cioè nulla. Ed ora la Azzolina dichiara: “Ai docenti lo dico chiaro: andate avanti con la didattica a distanza. È il ministro dell’Istruzione che ve lo chiede. E ve lo chiede perché lo chiedono le famiglie e gli studenti. Perché c’è un mondo che sta cambiando repentinamente. Perché c’è un imperativo categorico, direbbe Kant, che dal di dentro, dalla vostra morale, vi direbbe di andare avanti”. Cosa ci deve colpire di più in questo appello? Il tono perentorio? La dubbia consequenzialità dei concetti? L’allure del testo che rende banale persino l’imperativo kantiano? Contro l’enfasi fuor di luogo, contro la retorica modernista, contro la mancanza di senso di realtà, che è il solo motivo che può portare ad affermare che qualche decina di milioni di euro possano risolvere il digital divide ed attrezzare adeguatamente tutte le nostre scuole c’è un antidoto. È quello, pochissimo praticato dai nostri politici, della sobrietà. Siamo convinti che i docenti italiani stiano facendo tutto quello che è nelle loro possibilità per star vicino ai propri studenti. Ma non è il caso che la ministra faccia pressione sui presidi ed organizzi inutili ed approssimativi rilevamenti, non ha senso che le cosiddette “buone pratiche” vengano spettacolarizzate attraverso una pagina Facebook, che fungerà da “vetrina principale”. Citiamo dal sito del MIUR: “Sarà poi possibile interagire, attraverso l’hashtag #LaScuolaNonSiFerma, su Instagram, postando storie e foto che alimenteranno questo racconto, anche sul social più amato dai ragazzi. Al via, poi, un canale Telegram dove ci saranno, oltre ai racconti e alle esperienze, informazioni utili per la didattica a distanza”. La scuola non ha bisogno di vetrine. La scuola non ha bisogno di vetrine, non ha bisogno di spettacolarizzazione; ha piuttosto bisogno di cultura, di capacità di riflettere, di senso della realtà, di capacità di immaginare un futuro migliore del presente troppo spesso “virtuale” in cui i nostri bambini ed i nostri ragazzi rischiano di arenarsi. Se la scuola “in presenza” incontra le molte difficoltà che tutti conosciamo, cosa potrà fare la scuola “a distanza”? Secondo chi scrive dovrebbe garantire, nel caso in cui lo possa fare, un canale di comunicazione che abbia un’unica pretesa: quello di non interrompere il colloquio tra adulti e ragazzi, quello di cogliere e dare risposta, se possibile, a tutti gli interrogativi che gli studenti vorranno porre, in questo momento critico, ai loro docenti. Per ora ogni insegnante di buon senso dovrebbe gettare alle ortiche lo svolgimento del programma, i voti, le esercitazioni di prammatica. Questo dovrebbe essere il momento di allargare l’orizzonte e toccare (soltanto laddove sia possibile farlo) tasti che la nostra scuola dimentica o non può toccare, stretta nelle angustie del programma da svolgere, delle valutazioni da dare “in congruo numero”, dei recuperi e di tutta quella rete di obblighi che soffoca la “comunità educante”. Qualche proposta operativa: si seguano nello svolgimento del programma le classi finali che dovranno dare l’esame di maturità a giugno. Con tutti gli altri studenti si trasmetta qualcosa che ha a che fare con la cultura dei loro docenti e che i tempi stretti della scuola “normale” non permettono di sviluppare compiutamente: si suggeriscano testi da leggere, musica da ascoltare, pensieri su cui confrontarsi – ma si lasci perdere lo “svolgimento del programma”. Una delle frasi più frequenti nell’aula insegnanti è “sono indietro con il programma”. Bene, è tempo di emergenza – lasciamo alle nostre spalle il programma e portiamoci avanti con la conoscenza. E dunque, la scuola deve agire con l’intelligenza della situazione: può ancora seguire (lo ripetiamo, dove si può con la formazione a distanza; altrove anche con quei mezzi sottovalutati dalla ministra, come l’invio di materiali didattici) gli studenti dell’ultimo anno. Con gli altri ci sarà tempo per completare le lezioni, per i compiti, per le interrogazioni ed i voti. Per quest’anno non auspicherei né scrutini abborracciati