Com’è viva la città. Cultura e rapporti sociali non solo case e strade: la patria delle differenze [di Salvatore Settis]

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La Stampa 23 aprile 2020. Nell’era delle megalopoli che divorano, un richiamo ai valori morali della vita urbana e al paesaggio, che generano divisioni al loro interno, scritti nella storia e nella nostra Costituzione. In Italia non ci sono ancora megalopoli come quelle dei continenti asiatico e americano, ma si vanno formando enormi conurbazioni che tendono a unire fra loro città storicamente distinte: per esempio quelle del Veneto, Milano e Torino, l’asse Roma-Napoli. Un crescente urban sprawl divora i confini fra campagna e città, crea vaste e indifferenziate periferie, trascina con sé problemi irrisolti di distribuzione dei traffici e dei servizi pubblici.

Accanto a questa occupazione degli spazi in estensione (la megalopoli), plasma le città del futuro anche quel che Vittorio Gregotti chiamava «grattacielismo», l’occupazione dello spazio in altezza (o vertical sprawl): il grattacielo, inteso come simbolo della modernità, ha finito così con il modificare lo skyline di alcune città storiche, come Milano e Torino. Infine, mentre la città si espande divorando il paesaggio, essa al tempo stesso si frammenta, esprimendo dal suo seno due formazioni opposte e complementari: la favela e la gated community.

Un altro modello è possibile. Le mura della città diventano mura nella città. Un tempo separavano lo spazio urbano dalla campagna, ora sono mura intra-urbane che circondano le gated communities, cittadelle fortificate per benestanti, o invisibili frontiere che delimitano i quartieri dei poveri, degli immigrati di ultima generazione, degli esclusi.

Si materializza così il processo di auto-segregazione delle classi abbienti che preferiscono non mescolarsi con altri strati sociali, si diffondono i ghetti urbani. Mentre la città cresce in estensione e in altezza, si va incistando nella nostra società un’implacabile «suburbanizzazione» del mondo. Si formano nuovi spazi dell’esclusione che si presentano come conseguenze necessarie dell’economia di mercato, ma sono altrettante bombe a orologeria nell’orizzonte della democrazia.

Tuttavia questo modello, che rischia di apparirci l’unico possibile, contrasta vivamente non solo con la storia, ma anche con la nostra naturale aspirazione alla felicità. Le città storiche, in Italia e non solo, ci parlano un altro linguaggio. Ci dicono che la città ha un’anima e un corpo. Un corpo fatto  di mura, di edifici, piazze e strade, ma anche del paesaggio/ambiente circostante. Un’anima che sono non solo i suoi abitanti, donne e uomini, ma anche una viva tessitura di racconti, di memorie e di principi, di linguaggi e desideri, di istituzioni e progetti.

Interazione tra anima e corpo In ogni città dobbiamo saper distinguere le case e le persone, le chiese e i palazzi, gli spazi pubblici e quelli privati, le voci e le luci; la dimensione domestica e quella del rito (religioso, politico) o del mercato, lo spazio delle interazioni sociali, degli spettacoli e dello sport, della scuola e della cultura, della giustizia (i tribunali) e della salute (gli ospedali).

Proprie di tutte le città, queste e altre componenti vi si articolano in modo sempre diverso: ed è questa «diversità» che fa della forma-città la più importante, la più varia, la più promettente creazione culturale della civiltà umana. L’interazione fra anima e corpo forma una città invisibile, costruita intorno a un’idea di comunità: quella che i greci chiamavano polis, e che la nostra Costituzione richiama a ogni passo come costitutiva della Repubblica, ricorrendo a formulazioni sintetiche (come «popolo» o «formazioni sociali ove si svolge la personalità del singolo»). […]

La città per Pericle – secondo il racconto di Tucidide – è il centro e il senso della vita civile. La bellezza dei suoi edifici e dei suoi spettacoli è tutt’uno con la forza d’animo che sa trasmettere ai suoi cittadini. Questo seme, gettato ad Atene, ha fruttificato a lungo nella tradizione culturale europea, che si è spesso soffermata a riflettere sul giusto rapporto fra la città e le virtù civiche del cittadino.

Anima e corpo della città si integrano e si compenetrano, ed è per questo che la città storica è «opera d’arte» e non solo prodotto materiale. Risulta dalla produzione di mura, chiese, case, ma anche di cultura e rapporti sociali. Respira e cresce con i cittadini che la creano e la cambiano nel tempo, si alimenta della loro inventività e li alimenta (ci alimenta) con le sue ritualità sempre rinnovate. È in questo contesto che nasce la nozione, sociologica prima che giuridica, di «diritto alla città». […]

La città storica è un orizzonte entro il quale lo scambio di esperienze e di emozioni avviene grazie al luogo e non grazie al prezzo. Perciò diritto alla città e diritto alla natura (ambiente/paesaggio) non sono solo complementari: tendono a integrarsi fino a coincidere. Diritto alla vita urbana vuol dire diritto alla sua trasformazione secondo un progetto che sia trama e matrice del futuro, che veda la città come culla dell’alterità e patria delle differenze. Creazione collettiva di tutte le classi sociali, la città è per sua natura «fondata sul lavoro»: sul lavoro delle generazioni passate e sulla capacità di creare lavoro per le generazioni future. Microcosmo e fucina del pensiero, essa vive della propria diversità; aggancia l’attenzione con le sue disomogeneità interne, che accrescono il suo spessore antropologico e l’esperienza dei cittadini e dei forestieri. […]

La promozione della cultura scientifica e tecnica, la tutela del paesaggio (dunque anche dell’ambiente) e del patrimonio storico e artistico di cui all’articolo 9 della Costituzione, ricadono in pieno in questa dialettica fra anima e corpo della città. Una catena montuosa, un tratto di costa, una piazza, un palazzo pubblico, una pala d’altare sono sul versante «corporeo», ed è come tali che vanno protetti con tecniche di conservazione e di restauro; ma devono esserlo a causa del loro altissimo significato e potenziale «spirituale».

Sono la nostra anima, senza la quale anche il nostro corpo deperirebbe. È quel che nel 1920-21 dissero in Senato il presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti e il ministro della Pubblica Istruzione nel successivo governo Giolitti, Benedetto Croce.

Secondo Nitti, la necessità di «difendere e mettere in valore, nella più larga misura possibile, le maggiori bellezze d’Italia, quelle naturali e quelle artistiche» risponde ad «alte ragioni morali e non meno importanti ragioni di pubblica economia»; mentre Croce, proponendo in aula la prima legge italiana a tutela del paesaggio, significativo precedente dell’articolo 9, sottolineava che un «altissimo interesse morale e artistico legittima l’intervento dello Stato» a protezione di monumenti e di paesaggi, poiché il paesaggio naturale e storico «altro non è che la rappresentazione materiale e visibile della patria, coi suoi caratteri fisici particolari, con le sue montagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo, quali si sono formati e son pervenuti a noi attraverso la lenta successione dei secoli.

*Il testo che qui anticipiamo è tratto dal saggio di Salvatore Settis nell’ebook La città per l’uomo ai tempi del Covid-19, in uscita oggi per La nave di Teseo (pp. 160, € 9,99). Altri testi di Giovanni Maria Flick, Luca Bergamo, Margherita Petranzan, Franco Purini.

 

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