né una sanatoria generale; meglio sarebbe un passaggio sub condicione, sottoposto nel corso del prossimo anno a verifica e a convalida. Questo chiedono i tempi eccezionali in cui stiamo vivendo. E se vogliamo discutere con i nostri studenti più grandi (non è argomento da bambini) apriamo il dibattito sullo slogan “La scuola non si ferma”. A fine febbraio, secondo il sindaco Sala, nemmeno Milano si doveva fermare – tutti abbiamo visto lo spot demenziale “Milano non si ferma”. Pochi giorni dopo è stata la volta del “Restate tutti a casa”. Dunque, ecco un tema per discutere con gli studenti delle classi finali: hashtag LaScuolaNonSiFerma da una parte. Dall’altra il sublime Leopardi della Ginestra, che così parla della capacità distruttiva della Natura: … Con lieve moto in un momento annulla Basta un Coronavirus per metterci in ginocchio; questa consapevolezza ci deve esortare alla solidarietà e non certo a predicare le “magnifiche sorti e progressive” di una scuola che, scelleratamente, non si ferma mai. Apriamo il dibattito sullo slogan “La scuola non si ferma. Un libro che consiglierei per queste giornate lunghe si intitola Non c’è tempo. Diciotto tesi sull’accelerazione. Lo ha scritto Lothar Baier ed è stato pubblicato nel 2004 da Bollati Boringhieri. La tesi centrale, dimostrata in una serie di capitoli che toccano vari aspetti della modernità, attraverso una quantità multiforme di esempi, è che oggi la mancanza di tempo è una sensazione diffusa e paradossale. Quella stessa tecnologia che, almeno teoricamente, dovrebbe farci risparmiare tempo, paradossalmente distrugge questo bene prezioso. Non c’è tempo, per nessuno, nemmeno per i nostri bambini. Noi non abbiamo tempo per loro – “Il tempo è denaro”, affermava Benjamin Franklin e noi dobbiamo lavorare per guadagnare e non abbiamo più tempo per i nostri figli. A loro volta, i nostri figli non hanno tempo: li deportiamo dal corso di inglese a quello di nuoto, da quello di arti marziali a quello di danza, secondo i gusti, le preferenze, l’appartenenza sociale dei genitori. I bambini hanno vite sature di impegni e disimparano una capacità fondamentale: quella di non far niente, di annoiarsi in santa pace. Soltanto su questo terreno può attecchire il seme della riflessione, soltanto in lunghi pomeriggi vuoti da impegni può nascere e svilupparsi il gusto per la lettura, attività che esige lentezza e tempi distesi. Bambini e ragazzi sono da settimane liberi dagli impegni scolastici e vivono in un tempo sospeso ed in un clima claustrofobico. Il messaggio che la Scuola lancia, per bocca della sua rappresentante più alta nella scala gerarchica, si riassume, come abbiamo visto, nello slogan “La scuola non si ferma”. Se dovessimo raccogliere i testi ministeriali e le circolari emesse dai singoli dirigenti dopo la chiusura delle scuole a causa dell’epidemia sono certa che potremmo formarne numerosi volumi. Uno, solo ed importante era il messaggio che ci saremmo aspettati dai vertici ministeriali. Era necessario e sufficiente un appello ai più giovani a resistere e a sfruttare nel modo migliore – diverso per ciascuno di loro – il tanto tempo a disposizione, libero da impegni esterni; l’assicurazione che i loro insegnanti avrebbero fatto di tutto per essere loro vicini non per obbligo contrattuale ma per senso di umanità, per tenere in vita, anche nell’emergenza sanitaria, la relazione con i propri studenti; l’espressione di solidarietà alle famiglie, in prima linea per rassicurare e proteggere bambini e ragazzi. L’atteggiamento del Ministro ha favorito invece patetiche discussioni; i siti specializzati sono zeppi di testimonianze di docenti che si lodano imbrodandosi (e che vanno a rimpinguare le “buone pratiche” che la ministra vuole mettere “in vetrina”), di altri che, più realisticamente, denunciano l’impossibilità di praticare l’insegnamento a distanza (per mancanza di mezzi), di altri ancora che ricordano che l’Italia, anche da questo punto di vista, è frammentata, divisa tra chi ha e chi non ha. I dati odierni, forniti dallo stesso Ministro, ci dicono che 6,7 milioni di studenti sono stati raggiunti dall’insegnamento a distanza mentre 1,6 milioni non ne hanno potuto usufruire. Sulla maggioranza dei “raggiunti” una sola annotazione: come sono stati raggiunti? Qual è stata l’efficacia didattica dei molti sforzi messi in campo dai docenti? Abbiamo, senza alcuna presunzione, già la risposta a questa domanda: i più fortunati sono quelli di sempre, quelli che hanno il proprio computer, la linea Internet superveloce a disposizione, la propria camera in cui ritirarsi per seguire le lezioni, un efficace collegamento con la scuola, già rodato in precedenti occasioni etc. Questo non è l’identikit completo dei “raggiunti”, ma ci si avvicina. L’identikit dei “non raggiunti” è più semplice da disegnare: sono gli studenti più deboli, diseredati, proprio quelli che la scuola dovrebbe avere più a cuore, proprio quelli che la scuola come istituzione, anche in questa occasione, dovrebbe cercare di sostenere. E ritengo che sia più importante un sms, una telefonata affettuosa fatta dai loro insegnanti al gruppo dei “non raggiunti” di tutte le “buone pratiche” sbandierate in questo momento difficile. Spingere l’acceleratore sull’insegnamento a distanza, erigerlo a panacea di ogni male didattico, far credere (agli allocchi) che i mali della scuola italiana derivino dall’arretratezza tecnologica è stata un’operazione ipocrita o da ignoranti. Il primo compito di un educatore è quello di non lasciare indietro nessuno: al Ministero dovevano sapere che una quota consistente della popolazione studentesca non è in grado di usufruire dell’insegnamento a distanza. Azzolina si è comportata come chi, ben sapendo che una parte degli studenti di una classe non potrà parteciparvi per ragioni economiche, proponga un viaggio di istruzione molto costoso. Ha fatto molto male; male hanno fatto i dirigenti zelanti (moltissimi) che hanno assunto il tono del comando spingendo i propri docenti a praticare piattaforme più o meno improvvisate e modalità di formazione a distanza, riproponendo così i modi ed i tempi scolastici in modo parodistico; male hanno fatto i non pochi docenti che si son fatti belli di una situazione di vantaggio. Ancora una volta, una parte della scuola dimostra di essere contagiata da un virus per cui sembrerebbe non esserci rimedio, che è il virus del Primo della Classe. Ma c’è un’altra parte della scuola che non si arrende all’omologazione e, pur di fronte all’emergenza, mantiene capacità di giudizio: si dà da fare, ma rifiuta le “vetrine”, agisce ma continua ad essere perplessa di fronte alla retorica ministeriale, non rinuncia a giudicare le “nuove tecnologie” e si rifiuta di ritenerle il futuro dell’educazione. Questa parte viva della scuola italiana sa che imparare richiede tempo e pazienza, sa che nulla potrà sostituire il rapporto umano nella trasmissione del sapere. Sobrietà, conoscenza della situazione reale della scuola italiana, capacità di giudizio, riflessione sul potere negativo che le cosiddette “nuove tecnologie” hanno su bambini e ragazzi: ecco alcune delle principali mancanze di una ministra dell’Istruzione troppo poco istruita, nonostante le due lauree sempre esibite ed i concorsi superati. Anche la scuola si ferma quando è ora di riflettere sulla fragilità degli esseri umani. Perciò, allo slogan “La scuola non si ferma”, all’attivismo ad ogni costo noi opponiamo un altro pensiero: anche la scuola si ferma quando è ora di riflettere sulla fragilità degli esseri umani: gli adulti tendono una mano ai loro figli, ai loro studenti, li rassicurano ed insegnano loro che c’è un tempo per ridere ed uno per piangere, un tempo per correre ed un tempo lento che servirà da slancio quando la normalità tornerà. Abbiamo letto tante volte delle difficoltà dei nostri studenti nella lettura e nella scrittura; gran parte di tali difficoltà derivano dai ritmi accelerati che noi imponiamo loro, dall’atteggiamento insieme superficiale e bulimico verso l’acquisizione del sapere, dalla perdita di ogni gradualità nell’apprendimento. Abolito ogni Gradus ad Parnassum, abbiamo illuso i nostri bambini che l’ascesa al monte su cui abitano le Muse, laddove si trovano le più alte espressioni dell’umano, passasse per il coding, che il tablet fosse migliore del libro e del quaderno e che la velocità di un videogioco potesse sostituire, migliorandola, una qualsiasi lezione. E poi ci lamentiamo se non leggono e se non capiscono quello che leggono! Leggere e scrivere esige lentezza: soltanto con i tempi lunghi si impara a scrivere correttamente o a padroneggiare pienamente un testo. Dedico agli insegnanti questa bella citazione di Walter Benjamin, una delle tante presenti nel libro di Lothar Baier che ho citato all’inizio: “La forza di una strada è diversa a seconda che uno la percorra a piedi o la sorvoli in aeroplano. Così anche la forza di un testo è diversa a seconda che uno lo legga o lo trascriva. Chi vola vede soltanto come la strada si snoda nel paesaggio, ai suoi occhi essa procede secondo le medesime leggi del terreno circostante. Solo chi percorre la strada ne avverte il dominio, e come da quella stessa contrada che per il pilota è semplicemente una distanza di terreno essa, con ognuna delle sue svolte, faccia balzar fuori sfondi, belvedere, radure e vedute allo stesso modo che il comando dell’ufficiale fa uscire i soldati dai ranghi. Così, solo il testo ricopiato comanda all’anima di chi gli si dedica, mentre il semplice lettore non conoscerà mai le nuove vedute del suo spirito quali il testo, questa strada tracciata nella sempre più fitta boscaglia interiore, riesce ad aprire; perché il lettore obbedisce al moto del suo io nel libero spazio aereo delle fantasticherie, e invece il copista si assoggetta al suo comando. La pratica cinese del ricopiare i libri era perciò garanzia incomparabile di cultura letteraria, e la trascrizione una chiave per penetrare gli enigmi della Cina”. (1) Ed ora qualche dubbio sul fatto che la scuola italiana sia arretrata perché il “parco” delle tecnologie digitali è troppo sguarnito e, di conseguenza, non abbia la capacità di attivare un efficace insegnamento a distanza. Cominciamo dai più piccoli e citiamo uno documento dell’OMS: “I bambini sotto i cinque anni devono trascorrere meno tempo seduti a guardare gli schermi, o trattenuti in carrozzine e sedili, ottenere un sonno di qualità migliore e avere più tempo per giocare attivamente se vogliono crescere sani […] Per i bambini di 1 anno, si sconsiglia il tempo dello schermo sedentario (come guardare la TV o i video, giocare ai giochi per computer). Per quelli di età compresa tra 2 anni, il tempo di schermatura sedentaria non dovrebbe essere più di 1 ora; meno è meglio. I bambini di 3-4 anni dovrebbero: Trascorrere almeno 180 minuti in una varietà di tipi di attività fisiche a qualsiasi intensità, di cui almeno 60 minuti siano attività fisica di intensità da moderata a vigorosa, diffusa durante il giorno; più è meglio. Non essere trattenuti per più di 1 ora alla volta (ad es. carrozzine / passeggini) o sedersi per lunghi periodi di tempo. Il tempo dello schermo sedentario non dovrebbe essere più di 1 ora; meno è meglio”. (2) Ci pensino bene tutti coloro che vorrebbero fornire ai “nativi digitali” un tablet insieme con il biberon. Anche per i più grandicelli, però, l’esposizione allo schermo di un tablet, di uno smartphone, di un computer non è poi così raccomandabile. Ce lo dicono ormai numerosi studi di neuroscienziati che lanciano l’allarme (ignorato da troppa pedagogia d’accatto) sull’uso precoce delle “nuove tecnologie”. Tra tutti coloro che hanno studiato l’argomento uno dei più famosi è il neuropsichiatra Manfred Spitzer (3), del quale raccomanderei caldamente (anche ad Azzolina) la lettura di un saggio, eloquente già dal titolo, Demenza digitale. La tesi centrale del libro è netta: i computer non sono macchine per imparare ma macchine per ostacolare l’apprendimento. Non solo: il loro uso precoce influisce in modo decisivo sullo sviluppo cerebrale e, poiché il cervello si sviluppa analogamente ai muscoli, ancorché in modo più complesso, l’apprendimento è alla base del suo sviluppo. Risulta indispensabile una interazione attiva con l’ambiente e sono le prime fasi della vita umana quelle decisive per lo sviluppo cerebrale. Cosa c’è che non va nell’uso intensivo dei nuovi media nell’infanzia e nell’adolescenza? Il fatto che il computer sottragga a chi lo usa lavoro mentale: “I media digitali rendono superficiale il pensiero, distraggono ed inoltre presentano effetti collaterali indesiderati...”. La scarsa capacità di memorizzare dei nostri giovani, la difficoltà nella lettura e nella scrittura che ogni giorno verifichiamo ne sono buoni esempi. Potremmo spingerci oltre, poiché l’uso scolastico dei media digitali è soltanto una parte della colonizzazione che tali tecnologie hanno operato sulla mente dei più giovani. La violenza gratuita che caratterizza molti videogiochi, la pornografia che dilaga su Internet non possono essere neutre rispetto alla formazione della personalità dei più giovani. Conseguenze ne sono lo sviluppo di un’affettività turbata e di un immaginario erotico che certo non contribuirà ad un sereno sviluppo della personalità. Chi lo nega, nega una evidenza. Il computer è la tipica macchina ammazza-tempo: dovrebbe velocizzare molte operazioni ed invece divora grandi quantità del nostro tempo. Ma, soprattutto, siccome qui non stiamo parlando di adulti ma di bambini e di adolescenti, non è, lo ripetiamo, una macchina adatta ad imparare, se non in casi eccezionali: se noi vivessimo in paesi in cui la scuola più vicina dista settanta chilometri, accoglieremmo con entusiasmo la possibilità dell’insegnamento a distanza. Sia ben chiaro, quindi: non facciamo parte dei laudatores temporis acti, non rimpiangiamo nessun passato edenico e non neghiamo, per gli adulti, possibilità di usi importanti e notevoli delle nuove tecnologie. Vorremmo soltanto lanciare l’allarme rispetto al mito del digitale applicato all’insegnamento. Se i nostri politici fossero più onesti (e più colti) dovrebbero riconoscere che anche quelle fonti ufficiali cui fanno continuo riferimento non hanno evidenziato alcun effetto positivo dell’introduzione del computer nella didattica. Technology can amplify great teaching but great technology cannot replace poor teaching. I dati Ocse presenti in un rapporto su istruzione e competenze informatiche apparso nel 2015 (4) e relativo ai dati PISA del 2012, evidenziava che“in Spagna o in Svezia, dove l’uso del computer a scuola è più frequente che altrove, i risultati degli studenti nei test sulle abilità legate alla Lettura in Digitale non appaiono particolarmente brillanti (498 punti in Svezia e 466 in Spagna, contro la media OCSE di 497). Viceversa, in Corea e Shanghai-Cina, Paesi nei quali rispettivamente solo il 42% e il 38% degli studenti quindicenni ha riferito di usare un pc o un tablet a scuola, gli studenti hanno ottenuto livelli di performance tra i più elevati nei test proposti, raggiungendo rispettivamente i punteggi di 555 e 531”. (5) Ecco un altro paradosso per i fautori della didattica basata sui media digitali. La conclusione è che il “rapporto migliore tra uso del computer a scuola e risultati degli studenti sembra prodursi quando gli studenti fanno un uso moderato del computer, a fronte di risultati in Lettura in Digitale inferiori quando l’utilizzo giornaliero del computer è eccessivamente/molto limitato o, all’opposto, è molto/eccessivamente intenso”. Nello stesso rapporto compare un aspetto del digital divide che è bene segnalare: il rapporto, infatti “analizza anche la “disparità digitale” (digital divide) su base sociale. In Italia ha accesso a internet il 92,9% degli studenti svantaggiati (6,3 punti percentuali in meno degli studenti avvantaggiati) i quali passano su internet 94 minuti al giorno (nel weekend; 7 min./g. in più degli avvantaggiati), ma solo il 66,2% lo fa per cercare informazioni pratiche (il 13% in meno degli avvantaggiati), mentre il 42% naviga su Internet per i giochi (2,2 punti percentuali in più degli avvantaggiati)”. Conclusione: un’ottima tecnologia non può sostituire un cattivo insegnamento. “Aggiungere le tecnologie del 21esimo secolo alle pratiche di insegnamento del 20simo secolo semplicemente diluisce l’efficacia dell’insegnamento. Se gli studenti usano lo smartphone per fare copia e incolla è improbabile che questo li aiuti a diventare più smart. La tecnologia può amplificare l’effetto di un ottimo insegnamento, ma un’ottima tecnologia non può sostituire un cattivo insegnamento”. Un altro prezioso saggio che indica in maniera documentata i “rischi della scuola 2.0” è Senza educazione di Adolfo Scotto di Luzio (6). Merita di essere letto e qui mi limito ad esporre una delle tesi centrali: non ci sono evidenze che l’informatizzazione della scuola migliori i risultati degli studenti (abbiamo appena visto che ci sono, anzi, evidenze contrarie) e destinare cospicui investimenti all’informatizzazione non farà che aggravare il già penoso stato della scuola italiana ed accrescere il divario tra gli studenti provenienti da strati sociali disagiati e studenti che invece appartengono a strati privilegiati dal punto di vista sociale, economico, culturale. Insomma, digitalizzare comporta il forte rischio di una “scuola di classe 3.0”. Non vorremmo che, anche in questo campo, ci si comportasse come già s’è fatto in altri. Oggi sono chiari a (quasi) tutti i risultati preoccupanti cui hanno portato le politiche di “rigore” dell’Unione europea: ridurre la spesa sociale ha minato il sistema sanitario e la scuola, ridurre i redditi delle famiglie ha creato situazioni di disagio esistenziale non da poco, rendere “flessibile” il lavoro ha fatto crescere la disoccupazione e precarizzato la vita di troppe persone. I “rigoristi” europei chiedono ancora e ancora di tagliare e si comportano come quel medico senza testa che, vedendo che la cura non funziona e che il paziente peggiora, si ostina e persevera, limitandosi ad aumentare le dosi degli stessi farmaci. Se così sarà, se non si arriverà – e in fretta – a cambiare la cura, provvedendo velocemente alla redistribuzione della ricchezza sociale e del lavoro, l’uscita dalla pandemia sarà l’inizio di una guerra sociale dissennata. A paragone di tali pericoli sia le fantasie attuali di Azzolina sia le spinte verso una accelerata ed acritica informatizzazione delle scuole sembrano poca cosa. Ma prima o poi la pandemia passerà ed allora ci dovremo trovare pronti a dire la nostra anche su questi aspetti adesso marginali. Abbiamo visto a cosa sta portando lo smantellamento del nostro sistema sanitario; le conseguenze dell’emergenza educativa sono meno clamorose ma altrettanto preoccupanti, almeno per chi crede nella possibilità di una società migliore della nostra, in cui tutti possano aspirare a sviluppare le proprie attitudini e a condurre una vita felice. Note (1) W. Benjamin Strada a senso unico in Opere complete, a cura di E. Ganni, vol. 2, Scritti 1926-1927, Einaudi, Torino 2001. (3) M. Spitzer, Demenza digitale, Il Corbaccio, Milano 2013. (4) OECD (2015), Students, Computers and Learning: Making the Connection, PISA, OECD Publishing. http://dx.doi.org/10.1787/9789264239555-en. (5) https://www.istruzione.it/allegati/2016/MIUR_2015-Studenti-computer-e-apprendimento.pdf (6) A. Scotto di Luzio Senza educazione. I rischi della scuola 2.0, Il Mulino, Bologna 2015.
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Artículu meda, ma meda interessante e, a parte sas chistiones de custu tempus de corona virus (si custu ebbia at a èssere e fintzas a candho!) ponet una chistione manna e generale: de comente e pro ite est fata cust’iscola e no solu si pessamus a su “digital divide” (e cantos àteros “divide”!), coment’e chi sos chi ‘current’ e podent ‘cúrrere’ de prus assuprant innantis a su “paradisu terrestre”.
E, comente sempre fit, est sempre tempus de pessare a comente e pro ite est fata s’iscola e ancora prus urzente cantu prus graves sunt sas dificurtades no solu in generale ma mescamente pro sa zente prus in dificurtade (e no naro nudha de nois Sardos!).
In cantu a custa “ministra” no faghet meraviza: apo a nàrrere solu chi de candho apo comintzadu sa profesione mia de docente e apo osservadu su chi est s’iscola e comente si faghet e ‘funtzionat’, poto nàrrere chi mai perunu Guvernu de calesisiat orientamentu políticu (e ojamomia si ndhe fontomamus calicunu cun calicun’àtera “ministra”!) mai manc’unu at tentu un’interessamentu sériu pro s’iscola: fossis bi ponent prus imprastu e interessamentu pro s’allevamentu de sos cadhos chi no pro sa formatzione umana, culturale, sociale, professionale de sos cristianos!
Riguardo al digitale, come sottolinea bene l’articolo interessante della Lo Presti, se esso può svolgere un ruolo determinante in questa fase emergenziale della pandemia per attivare la didattica a distanza, l’unica possibile al momento, non è invece rilevante in condizioni di normalità. Dalle esperienze pluridecennali avvenute in tante scuole e università del mondo, in contesti adeguati e docenti ben formati, si sono potuti riscontrare risultati mediocri i cui effetti collaterali denunciano addirittura un autentico fallimento. Il limite di fondo riscontrato nella didattica orientata dal digitale consiste nella banalizzazione dell’apprendimento che scivola nel nozionismo sostituendo la conoscenza con l’informazione. Se una pratica didattica ostacola la produzione di conoscenze e si limita a informare vuol dire che è da rivedere, nel caso in questione quindi il digitale non può essere visto come la panacea che risolve i problemi della didattica e in particolare quelli della scuola italiana. E’ urgente sconfiggere la mitologia superstiziosa che a scapito della realtà vuole far credere che grazie alle nuove tecnologie siano garantiti i successi formativi. I problemi della scuola italiana sono da ricercare nell’incapacità che essa dimostra di non essere capace di produrre conoscenze serie e complesse e come conseguenza a questo limite di non riuscire a intercettare la formazione educativa dell’allievo.
La didattica per competenze imposta in modo scellerato in quest’ultimo decennio ha sacrificato gli obiettivi formativi più ambiziosi, che si alimentano di conoscenze profonde, a vantaggio di abilità sbriciolate che non lasciano tracce sia per costruire una testa ben fatta, secondo la definizione del sociologo della complessità Edgar Morin, sia per formare la personalità dell’alunno in direzione della consapevolezza. Non è un caso che la didattica frammentaria e nozionistica delle competenze ha trovato un alleato formidabile nel digitale.
Grazie per l’ analisi esaustiva ed esatta, appassionata e realistica della scuola e dello scempio che di essa ha fatto la politica sotto il mito cieco e ignorante, disumano, di far apprendere facendo, senza ascolto, senza pensiero, senza riflessione, senza il riconoscimento della propria minorità rispetto agli adulti preposti a guida nella conoscenza e nel mondo straordinario delle discipline coltivate dall’ uomo nei secoli. Tutto azzerato e appiattito sul presente Smart delle nuove tecnologie, su cui si può vedere un sapere frammentato e riverniciato a nuovo, con luci, suoni e colori che nulla hanno del garbo, della cura lenta e profonda della parola, della lettura, dell’ immaginazione. Un sapere spettacolarizzato ed indecente, come ho trovato anch’ io da subito indecente, brutale, lo slogan ” la scuola non si ferma” nel periodo della fragilità estrema della pandemia. Fragilità di tutti, cui l’ Occudente ha risposto al solito con le stesse formule: salvare il modo di vita consumistico e accelerato di sempre. Salviamoci da questa Babilonia. Non siamo complici di questo carnevale impazzito, che ha deturpato anche la scuola e umilia gli insegnanti. Tra questi purtroppo non molti se ne accorgono, anzi sono pronti a prostituirsi. Ed ha ragione la collega: la sindrome infantile da primo della classe che divide e indebolisce il corpo docente lo rende anche cieco e vulnerabile agli assalti continui di sedicenti esperti esterni, imbonitori e politici allo sbando che pretendono di dettarci tempi e regole del nostro lavoro. Diciamo NO, manteniamoci sani.